Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
SETTIMANA DECISIVA PER L’ELEZIONE DEL SUCCESSORE DI NAPOLITANO, MA NON EMERGE UN “NOME CONDIVISO”…MARTEDI’ NUOVO INCONTRO BERSANI-BERLUSCONI…PRODI E’ INVISO AL CAVALIERE, RODOTA’ PIACE AL M5S, LA FINOCCHIARO E’ BEN VISTA DALLA LEGA
E’ la settimana in cui si deciderà come sarà l’Italia non per i prossimi dieci mesi ma per i prossimi dieci
anni.
Dipenderà tutto dal nome del prossimo Capo dello Stato e se questo nome sarà stato condiviso o meno dalle forze poltiche uscite dalle urne di febbraio.
Al momento, non c’è nulla di cui stare allegri.
I partiti sono su posizioni siderali gli uni dagli altri e persino il nome di Prodi, pronunciato con l’intento di bruciarlo da parte del Cavaliere a Bari, ha creato scosse telluriche pesantissime nel Pd.
Che tanto per cambiare si è dimostrato diviso persino sul fondatore dell’Ulivo.
In questo quadro di un paese in piena crisi politica ed economica andranno a votare (loro, i grandi elettori) per il nuovo Capo dello Stato quando saranno passati 54 giorni dalle elezioni di febbraio, senza che nel frattempo si sia mosso assolutamente nulla rispetto a quando siamo andati a votare noi per eleggere loro.
Ma, come sempre, tutto dipenderà da un incontro nelle segrete stanze, quello di martedì prossimo tra Berlusconi e Bersani, l’ultimo prima che la Camera di riunisca in sessione speciale. In questi giorni gli sherpa dei due schieramenti si sono più volte confrontati, prima cercando — come voleva Berlusconi — di trovare un accordo sia sul Quirinale che sul governo, poi si è passati al parlare solo del nome del possibile successore di Napolitano.
E l’accordo è lontano pure qui.
Qualcuno sostiene che sia Berlusconi che Bersani hanno un nome che tengono coperto fino alla quarta votazione, per non bruciarlo.
Altri, forse più pragmaticamente, sostengono invece che si sta andando avanti a tentativi e che alla fine uscirà , come sempre, il meno peggio.
La tradizione non mente.
Rodotà , che piace ai grillini, è indigesto al centrodestra e non tutto il Pd lo voterebbe. Marini, che piace al centrodestra, nel Pd lo voterebbero solo i popolari e per i grillini sarebbe indigeribile.
La Finocchiaro la voterebbe solo il suo partito e la Lega; potrebbe anche farcela, ma il peso del rinvio a giudizio che pende sulla testa del marito, Melchiorre Fidelbo, per abuso d’ufficio e truffa aggravata rende praticamente impossibile una sua salita al Quirinale.
Insomma, dei nomi usciti fino ad oggi, tutti hanno qualche problema.
E siccome è quasi impossibile che Berlusconi e Bersani trovino una quadra su un nome solo, è probabile che si arrivi alla quarta votazione navigando a vista.
E a quel punto potrà succedere di tutto.
Tanto per ricordarlo, in totale a eleggere il capo dello Stato saranno 1007 votanti: 945 parlamentari (630 deputati e 315 senatori), i quattro senatori a vita attuali e 58 delegati regionali.
Nei primi tre scrutini è necessaria la maggioranza di due terzi (671 voti) dei componenti dell’assemblea, mentre basta la maggioranza assoluta dei votanti, 504, dal quarto in poi.
L’elezione si svolgerà a scrutinio segreto e senza che si possa dare, in aula prima del voto, pubblicità dei nomi che ciascun gruppo intenderà votare.
Tutto avverrà nelle segrete stanze, consuetudine che, visti i tempi, sa veramente di muffa e di stantìo.
Ma proprio perchè la liturgia sarà ancora questa e il dialogo potrebbe non cercarlo nessuno che, alla fine, dalle urne potrebbe uscire una sorpresa.
Brutta o bella lo si giudicherà poi.
Ci sono ancora quattro giorni, comunque, tempo per trovare una quadra ci sarebbe, ma le possibili elezioni a breve rendono indisponibili le parti ad esporsi per il rischio d’essere accusate d’inciucio e puniti dall’elettorato.
Serve “che i partiti si facciano carico — diceva Napolitano fino a ieri — di senso di responsabilità verso il Paese, serve un governo di larghe intese”.
Sarà il prossimo Capo dello Stato a tirare le fila di questo nuovo, grottesco capitolo di storia politica del Paese.
E di sicuro, chiunque egli sia, tenterà in ogni modo di dare un governo all’Italia, anche solo per poco tempo, per non essere immediatamente costretto a sciogliere le Camere che lo hanno eletto, condannandosi a un settennato di estrema debolezza politica.
Ma questo, comunque, si vedrà . Prima ci sarà il voto di giovedì prossimo.
Che ancora una volta sarà certamente molto combattuto. “A parte il caso di Cossiga — ha ricordato in una recente intervista il senatore a vita Emilio Colombo, che ha partecipato alla scelta degli ultimi Capi dello Stato — tutte le elezioni sono state molto combattute a partire da quella di Luigi Einaudi che prevalse grazie a 17 franchi tiratori” su Carlo Sforza che era ”particolarmente libero nel rapporto con il gentil sesso”.
