Aprile 24th, 2013 Riccardo Fucile
I TIMORI PARALLELI DI UN’IPOTECA GIUDIZIARIA SULL’ACCORDO PD – PDL
Nella discussione su formule di governo, riforme costituzionali e ricette economiche, c’è un non detto che da due mesi sottintende ogni analisi dei dirigenti di Pd e Pdl, e che rischia di incidere in modo determinante sulle decisioni a cui sono ora chiamati i due maggiori partiti: è la ventennale ipoteca giudiziaria sulla politica, «un’insidia» – come la definisce il democratico Epifani – che è posta sulla strada di quel governo a cui lavora Napolitano.
Cosa accadrebbe infatti se, dopo il varo di un gabinetto di larghe intese, Berlusconi fosse condannato e magari interdetto, o se la magistratura presentasse in Parlamento una richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui?
È questo il bivio dinanzi al quale si trovano Pd e Pdl, di questo si discute nelle riunioni riservate, perchè oltre i temi dell’Imu e del semipresidenzialismo c’è una variabile indipendente che potrebbe costringere le due forze a cambiare strategia in corso d’opera.
È vero che la nascita del governo sarebbe posta al riparo dal problema, ma «l’insidia» nel giro di pochi mesi potrebbe manifestarsi.
Che farebbero allora i democratici, sotto la pressione della piazza e della rete, dopo che autorevoli esponenti si sono già espressi a favore dell’ineleggibilità e dell’arresto di Berlusconi?
E quali margini di manovra avrebbe il Cavaliere, quando ormai sarebbe sfumata la possibilità di andare al voto anticipato per rompere l’assedio?
La questione non è stata mai affrontata pubblicamente.
Solo una volta è emersa, proprio la sera dell’incontro tra Bersani e Berlusconi, quando il pd Fassina – in un’animata discussione televisiva con il pdl Gasparri – sbottò dicendo che la grande coalizione non si sarebbe mai potuta fare, perchè «i problemi giudiziari» del leader di centrodestra «sono un macigno», un «elemento ostativo insormontabile» per arrivare a un’intesa. Ora che Napolitano è stato rieletto al Colle, quel «macigno» è superato?
O resta quel non detto che i dirigenti democratici colsero nella frase pronunciata dal segretario all’atto del congedo?
«Non so se un mio successore potrà fare quello che io non ho potuto fare», sussurrò Bersani, senza aggiungere altro.
Di qui le difficoltà del Pd, che è chiamato a scegliere tra linea riformista e linea movimentista sul terreno più accidentato: quello del berlusconismo.
Il veltroniano Verini prova a tener chiusa quella porta, spiegando che «noi non è che dovremo appoggiare un governo Berlusconi ma un governo di Napolitano».
E anche il responsabile giustizia del partito, Orlando, prova a tener separato il nodo politico di un accordo con il Pdl, «difficile a meno che non sia Renzi a fare il premier», dal nodo giudiziario: «Perchè la questione andrebbe rovesciata. Qualora Berlusconi venisse condannato, bisognerebbe vedere come reagirebbe il Pdl: andrebbe a bruciare i tribunali o accetterebbe le sentenze? Nel qual caso, non ci sarebbero problemi».
Più che una dichiarazione distensiva, è una dichiarazione di guerra, una sfida per verificare il grado di solidità (e solidarietà ) del Pdl verso il proprio leader.
Non a caso il tema in queste ore è elemento di discussione ai vertici del partito, ed evoca nel gruppo parlamentare quanto accadde nel ’93, nel giorno di battesimo del governo Ciampi, quando le richieste di autorizzazioni a procedere contro Craxi – respinte dalla Camera prima del voto di fiducia – portarono alle dimissioni dei ministri di area Pds.
Di qui l’indecisione del centrodestra (e di Berlusconi), diviso tra l’istinto di muovere verso le urne e il desiderio di collaborare alla riuscita del governo «di Napolitano».
Ma proprio «il discorso d’insediamento del capo dello Stato – secondo il deputato di Scelta civica Dambruoso – si è steso come un ombrello protettivo sul futuro governo, rispetto a eventuali rigurgiti di questioni che potrebbero minare i rapporti di maggioranza».
Non è dato sapere se il parlamentare montiano, già noto magistrato, abbia ragione, mentre si discute sulla figura che si insedierà al ministero di Giustizia. Di sicuro il Cavaliere – come il Pd – è atteso a una parola definitiva sul non detto che tiene in sospeso le sorti del governo e della legislatura.
Ancora ieri il capo del centrodestra alla Camera ha fatto mostra di non curarsene, concentrandosi sui «problemi dell’Italia».
L’atteggiamento ha colpito il vicepresidente del Csm, Vietti, che incrociando il pdl Lupi in Transatlantico, gli ha sussurrato: «Silvio è diventato un democristiano».
