L’OCEANO IDEOLOGICO CHE DIVIDE BARCA E RENZI
LE DUE ANIME DEL PARTITO DEMOCRATICO
Faremmo un torto a Fabrizio Barca se leggessimo la «memoria» che ha messo in rete due giorni fa (Un partito nuovo per un buon governo) in modo affrettato e con gli occhiali della politica quotidiana.
Un torto di cui in parte lo stesso Barca è responsabile, perchè non si annuncia l’entrata in campo di una persona del suo prestigio e con la sua storia, in un momento di intensa turbolenza del Partito democratico.
E non si annuncia l’entrata in campo in un momento di crisi istituzionale così acuta, senza provocare la comprensibile attesa che il coinvolgimento nelle battaglie in corso sarà immediato e in posizioni di vertice.
Sino ad arrivare alla conclusione che la «sinistra» del Pd ha finalmente trovato un campione che, per qualità intellettuali, stima internazionale, età , estraneità alle compromissioni politiche e agli errori del passato, possa stare a fronte del campione della «destra», Matteo Renzi.
Conclusione sbagliata?
Sicuramente è così nell’immediato: non c’era bisogno di attendere il (quasi) sostegno di Barca alla candidatura a presidente del Consiglio di Renzi per capire che non ci saranno primarie imminenti in cui Barca si contrapporrà a Renzi, in cui il primo raccoglierà le demoralizzate truppe bersaniane e le condurrà allo scontro con il secondo.
Nel futuro staremo a vedere.
Il contrasto tra una linea socialdemocratica e una liberaldemocratica – sinistra e destra, in breve, se non si sottilizza troppo su questi termini – è endemico in tutti i grandi partiti della sinistra democratica europea: i due fratelli Miliband sono stati i campioni delle due linee nel Labour Party, ed Edward, sostenuto dai sindacati, ha battuto David, identificato con le politiche di Tony Blair.
Fatti salvi i diversi contesti, storie analoghe si possono raccontare per gli altri Paesi europei e sarebbe strano se non si ripetessero in Italia, anche se da noi la faccenda è complicata dal sovrapporsi di un’altra importante faglia di conflitto, quella tra laici e cattolici.
Lo si vede bene in questi giorni in cui è in gioco la presidenza della Repubblica.
Per la sua storia personale e per la concezione di partito che esprime nel suo scritto programmatico, Fabrizio Barca militerà nella sinistra, in ogni caso dalla parte opposta di coloro che sono attratti da una «ideologia minimalista», espressione con la quale egli rigetta la fascinazione liberale che ha colpito tante parti della sinistra.
Ma la sua sarà una strada difficile.
Un percorso che dovrà superare, ancor prima degli ostacoli frapposti dai «liberal», quelli che gli frapporranno coloro con i quali andrà a convivere, la stessa sinistra del partito.
Ad essi Barca propone un compito di difficoltà estrema, quello di distaccarsi dalla comoda dipendenza dalle istituzioni pubbliche e dalle carriere che consentono, e di tornare – se mai ci sono stati – sul territorio, ad alimentare processi di partecipazione democratica ardui da costruire e faticosi da tenere in vita.
Processi indipendenti dallo Stato, strettamente legati alla società civile, perchè solo in questo modo si possono indirizzare e correggere le politiche pubbliche e nello stesso tempo costruire e radicare una cultura critica e riformatrice.
La debolezza di questi processi, l’assenza di un partito che se ne facesse interprete convinto sono tra le cause del modesto esito delle politiche di sviluppo meridionale di cui Barca è stato l’artefice come capo del Dipartimento di sviluppo e coesione del ministero del Tesoro alla fine degli anni Novanta.
Così almeno egli ritiene.
Non sarà facile convincere il partito, anche la sua componente «socialdemocratica», che questo è il modo in cui una genuina vocazione di sinistra può essere espressa: è molto meno faticoso tuonare contro l’assenza di spesa pubblica e di politiche keynesiane e contro il neo-liberismo imperante, ciò che sinora la sinistra si è limitata a fare.
E intanto adattarsi all’evoluzione (per Barca, una involuzione) dei partiti che la «democrazia del pubblico» ha prodotto (Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino).
Di quelle innocue invettive e, in generale, di politiche macroeconomiche, non c’è traccia nella «memoria» di Barca.
Le politiche di mobilitazione che egli propone sono in gran parte a ridosso di interventi microeconomici, di sviluppo locale, quelli di cui ha trattato nell’eccellente rapporto redatto per la commissaria europea alle politiche regionali (A report for a reformed cohesion policy, un rapporto per una politica di coesione riformata, aprile 2009).
Interventi difficili e faticosi da gestire nel modo «deliberativo» che Barca giustamente auspica.
Ripeto di conseguenza che, prima ancora dei dubbi dei politologi e delle critiche dei «liberal», nella sua lunga strada attraverso il partito Barca dovrà soprattutto combattere lo scetticismo dei suoi stessi compagni di corrente.
Michele Salvati
(da “il Corriere della Sera“)
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