Tra le varie elezioni quella di Leone, del ’71, dopo 23 votazioni, quando ”scegliemmo tra lui e Moro con le primarie — ha ricordato ancora Colombo — riunimmo i gruppi parlamentari democristiani e chiedemmo di votare tra i due, impegnando tutti alla segretezza assoluta perchè non trapelasse l’immagine di un partito diviso: una volta scrutinata, ogni scheda veniva bruciata all’istante”.
Altri tempi, stessa musica di oggi.
Diverso senso dello Stato.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
I SOLITI MISTERI: NESSUNO HA COMUNICATO IL NUMERO DEI VOTANTI SUI 48.282 AVENTI DIRITTO
“Scusate, sono in vestaglia, senza barba fatta e spettinato, ma non riesco a non sfogarmi: sono a-l-l-i-b-i-t-o dalla scelta di questi dieci nomi, in particolare per Prodi e la Bonino. Non posso accettare che gli iscritti al Movimento li abbiano votati”.
I risultati delle Quirinarie sono pubblici da più di un’ora.
Ma Salvo Mandarà non ha ancora smaltito la botta.
Così, di getto, accende la telecamera e manda in rete tutta la sua delusione. Mandarà è stato l’ombra di Grillo durante la campagna elettorale, l’inventore de La Cosa, il pioniere dei ritrovi virtuali in hang out.
Tra una tappa e l’altra, lavava i piatti. E anche se lo Tsunami tour ha spento i motori da più di un mese, è interessante risalire su quel camper per capire dove va, il Movimento.
Ecco, nel giorno in cui le Quirinarie incoronano i dieci nomi papabili per il Colle, nelle ore in cui tutti sottolineano il fiuto politico di chi ha scelto Prodi e Bonino (prima e settimo, in ordine alfabetico), sul camper, i tre compagni di viaggio di Grillo, ingranano la retromarcia.
Mandarà si è già sfogato, l’autista, Walter Vezzoli, scrive “Gabanelli for President!”, mentre il genovese Fulvio Utique, factotum del tour, pubblica l’elenco degli “eletti”, ma al posto di Prodi, scrive “Topo Gigio”.
Il quartetto del camper, però, ormai è cresciuto.
Anche se è impossibile sapere di quanto.
Sul blog Grillo che gli aventi diritto al voto (iscritti al Movimento entro il 31 dicembre 2012 che hanno inviato il loro documento d’identità entro il 31 marzo 2013) sono 48.282.
Ma il numero di chi davvero ha votato, nessuno lo dice.
Lo staff ha la consegna del silenzio assoluto, pure sull’ordine della classifica.
Perchè, se tra il camper e oggi ci sono di mezzo le elezioni, il fallimento di Bersani e i Cinque Stelle in trincea, il distacco tra i nomi è la vera incognita del futuro Colle e della presente legislatura.
Quanti hanno votato Prodi?
È lui, il nome del dialogo con il Pd, quello che più spaventa o galvanizza, a seconda delle inclinazioni, i sostenitori del Movimento.
Per la verità , di nomi che possano avvicinare grillini e democratici ce ne sono altri. Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà , perfino Emma Bonino.
È che solo i primi due garantirebbero ai Cinque Stelle di rivendicare una vittoria sul fronte della “purezza”, gli unici che consentirebbero al Movimento di dire che è stato il Pd a doversi “piegare” alle proposte del nuovo corso.
Per questo, anche fuori dal camper, i risultati delle Quirinarie fanno paura.
Grillo, annunciando l’apertura del voto on line, aveva chiesto nomi fuori dalla politica, senza incarichi istituzionali, lontani dalle “foglie di fico” come Pietro Grasso. Eppure, era stato lui stesso a strizzare l’occhio a Prodi, l’unico che “cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche”.
Quel nome c’è.
Ma gli eletti fanno a gara a dire che non l’hanno votato.
Potrebbero farlo dalla quarta votazione in poi (“Non ci sarebbero difficoltà a convergere, visto che è stato espresso dalla base”, ha detto ieri Claudio Messora a InOnda), ma non possono dirlo sin da ora.
Così, in un giro di mail tra deputati e senatori, è partita l’operazione “pressing” in vista del ballottaggio di domani.
Dichiarazioni di voto che arrivino dritte ai 48 mila della base.
“La Bonino e Prodi sono espressioni tipiche della sinistra, la sinistra malinconica — scrive la deputata Giulia Di Vita, dimezzando la platea — Grillo è incandidabile. Dario Fo e Milena Gabanelli hanno già detto di no in svariate occasioni”.
“Informatevi sulla Bonino e Prodi!”, insiste il vice-capogruppo Riccardo Nuti. “Lunedì prossimo scelgo di nuovo Milena Gabanelli”, dichiara il senatore Vito Petrocelli.
Sergio Puglia è disperato: “Aiuto! C’è anche Prodi e la Bonino! X favore votiamo altro!”.
Walter Rizzetto si diverte con i giochi di parole: “Perchè Ritorna Ostinatamente Diventando Inutile”.
Solo Aris Prodani confessa di aver votato Bonino.
E solo Giuseppe D’Ambrosio difende le scelte della Rete: “Vorrei avvisare tutti i tifosi del M5S (avete capito bene… parlo degli interni) che criticare i nomi usciti dalle Quirinarie, vuol dire che non si è capito nulla di quello che rappresentiamo”. L’ideologo Paolo Becchi non se ne fa una ragione: “Avrei preferito un secondo attacco hacker. Se il nuovo che avanza è Prodi siamo messi male, molto male”.