Francesco Verderami
(da “il “Corriere della Sera”)
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Aprile 24th, 2013 Riccardo Fucile
BERLUSCONI FA IL NOME DI AMATO E CHIEDE PROPRI MINISTRI PER UN GOVERNO FORTE
Il totoministri s’inabissa nel giorno cruciale delle consultazioni di fronte alle paure del Pd: “Come
facciamo a stare nello stesso governo con Brunetta e la Gelmini ministri? Si dice che anche la Santanchè voglia farne parte”.
Ma il nodo della formula e della composizione dell’esecutivo, di scopo e non politico, e con personalità “non attive in Parlamento”, secondo la definizione democratica della “bassa intensità partitica”, è soprattutto legato al duello tra Giuliano Amato ed Enrico Letta per la poltrona di premier.
Il capo dello Stato dalle otto di ieri sera ha avuto tutta la notte per pensarci e trovare una soluzione.
Il favorito resta il Dottor Sottile già craxiano, cioè Amato.
Il suo nome è stato l’unico a essere pronunciato nel giro-lampo di Napolitano.
A farlo, il Cavaliere in persona, che poi è uscito un po’ cupo in viso.
Il Pd ha messo in giro questa versione dell’incontro tra il capo dello Stato e B.: “Napolitano è in difficoltà perchè a questo punto Amato è il nome di Berlusconi”.
Versione completamente ribaltata da chi ieri ha parlato con il Cavaliere a Palazzo Grazioli: “È il Pd che non vuole Amato perchè non lo reggerebbe. Loro non vogliono un governo forte e politico con ministri nostri e sono in difficoltà sulla restituzione e sull’abolizione dell’Imu. Non siamo così tanto sicuri che il governo nasca”.
In ogni caso, il Pdl è pronto a mettere in campo una delegazione governativa al massimo livello, guidata dal segretario Angelino Alfano e con dentro anche i due capigruppo parlamentari: i due Renati, Schifani e Brunetta.
In ribasso, invece, le quotazioni di Mariastella Gelmini e Gaetano Quagliarierello.
In compenso vanno su i nomi di Mara Carfagna e Raffaele Fitto, l’ex governatore pugliese molto attivo nella gestione del partito.
La questione, appunto, è legata alla tenuta del Pd, sia sul nome di Amato, sia sulla coabitazione dei democratici con Brunetta e la Gelmini, tanto per fare l’esempio più ricorrente.
Ma l’asse tra Napolitano e Berlusconi sembra aver resistito alle fibrillazioni di ieri.
Il primo nome fatto cadere dal Cavaliere è stato quello di Matteo Renzi. Il no di B. è stato perentorio: “È il nostro prossimo competitor, non possiamo permetterglielo”.
Poi il colloquio al Colle con Napolitano e l’endorsement per Amato, cancellando così anche l’ipotesi di Enrico Letta.
Nel Pdl, l’incarico al vicesegretario dei democrat, che comunque darebbe il via libera a una formula piena e politico dell’esecutivo, minerebbe il concetto di “pari dignità ” e sarebbe una riduzione per il segretario Alfano, costretto a fare il secondo di Letta.
Il dilemma tra Amato e Letta è quindi decisivo per capire quale sarà il contributo del Pd alla formazione del governo.
In pole position ci sono ancora le personalità che non siedono più in Parlamento ma sono ancora impegnate in politica: Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Luciano Violante, Pier Luigi Castagnetti.
Per D’Alema sarebbe naturale la casella degli Esteri, per la quale sarebbe in corsa anche Mario Monti. La presenza dell’attuale premier però non è scontata.
La sua ambizione non è in discussione, il problema sono gli altri alleati che non lo vorrebbero: il gioco dei veti incrociati in queste ore riguarda anche il professore.
Per i centristi di Scelta Civica uno dei nomi sicuri è quello del ciellino Mario Mauro, uno dei dieci saggi nominati dal Colle alcune settimane fa.
Dopo il no della Lega, si abbassano a zero, invece, le chance del saggio del Carroccio, Giancarlo Giorgetti, che ieri ha scortato il segretario Roberto Maroni al Colle.
Sul fronte dei tecnici sicura l’uscita della Severino, oggi Guardasigilli, mentre dovrebbero restare al loro posto Cancellieri (al Viminale) e Moavero Milanesi.
I boatos di Palazzo continuano infine a riferire di una poltrona all’Economia per Saccomanni, il numero due di Bankitalia.
Ma tutto dipende da chi sceglierà stamattina il capo dello Stato.
