RENZI FERMATO DAL SIGNOR NO
COME LE CONDIZIONI DEL SIGNOR ROSSI E UN SMS HANNO CANCELLATO I SOGNI QUIRINALIZI DI RENZI
La telefonata da Roma c’è stata, Pier Luigi Bersani ha chiamato il presidente della Toscana, Enrico Rossi, per affrontare il “caso Renzi”.
Nessuna imposizione, “sono fatti che devono restare dentro i confini regionali” ha detto il leader del centrosinistra, invitando il governatore a risolvere le cose “al meglio”.
Alla fine è andata come i bersaniani speravano, perchè l’immagine di Matteo Renzi protagonista del Transatlantico di Montecitorio per una settimana aveva disturbato i sonni di molti.
Rossi ha dettato tre condizioni che hanno impedito al sindaco di partire per Roma: il supporto unanime del gruppo regionale Pd, la rinuncia di Alberto Monaci, presidente del Consiglio toscano, e rinuncia ufficiale di Renzi ai voti del Pdl (perchè il sindaco, con il sostegno dell’opposizione, rischiava di prendere più voti del governatore stesso).
Alla fine, del terzo presupposto non c’è stato nemmeno bisogno, perchè sono mancati i primi due.
Il gruppo si è spaccato, dodici voti contro Renzi e dieci a favore.
Durante la riunione, durata undici ore, si è sfiorata la rissa.
Perchè un accordo che sembrava solido è venuto a mancare all’ultimo momento. Decisivo l’intervento di Rossi che ha annunciato ai colleghi l’sms di Alberto Monaci, irreperibile da dieci giorni per un problema di salute, dove spiegava che stava bene e poteva farcela: “Dò la mia disponibilità a partecipare alla seduta plenaria del Parlamento”.
Il segnale, insieme alla frattura nel partito, che l’operazione non si poteva fare.
E alla fine anche chi era convinto di votare a favore del sindaco, si è tirato indietro. Sulla graticola sono finiti i franceschiniani (Parrini, Venturi, Rossetti) e i dalemiani (Naldoni, Ruggeri, Morelli).
Dietro di loro lo spettro delle pressioni romane. “Non ho svolto alcun ruolo nè mi è stato chiesto di svolgerlo — ha dichiarato Antonello Giacomelli, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera — rispetto l’opinione di tutti ma ribadisco che, a quel punto, esaurita ogni possibilità di scelte condivise, avrei votato Renzi”.
Lui è stato uno dei primi ad essere accusato di responsabilità nella decisione perchè l’area Dem, quella di Franceschini appunto, si era sempre detta a favore del sindaco. Ma nonostante il patto di non belligeranza nel partito fiorentino tra renziani e uomini del segretario regionale Andrea Manciulli, le parole di Rossi illuminano sulle reali possibilità che l’operazione ha avuto di andare in porto: “Non poteva essere un’eccezione toscana, serviva un accordo nazionale per cui si stabiliva che uno dei tre delegati era un sindaco, rispettando le minoranze come chiede la Costituzione”.
Ma molte Regioni avevano già eletto i loro rappresentanti quando è nata l’ipotesi di candidare Renzi.
Non è servito nemmeno appellarsi al precedente, comunque fallimentare, del 2006, quando fu proprio lo stesso Monaci a chiedere, invano, che i tre rappresentanti non fossero figure istituzionali del Consiglio ma “delegati dalla Regione”.
In quel caso Monaci voleva ostacolare Riccardo Nencini, presidente all’epoca dell’assemblea toscana, e il voto che il socialista avrebbe garantito alla radicale Emma Bonino.
Per Renzi sarebbe dovuta andare diversamente, soprattutto dopo l’assenso del segretario Manciulli, dalemiano, che evidentemente, però, non aveva fatto i conti col signor Rossi e con gli sms dell’ultimo momento.
Giampiero Calapà e Caterina Perniconi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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