Paolo Zanca
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
LE DUE ANIME DEL PARTITO DEMOCRATICO
Faremmo un torto a Fabrizio Barca se leggessimo la «memoria» che ha messo in rete due giorni fa (Un
partito nuovo per un buon governo) in modo affrettato e con gli occhiali della politica quotidiana.
Un torto di cui in parte lo stesso Barca è responsabile, perchè non si annuncia l’entrata in campo di una persona del suo prestigio e con la sua storia, in un momento di intensa turbolenza del Partito democratico.
E non si annuncia l’entrata in campo in un momento di crisi istituzionale così acuta, senza provocare la comprensibile attesa che il coinvolgimento nelle battaglie in corso sarà immediato e in posizioni di vertice.
Sino ad arrivare alla conclusione che la «sinistra» del Pd ha finalmente trovato un campione che, per qualità intellettuali, stima internazionale, età , estraneità alle compromissioni politiche e agli errori del passato, possa stare a fronte del campione della «destra», Matteo Renzi.
Conclusione sbagliata?
Sicuramente è così nell’immediato: non c’era bisogno di attendere il (quasi) sostegno di Barca alla candidatura a presidente del Consiglio di Renzi per capire che non ci saranno primarie imminenti in cui Barca si contrapporrà a Renzi, in cui il primo raccoglierà le demoralizzate truppe bersaniane e le condurrà allo scontro con il secondo.
Nel futuro staremo a vedere.
Il contrasto tra una linea socialdemocratica e una liberaldemocratica – sinistra e destra, in breve, se non si sottilizza troppo su questi termini – è endemico in tutti i grandi partiti della sinistra democratica europea: i due fratelli Miliband sono stati i campioni delle due linee nel Labour Party, ed Edward, sostenuto dai sindacati, ha battuto David, identificato con le politiche di Tony Blair.
Fatti salvi i diversi contesti, storie analoghe si possono raccontare per gli altri Paesi europei e sarebbe strano se non si ripetessero in Italia, anche se da noi la faccenda è complicata dal sovrapporsi di un’altra importante faglia di conflitto, quella tra laici e cattolici.
Lo si vede bene in questi giorni in cui è in gioco la presidenza della Repubblica.
Per la sua storia personale e per la concezione di partito che esprime nel suo scritto programmatico, Fabrizio Barca militerà nella sinistra, in ogni caso dalla parte opposta di coloro che sono attratti da una «ideologia minimalista», espressione con la quale egli rigetta la fascinazione liberale che ha colpito tante parti della sinistra.
Ma la sua sarà una strada difficile.
Un percorso che dovrà superare, ancor prima degli ostacoli frapposti dai «liberal», quelli che gli frapporranno coloro con i quali andrà a convivere, la stessa sinistra del partito.
Ad essi Barca propone un compito di difficoltà estrema, quello di distaccarsi dalla comoda dipendenza dalle istituzioni pubbliche e dalle carriere che consentono, e di tornare – se mai ci sono stati – sul territorio, ad alimentare processi di partecipazione democratica ardui da costruire e faticosi da tenere in vita.
Processi indipendenti dallo Stato, strettamente legati alla società civile, perchè solo in questo modo si possono indirizzare e correggere le politiche pubbliche e nello stesso tempo costruire e radicare una cultura critica e riformatrice.
La debolezza di questi processi, l’assenza di un partito che se ne facesse interprete convinto sono tra le cause del modesto esito delle politiche di sviluppo meridionale di cui Barca è stato l’artefice come capo del Dipartimento di sviluppo e coesione del ministero del Tesoro alla fine degli anni Novanta.
Così almeno egli ritiene.
Non sarà facile convincere il partito, anche la sua componente «socialdemocratica», che questo è il modo in cui una genuina vocazione di sinistra può essere espressa: è molto meno faticoso tuonare contro l’assenza di spesa pubblica e di politiche keynesiane e contro il neo-liberismo imperante, ciò che sinora la sinistra si è limitata a fare.
E intanto adattarsi all’evoluzione (per Barca, una involuzione) dei partiti che la «democrazia del pubblico» ha prodotto (Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino).
Di quelle innocue invettive e, in generale, di politiche macroeconomiche, non c’è traccia nella «memoria» di Barca.
Le politiche di mobilitazione che egli propone sono in gran parte a ridosso di interventi microeconomici, di sviluppo locale, quelli di cui ha trattato nell’eccellente rapporto redatto per la commissaria europea alle politiche regionali (A report for a reformed cohesion policy, un rapporto per una politica di coesione riformata, aprile 2009).
Interventi difficili e faticosi da gestire nel modo «deliberativo» che Barca giustamente auspica.
Ripeto di conseguenza che, prima ancora dei dubbi dei politologi e delle critiche dei «liberal», nella sua lunga strada attraverso il partito Barca dovrà soprattutto combattere lo scetticismo dei suoi stessi compagni di corrente.
Michele Salvati
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
IN ATTESA CHE ACCADA QUALCOSA CHE GIUSTIFICHI LA TUA PRESENZA
Mentre siedi attonito nell’aula di Montecitorio continui a ripeterti che ci deve essere una lezione da imparare, da qualche parte.