Fabrizio D’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 24th, 2013 Riccardo Fucile
BERLUSCONI STOPPA LE AMBIZIONI DEL SINDACO DI FIRENZE
Il luogo e il momento hanno sempre un significato: la corsa di Matteo Renzi verso Palazzo Chigi si ferma al Vittoriano, il palazzo delle grandi mostre di Roma, nelle sale in cui si celebra un altro fiorentino, “Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo 1513-2013”.
La mostra è organizzata dalla Treccani in collaborazione con l’Aspen Institute. Giuliano Amato è presidente della Enciclopedia Italiana Treccani e presidente onorario Aspen, pensatoio transatlantico e trasversale. “Caro Matteo, con tutta la stima che sai, il presidente Berlusconi ha deciso che non può far partire il tuo governo. Averti a Palazzo Chigi ci creerebbe un problema dal punto di vista elettorale”, è l’annuncio di Gianni Letta, ambasciatore sempre diplomatico e cortese anche e soprattutto quando porta cattive notizie.
L’intervista del sindaco di Firenze a Repubblica di lunedì mattina, rafforzata da una partecipazione a Otto e Mezzo di Lilli Gruber con look istituzionale (giacca blu e cravatta, la solita camicia bianca sbottonata non è governativa) era sembrata un’opzione azzardata ma percorribile.
Renzi era disposto a tentare di guidare il governo, “anche se so che rischio di bruciarmi”, come ha ammesso con i suoi sostenitori.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non era contrario, anzi: più politica sarà la caratura del governo, minore il rischio che i partiti che ne faranno parte siano tentati dall’attaccarlo, come è successo con Monti.
Però il capo dello Stato vuole una maggioranza politica larga, quindi con il Pdl.
E Berlusconi ha detto di no.
Questa, per il sindaco di Firenze, è una notizia tutto sommato positiva:
“Così — scherza ma non troppo con chi ha vicino — non potranno più rinfacciarmi la visita ad Arcore”, alludendo al famoso e contestato incontro in casa del Cavaliere nel 2010”.
Prima del confronto con Gianni Letta, per Renzi Palazzo Chigi sembrava raggiungibile, anche se lui si schermiva dicendo che “la mia candidatura è la più sorprendente e la meno probabile”.
Una nervosa direzione del Partito democratico, secondo la nuova moda trasmessa in streaming, si era appena chiusa approvando una linea compatibile con l’incarico a Renzi.
Il Pd non avanza nomi e si rimette al capo dello Stato, dandogli una delega totale. Soltanto Umberto Ranieri, dietro cui “c’è Napolitano”, dicono i renziani, cita esplicitamente “Matteo”.
Nonostante tutto Renzi spiega di essere molto soddisfatto: Piero Fassino, per “solidarietà tra sindaci” si è mosso per facilitare la sua candidatura, “anche D’Alema e Veltroni erano d’accordo”.
A Palazzo Chigi, secondo le indiscrezioni di ieri sera, andrà invece Giuliano Amato (o altro tecnico) con Enrico Letta e Angelino Alfano a fare i vicepremier.
L’unico scenario che potrebbe davvero complicare i prossimi mesi ai renziani è l’incarico a Enrico Letta: se il vicesegretario del partito, reggente dopo le dimissioni di Bersani, avrà a disposizione anche le nomine di governo per tacitare i malumori democratici, potrebbe costruirsi una base di potere che ai vivaci ma ancora acerbi renziani diventerebbe difficile scalfire.
E Renzi ora tornerà a occuparsi di parcheggi e raccolta differenziata a Firenze? Troppo presto per dirlo.
“Vedremo”, si limita a rispondere a chi gli chiede dei programmi sul futuro.
Gli hanno proposto subito la disponibilità a fare il ministro, ma lui ha declinato il pericoloso premio di consolazione.
Con un governo che si preannuncia di almeno un paio di anni, Renzi deve decidere una strategia.
Il Partito per ora non esplode e Renzi, per quanto inviso a molti (su tutti Franco Marini e Anna Finocchiaro), non spacca più i democratici come qualche tempo fa. Presto ci sarà un congresso e il sindaco potrebbe tentare la scalata.
Il suo avversario potenziale, il ministro Fabrizio Barca, ha già iniziato il suo percorso: poca tv e molte serate nelle sezioni.
Giovedì sera, al primo incontro per discutere il manifesto politico del ministro, in via dei Giubbonari c’erano decine di persone sotto la pioggia che cercavano di ascoltare dalle finestre di una sezione stracolma.
Renzi ha un altro stile, ma la sfida da ieri è ufficialmente aperta.
E “dove c’è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà ”, avrebbe detto il Machiavelli testimone del provvisorio stop di Renzi.
Ma l’autore del Principe ammoniva anche: “Ogni volta che è tolto agli uomini il combattere per necessità , essi combattono per ambizione, la quale è tanto potente nei loro petti che mai, a qualunque grado salgano, li abbandona”.
Stefano Feltri
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