Mentre misuri a grandi passi la lunghezza tennistica di quella meraviglia che è il Transatlantico, mentre la notte romana si dipana e si allunga vuota e non ti fa prender sonno, mentre sfrecci immobile verso Roma a velocità superumana sui treni-pallottola, sai che la lezione da imparare devi sforzarti di riconoscerla, prima, e di accettarla, poi.
Ti raccomandi all’umiltà , ti costringi a fare uso della pazienza.
Chiami fuori dall’anima queste due amiche che conosci così poco, le vezzeggi, le lustri, le tieni sempre accanto a te.
Le eleggi a tue compagne, e diventano le due regine dell’esercito di certezze indimostrabili e invisibili su cui fai affidamento ogni giorno.
Ti sforzi di pensare che sia come un lavoro, quest’impegno politico che pure hai voluto fortemente abbracciare percorrendone ogni gradino, dalla candidatura alla campagna elettorale fino all’elezione; che sia degno e nobilissimo come e quanto il lavoro, ogni lavoro.
E continui a dirti che devi averne, e mostrare di averne, il massimo rispetto.
Delle sue regole, dei suoi tempi, dei suoi modi e, per quanto possa sembrarti difficile — questo forse si rivelerà impossibile — persino di buona parte di coloro che ti ritrovi ad avere come colleghi.
Ti dici che non può essere così difficile.
Dopotutto, non è che uno sforzo intellettuale. Ne hai compiuti tanti, in vita tua. Sai come si fa.
Come dicono a Napoli, non sei nato imparato.
E torni col pensiero a quando, diciottenne, decidesti di affrontare l’Ulisse di Joyce, o ai giorni poco successivi in cui ti scontrasti con le prime quarantasette pagine di “Sotto il vulcano”, quelle che l’editore voleva a tutti i costi tagliare e Lowry voleva a tutti i costi tenere.
Ti accorgevi di non riuscire a seguire la scrittura di quei due grandi autori, e temevi di aver raggiunto il tuo limite, di non essere nemmeno all’altezza di leggere — lasciamo perdere capire e apprezzare — quelli che il mondo decretava capolavori assoluti. Dubitavi di te e delle tue ambizioni di lettore, e pensavi che sarebbe stata ben sciapa, e triste, una vita senza la gioia di poter amare i grandi romanzi.
Non l’accettasti, però, quel verdetto crudele. Ci volle tempo, e impegno, e umiltà , e pazienza, ma alla fine riuscisti a leggere quei capolavori, e forse, anche se a modo tuo, persino a capirli.
Come quasi sempre, nella vita, e per tutti, era più una questione di disciplina, che di capacità .
Sono questi i tuoi pensieri sgomenti mentre, come tutte le italiane e tutti gli italiani, vivi nello stallo. Nell’attesa.
Nello svolgersi di una serie di giorni vuoti e tutti uguali.
Nel bozzolo di una vita sospesa, fatta di tempo rubato a un futuro che bussa alle nostre porte cercando invano di farsi dare ascolto, e prima o poi le schianterà e piomberà addosso a noi e alle nostre figlie e ai nostri figli, e ci prenderà per il bavero.
Se somigli a qualcosa, è un’automobile da corsa in folle, col motore che ruggisce al massimo numero di giri. Da giorni.
E cerchi disperatamente, appunto, di disciplinarti. Di non pensare che questa attesa, questo tempo oscenamente perso in attesa di poter fare qualcosa che possa dare un senso al tuo sconsiderato, coraggioso, infantile desiderio di poter essere utile al tuo paese candidandoti e facendoti eleggere in Parlamento, ecco, non sia che una misura — la prima, la più immediata e la più evidente — dell’impossibilità di poter essere in qualche modo utile al tuo paese candidandoti e facendoti eleggere in Parlamento.
Ti dici che non è così. Non può essere così. E aspetti.
Edoardo Nesi
(deputato di Lista Civica)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
IL PROFESSORE DRIBBLA ANCHE LA TURISTA: “VADA AL COLLE”… “LO DICE DA TEDESCA”
Professore, ha visto le “Quirinarie”? «Oggi ho visto solo la primavera…». 
Anche i grillini la vogliono presidente… «È la prima giornata di primavera, ho guardato solo questo».
Romano Prodi non si fa tirar dentro nessuna rosa, neppure quella a dieci petali del voto online dei Cinquestelle.
Sta ripassando da casa, a Bologna, per un pernotto veloce: questa mattina sarà già in volo per Tunisi.
Inutile insistere ancora, «Quod dixi, dixi…E non ho detto nulla».
Qualche ora prima, a Lucca per una conferenza, con le agenzie che volevano sapere se accettasse la candidatura del popolo cinquestelle, era stato laconico: «Non ho nessuna candidatura al Quirinale, sto semplicemente a guardare».
E un’aggiunta: «Per il resto, io sono fuori».
Tre paroline che gettano scompiglio tra i suoi intimi, «ma come, Romano sta fuori? Che significa?», amici di vecchia data come Arturo Parisi telefonano, si informano, alla fine si rassicurano: il Professore vuol solo far capire che nessuno gli strapperà una sola alzata di sopracciglio che possa essere interpretata come un’accettazione di candidatura, o peggio ancora un’autocandidatura.
Ci pensa Sandra Zampa, deputata e storica portavoce, a mettere i puntini sulle i: «Prima di tutto, per il Quirinale non sono previste candidature e quindi neppure quella del Professor Prodi è fra queste», spiega.
«Poi, da cinque anni Prodi è fuori dalla politica italiana, e passa la maggior parte del suo tempo in missione all’estero».
E dunque ecco, quell’essere-fuori dovrebbe voler dire soltanto “me ne sto un po’ lontano” dalla diplomazia che precede il conclave repubblicano, che è affare della politica. Infatti, il giorno stesso in cui le Camere riunite inizieranno a votare, lui sarà di nuovo su un aereo, destinazione Bamako, missione dell’Onu nel martoriato Mali, insomma durante i primi scrutini lui non sarà qui, ma lì.
Questo non significa certo che possa impedire il viceversa, ossia che tutti gli altri parlino di lui come quirinabile.
Nel bene e nel male. A Bari, Berlusconi gli scarica addosso i fischi della piazza, «Volete Prodi al Quirinale?» «Nooooo».
Sul Web, la sorpresa della sua inclusione nella decina dei candidabili del MoVimento è accolta da contrarietà di molti grillini.
Proprio per questo, Prodi non ha nessuna intenzione di farsi mettere sull’altare o sul bersaglio, dove il tirassegno è già partito, lo denuncia sempre Zampa, «gli attacchi dei giornali e delle televisioni che fanno capo al Cavaliere si intensificano man mano che si avvicina la data per l’elezione del Presidente».
Ma anche le aspettative crescono.
A Lucca, nel pomeriggio, è un vecchio amico toscano ad accoglierlo «Benvenuto al futuro presidente!», unica risposta un sorriso ironico e una botta sulla spalla col giornale arrotolato, poi è una turista a gridarglielo all’uscita dell’Auditorium intitolato, guarda tu, a San Romano: «Professore, faccia lei il presidente della Repubblica! Glielo dico anche se sono tedesca!», e questa volta Prodi non resiste alla battuta: «Lo dice proprio perchè è tedesca… ».
Ma a questo punto è il suo ex ministro Giovanni Maria Flick a sbarrare la strada ad ulteriori curiosità o anche solo cenni d’augurio: «Signora, meno si dice meglio è, per scaramanzia…».
Michele Smargiassi
(da “La Repubblica“)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
VIA AL REFERENDUM CONSULTIVO, SI SCEGLIE SE LASCIARE APERTO TUTTO O PARTE DELLO STABILIMENTO SIDERURGICO… L’OBIETTIVO DEGLI AMBIENTALISTI, LE RAGIONI DELLA CITTA‘
Comunque vada, non cambierà nulla.
Eppure, dicono, potrebbe cambiare tutto
Alle 12 di oggi aveva votato al referendum consultivo cittadino pro o contro la chiusura parziale o totale dell’Ilva di Taranto, il 4,4 per cento degli elettori.
Lo si apprende dal Comune di Taranto.
La percentuale corrisponde a circa 4300 elettori.
Perchè il referendum sia considerato valido deve raggiungere il quorum del 50 per cento più uno degli elettori, ovvero 86.351 su un corpo elettorale totale di 173.061 di cui 91.101 donne e 81.960 uomini.
I seggi sono aperti da oggi alle 8 e chiuderanno alle 22.
Per ragioni di costo economico, il Comune di Taranto, che per il referendum affronterà una spesa di circa 400mila euro, ha compattato i seggi elettorali, riducendoli da 190 a 82.
Il Comune ha costituito 82 sezioni, in 19 scuole e una nell’ospedale Santissima Annunziata.
Gli elettori di Taranto sono chiamati alle urne per dire se vogliono la chiusura di tutto lo stabilimento dell’Ilva “per tutelare la salute vostra e dei lavoratori dall’inquinamento” o se invece preferiscono la chiusura della sola area a caldo.
In sostanza viene chiesto ai cittadini di risolvere quello che la politica negli ultimi 30 anni non è riuscita a fare: sciogliere la dicotomia più odiosa e assurda, quella tra il diritto al lavoro e diritto alla salute, ammettendo di fatto l’incapacità a realizzare quello che in tutto il resto del mondo accade.
Fare cioè convivere i due diritti, producendo acciaio senza produrre malattie.
Il referendum è consultivo.
Dal risultato il Comune dovrebbe trovare spunto per decidere come comportarsi con l’azienda, pur avendo l’amministrazione comunale solo un potere sanitario.
Ha votato anche il sindaco Ippazio Stefà no alla guida di una maggioranza di centrosinistra: non ha indicato la sua preferenza, ma ha invitato i cittadini ad andare alle urne.
Due sono le schede che vengono consegnate agli elettori, una chiede un sì o un no alla chiusura totale della fabbrica, l’altra un sì o un no alla chiusura parziale.
L’elettore, se lo vuole, può anche chiedere di votare solo per uno dei due quesiti referendari.
Alla chiusura dei seggi si procederà allo spoglio.
Se si dovesse arrivare a una cifra di votanti che va dal 20 al 30 per cento, sarebbe un trionfo, dicono: tutti i partiti politici, con l’esclusione del Movimento 5 stelle e Radicali, parlano di libertà di scelta.
Stessa indicazione dei sindacati. Sel è per la chiusura della solo area a caldo.
Solo i movimenti ambientalisti spingono per il voto, con due sì.
Il significato che c’è dietro quelle schede è fortissimo: c’è la prova della consapevolezza, quella che negli ultimi 20 anni è mancata a Taranto.
Quando Riva veniva condannato a fine anni ’90, le aule di giustizia erano vuote, i giornali lasciavano in pagina un colonnino per riportare la notizia.
Nelle scuole quando chiedevi ai ragazzi cosa volessero fare da grandi, ti dicevano senza pensarci un secondo Ilva.
Oggi alla stessa domanda, “qualcuno vorrebbe lavorare al siderurgico?”, in una scuola superiore nessuno alzerebbe la mano. L’llva era un dogma.
Da qualche tempo è diventato un mostro.
Andare al voto oggi significa oggi per la città esorcizzare una paura, scegliere è probabilmente una sconfitta (“contrapporre diritto alla salute e diritto al lavoro significa fare il gioco dell’azienda, significa far passare il messaggio che le due cose non possono convivere, approvare una bugia” dicono gli avversari più lucidi del referendum oggi), ma fino a qualche anno fa ipotizzare un referendum a Taranto era assurdo, una cosa che potevano dire i pazzi.
Prova ne sia quanto la vecchia Ilva temesse questa consultazione.
Tanto sapevano che il referendum da un punto di vista pratico non avrebbe portato a nulla, tanto però ne conoscevano la portata evocativa.
Non è un caso la telefonata del 29 luglio del 2010 tra il pr dell’Ilva, Girolamo Archinà (oggi in carcere) e il sindaco Ippazio Stefano (che oggi sarà alle urne, ma non ha indicato cosa voterà ).
Dice Archinà : «La data del referendum… la più lontana possibile».
E Stefà no: «Va bene».
Archinà : «Per farci stare un po’ tranquilli».
Stefà no: «Tranquilli, va benissimo, ciao Girolamo».
Si vota oggi.
Chissà se stanno un po’ tranquilli.
Giuliano Foschini
(da “La Repubblica“)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
PRESSING SUI PARLAMENTARI DEMOCRATICI… IN POLE FINOCCHIARO, MARINI, AMATO
Fuga da sprint finale, in pieno stile ciclistico, solo quando il traguardo è lì, dietro l’ultima curva. 
Ci stanno lavorando i (pochi) prodiani presenti in Parlamento, i tanti fuori – capeggiati da Arturo Parisi – ma soprattutto la schiera dei renziani, che farebbe lievitare il «partito del Professore» a 70-80 grandi elettori.
Endorsement per suonare la sveglia al quartier generale Pd. Con l’obiettivo dichiarato di giocare d’anticipo, prima che Bersani e Berlusconi si rivedano (forse martedì) e chiudano un accordo da «abbraccio mortale», a sentire i big sponsor del fondatore dell’Ulivo e magari agire poi da calamita sui Cinque stelle.
Grillini che già nelle loro “Quirinarie” di ieri hanno ufficializzato il nome dell’ex presidente della commissione Ue nella loro top ten.
Non a caso, due campanelli d’allarme sono risuonati nelle ultime 24 ore, a sinistra e a destra.
Gli uffici dei capigruppo del Partito democratico di Camera e Senato hanno attivato da ieri la batteria interna, iniziando a contattare ogni singolo parlamentare per sondare gli umori e richiamare con discrezione alla disciplina di partito, alla linea.
Che dovrebbe indirizzare tutti «sulla via di una scelta condivisa», come spiega un alto dirigente Pd.
Verso «nomi che uniscano e non che dividano e che sono ormai riconducibili a quelli di Amato, Marini e Finocchiaro».
Una terna alla quale qualcuno continua ad aggiungere Sergio Mattarella. Alla vigilia delle votazioni del 18 il partito si dovrebbe presentare con una rosa ristretta di nomi, difficilmente uno solo, spiegano, da offrire al Pdl e Scelta civica.
Nell’ottica di un’intesa che poi potrebbe facilitare la strada verso la formazione di un governo d’emergenza per le riforme. Il fatto è che gli umori, come le anime interne al Pd, sono variegati e chi si è attaccato al telefono da ieri lo ha potuto riscontrare.
I renziani non fanno ormai mistero di aver cassato dalla lista il nome di Marini: per loro restano in partita solo quelli di caratura «internazionale », di Prodi e semmai Amato.
Pronti a uscire allo scoperto, come non hanno fatto finora, coloro che più di altri sono vicini al Professore.
E che spiegano: «Viviamo con grande malessere la facilità con la quale dai “giovani turchi” ai popolari nel Pd hanno escluso una figura come quella di Prodi, che vanta un peso istituzionale superiore rispetto a qualsiasi altra».
E si elenca: «Due volte premier, presidente della Commissione europea da dove certo non ha fatto guerra al Berlusconi premier, inviato Onu».
«Nel partito poi qualcuno dovrà spiegare perchè sia preferibile un accordo al ribasso col Cavaliere – continua il parlamentare e dirigente Pd – magari per dar vita a un governo di tre o sei mesi. Noi non l’accetteremo ».
Partita dalla quale si tiene debitamente lontano un Prodi che ancora ieri si dichiarava «disinteressato », scherzandoci su.
Chi non ci scherza affatto su è Silvio Berlusconi, tornato non a caso a sparare a pallettoni da Bari contro il Professore («Pronti ad andare all’estero»).
I fedelissimi che lo hanno accompagnato al palco di Piazza della Libertà raccontano di un Cavaliere assai preoccupato, tornato al più cupo «pessimismo», per nulla rassicurato dall’ennesima chiusura di Bersani.
«Non si prospetta nulla di buono – ha confidato – la candidatura di Prodi sta rimontando, il segretario Pd non tiene tutti i suoi e questi sono capaci di eleggerlo coi grillini» è l’allarme lanciato a margine della kermesse che, puntuale, ha preso la piega del comizio elettorale.
Con tanto di auto-ricandidatura – la settima – di Berlusconi a Palazzo Chigi.
«Il rischio che avvertiamo è che l’elezione del capo dello Stato si stia trasformando in resa dei conti congressuale interna al Pd» per dirla con Mariastella Gelmini.
Il timore insomma che Bersani tratti col Cavaliere in rappresentanza solo di una parte dei suoi.
Bruno Tabacci, parlamentare di lungo corso, è pronto a scommettere che alla fine l’accordo si farà , perchè «Berlusconi è un realista», ma lo spiraglio è stretto: «O si chiude entro le prime tre votazioni o dalla quarta per lui tutto può succedere. E sarebbe da folli, nella crisi in cui versiamo, se non si scegliesse un presidente in grado di garantire una copertura internazionale, com’è avvenuto con Ciampi e Napolitano ». Un derby che, se si considera fuori gioco ormai Monti, anche Tabacci restringe ormai ai due ex premier: Prodi e Amato.
Carmelo Lopapa
(da “la Repubblica“)
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
“GRILLO INVOCA LO STREAMING MA POI MANTIENE UNA PIATTAFORMA CON CONTENUTI SEGRETI”
Il giorno della verità sui nomi a 5 stelle per la presidenza della Repubblica avrebbe dovuto essere l’11 aprile. Ma oltre all’attacco hacker, sul web si moltiplicano le possibili interpretazioni di quanto successo.
Forse hacker, forse un risultato non gradito ai vertici del M5s.
Ma la certezza su quanto avviene realmente dopo il voto online non c’è. Esiste solo la certificazione della Dnv, la multinazionale scelta da Casaleggio per validare le operazioni di voto.
Come funzionano
Per le primarie presidenziali del M5s, niente gazebo e due euro da pagare. Obbligatoria però l’iscrizione al Movimento. Per votare ci si collega una pagina web dedicata “Quirinarie”, dall’indirizzo non pubblico, il sistema accetta naturalmente un solo voto.
E poi più nulla, nessuna informazione o dato, ad esempio per conoscere “l’affluenza digitale”, e sapere quanti altri elettori hanno votato.
Solo l’attesa dello spoglio.
La piattaforma di Grillo è infatti proprietaria, chiusa.
Soltanto lo staff del M5s sa cosa succede dietro le quinte del sito web, fino al punto in cui Dnv certifica.
Lo stop dell’11 è arrivato quando Dnv ha rilevato una “anomalia”, una discrepanza tra i voti e il numero di aventi diritto.
Quanto basta per pensare a un’intrusione informatica nel sistema di voto, e ad invalidare le elezioni. Ma sulle procedure di spoglio decide tutto Casaleggio.
Come dire, Dnv dice se le elezioni si sono svolte regolarmente. Ma i risultati sono sotto la giurisdizione di Casaleggio.
Inoltre, conoscere che tipo di attacco hacker è stato effettuato sulla piattaforma aiuterebbe a rafforzarne almeno l’idea di affidabilità .
Poter realizzare un semplice “buco” e utilizzarlo per votare più volte indicherebbe l’inadeguatezza della struttura. E la possibilità di subire attacchi hacker ben più sofisticati.
Il nodo della trasparenza
Anche a trasparenza non sembra essere tra i punti forti della piattaforma di Casaleggio.
«La Dnv certifica la procedura, ma poi lo spoglio lo fa lo staff di Grillo», dice Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica all’Università Roma Tre.
«E se lo spoglio viene effettuato da Casaleggio, qualche dubbio è lecito».
Sul web, i commenti sono divisi tra chi giudica la piattaforma inadeguata e chi dice che se il M5s avesse voluto pilotare la consultazione, avrebbe evitato di denunciare attacchi hacker, intervenendo direttamente sui dati.
Certificazione delle procedure o meno, spiega Novelli, Grillo «utilizza il web senza una vera cultura della Rete».
L’apertura di internet, alla base della condivisione delle informazioni è interpretata in maniera contraddittoria: «Grillo invoca lo streaming, ma poi mantiene una piattaforma chiusa, con contenuti segreti», dice il professore, «definendo un organismo politico verticistico».
Qualcosa è andato storto
«Un’anomalia che ha compromesso in modo significativo la corrispondenza tra voti registrati e l’espressione di voto del votante».
Con questa espressione — non meglio precisata — la Dnv Business Assurance, società a cui si è rivolta la Casaleggio Associati per verificare le procedure di votazione online, ha fatto sapere che qualcosa è andato storto durante le Quirinarie.
Le attività di verifica, spiegano dagli uffici dell’azienda, hanno tenuto sotto controllo anche la seconda votazione.
La Dnv, che sta per Det Norske Veritas, è inserita in una multinazionale della certificazione.
La società è una delle tre controllate dal gruppo Dnv, una fondazione internazionale e indipendente istituita nel 1864 e con sede a Oslo.
Ha 300 uffici in tutto il mondo e 10mila operatori, rilascia certificati di qualità e di garanzia ponendosi come ente terzo nella valutazione dei problemi per le aziende.
In Italia la sede principale di Dnv è ad Agrate Brianza, in provincia di Milano.
Ci sono poi altre nove sedi operative, per un totale di 250 dipendenti.
Tiziano Toniutti e Luca De Vito
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Aprile 14th, 2013 Riccardo Fucile
IL PROFESSORE RINUNCIA A INCARICHI DI PARTITO E NON SARA’ NELLO STATUTO
La scelta del Professore sarà distinta anche se non ancora distante dalla forza che «ho ispirato e
fondato».
Rimarrà senatore a vita e farà il «padre nobile» della lista, ma senza aver più un «rapporto organico» con il gruppo dirigente, siccome «non mi sento un leader di partito, non è il mio mestiere».
Così ha annunciato.
Il Professore che era salito in politica, ora vuole scendere dal golgota dove sente di esser stato messo ingiustamente da molti, quasi da tutti: dai partiti «che mi avevano chiamato in soccorso» nell’inverno del 2011, dalle forze sociali – Confindustria e sindacati – che oggi andranno «squallidamente a braccetto senza però indicare come uscire dalla crisi», e persino dai suoi stessi alleati, da quei compagni di avventura che «mi implorarono di fare il capo della coalizione alle elezioni e adesso dicono di aver donato il sangue per me».
Raccontano che l’intervista di Pier Ferdinando Casini al Corriere l’abbia lasciato di sale, «sono rimasto allibito», e l’abbia convinto a un passo di lato che somiglia molto a un passo indietro.
Formalmente dice di non essersi disamorato, «non è disamore, non considero terminata l’esperienza», anzi Scelta civica – nel quadro disastrato di un’Italia tripolare – «resta una forza necessaria alla tenuta europeista del Paese».
Epperò la prossima settimana i parlamentari che sono stati eletti con il suo movimento, leggeranno nello statuto la conferma ufficiale di quanto già Monti aveva detto loro a voce: la sua assenza dagli incarichi e la cancellazione del suo nome dal simbolo sono il prodotto di una sconfitta iniziata nelle urne e che il Professore fatica a capire, interpretandola come una forma di ingratitudine: «Stiamo uscendo dalla procedura di deficit europeo, i conti pubblici sono in ordine…»
Perciò non solo è turbato dal fatto che non siano stati riconosciuti i meriti del suo governo, non comprende nemmeno l’accanimento, il fatto di esser diventato «il capro espiatorio di tutto e di tutti», sebbene questo sia l’effetto di un Paese stremato dalle tasse e dalla recessione, ma soprattutto la conseguenza della sua precedente scelta: quella di entrare nell’agone politico, dove nulla viene risparmiato a nessuno, figurarsi a chi – entrato nel Palazzo da super partes – ha deciso di farsi parte e di sfidare quanti lo avevano appoggiato.
Gli errori di grammatica politica in campagna elettorale e poi quelli di ortografia istituzionale all’inizio della legislatura hanno determinato la reazione, fuori e dentro il suo stesso movimento. Per esempio, quando salì da Napolitano per chiedergli di lasciare Palazzo Chigi in modo da trasferirsi a Palazzo Madama, non solo si attirò le critiche del capo dello Stato, ma anche l’ira di chi – come Lorenzo Dellai – sperava di conquistare la presidenza della Camera in quota Scelta civica, e l’ironia di chi – come Casini – si aggirava per il Senato dicendo: «Non chiedete a me di strategie, io non conto più nulla».
Stizzito per le tensioni alla riunione dei gruppi parlamentari, Monti perse per la prima volta il suo aplomb: «Posso andarmene anche domani mattina, non resto qui a fare il vostro zimbello».
Emotivamente provato, si ripetè alla Camera, nelle vesti di premier, davanti agli attacchi di chi gli aveva dato fino a pochi mesi prima la fiducia: «Non vedo l’ora che finisca tutto».
E dato che non può ancora farlo con il governo, ha iniziato con il partito, nonostante Mario Mauro gli abbia chiesto di restare.
L’ex berlusconiano che prima delle urne pronosticava di sostituire il Pdl con Scelta civica nel Ppe, giorni fa ha pregato Monti, «non mollare, o almeno aspetta un paio di mesi. Traghettaci prima verso l’assemblea costituente del partito».
Niente da fare.
Così la prossima settimana lo scontro interno diverrà pubblico alla vigilia delle Amministrative, dove non si sa cosa fare.
Sarà l’anticamera del divorzio?
Già oggi d’altronde i cofondatori del movimento vivono da separati in casa: da una parte Andrea Riccardi, che mira a trasformare il movimento in un partitino cattolico; dall’altra Italia Futura che ambisce invece ad approdare nella famiglia liberale europea, e che mentre attende di capire quali saranno le mosse di Matteo Renzi, rilegge i dati delle elezioni politiche, il peggior risultato ottenuto a Roma, proprio nel quartiere simbolo di Trastevere dov’è la sede della Comunità di Sant’Egidio.
In mezzo c’è l’Udc, che in vista delle votazioni per il Quirinale riunirà i propri grandi elettori, senza montiani.
In fondo, senza Monti, i montiani non ci sono più.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera“)
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