Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
UNA DECINA DI DEPUTATI E SENATORI PRONTA A LASCIARE IL GRUPPO… CASALEGGIO NEL MIRINO…VENERDI CORSI DI RECUPERO IN COMUNICAZIONE
Chi ci crede, nega il calo. O si dice «entusiasta» dei risultati o fa ragionamenti non lontani da
formule democristiane tipo: «Abbiamo tenuto».
Oppure, ancora, cerca rimedi: andare di più in televisione (da venerdì gruppi di dieci parlamentari andranno a Milano a «corsi di comunicazione televisiva»); o stare di più sul territorio, magari tornando a quella «settimana corta» tanto cara ai parlamentari di ogni tempo e di ogni partito (ma in questo caso per lavorare, non per oziare).
Ma c’è anche chi ci crede sempre meno.
E quelli preparano una via d’uscita, rumorosa.
«Siamo in dieci, pronti ad andarcene», dice un parlamentare. Questione di tempo. Ma anche di dialettica interna.
Se non si trova una composizione, se non si allenta la stretta del duo Grillo e Casaleggio, un drappello di 5 Stelle è pronta a formare un gruppo separato.
Fervono le trattative con il Pd. Al Senato lo snodo decisivo è la nomina del nuovo capogruppo.
Il diktat di Vito Crimi, che nega ai suoi il diritto di parlare di «strategie politiche e alleanze», fa il paio con la sua volontà di far cadere «le mele marce».
E il successore di Crimi, da scegliere entro il 15 giugno, può confermare la linea dura o ammorbidirla.
Nel primo caso, un piccolo gruppo di senatori è pronto all’addio.
Operazione «C’eravamo tanto amati», la chiama uno di loro.
La delusione la puoi osservare nei volti tesi in Transatlantico. L’onda lunga subisce per la prima volta un riflusso. Il Movimento si trova in questa temperie, con una base che scalpita, ironizza o si infuria.
E i «cittadini» che minimizzano o sbottano di nascosto.
Su twitter questa è la battuta più gettonata: «Lodevole iniziativa del #m5s, che si dimezza i voti del 50%».
C’è chi attacca Casaleggio e chi è impietoso con Grillo: «Hai buttato 9 milioni di voti relegando questo branco di 163 incapaci all’opposizione».
E chi chiede: «Avete finito di contare gli scontrini?».
Si cerca una via d’uscita. E necessariamente le soluzioni frantumano certezze poco flessibili rispetto alla realtà : il dogma del «tutti in Parlamento sempre» viene messo in discussione, tra gli altri, da Serenella Fucksia e Bartolomeo Pepe.
Un senatore la chiama «settimana corta»: «Se siamo andati male è perchè ci siamo dimenticati del territorio. Perdiamo troppo tempo a Roma in assemblee inutili. Il lunedì e il venerdì è meglio stare a casa, con i nostri elettori».
Parole che stridono un po’ con quelle di Carla Ruocco, pasionaria in bianco. Che se la prende, giustamente, con i troppi assenti: la diaria è legata al voto e non alla presenza. Ma la settimana corta è già realtà per molti 5 Stelle. Soltanto che non basta.
Il campano Salvatore Micillo non si capacita dei risultati: «Sono preoccupato. Certo, è comunque un inizio. Ma in molti posti siamo andati male e non ho capito perchè. A Portici, per esempio, c’erano tutte le condizioni per arrivare al ballottaggio. E invece niente».
Colpa degli elettori, urla Grillo. Vero, dice Tatiana Basilio, che nota «un’involuzione dell’umanità » ma non demorde: «Bisogna proseguire nel cammino degli illuminati, nella ricerca della verità ».
Si sentono più al buio Tommaso Currò e Vega Colonnese. Che rilancia articoli critici di Travaglio e Gomez. Walter Rizzetto, uno di quei deputati che non soffre sudditanza verso il fondatore, non ci sta: «Non sono d’accordo con Grillo, non è colpa degli elettori. Dobbiamo riflettere. L’astensionismo è un dato sconfortante».
Matteo Incerti, Comunicazione del Senato, elenca i ballottaggi dei 5 Stelle: «Pomezia (Roma), Martellago (Venezia) e Assemini (Cagliari)».
Bastano? No di certo. E allora si prepara lo sbarco in tv, con cautela.
Rocco Casalino: «Abbiamo appena detto no a Lerner, Santoro e Floris».
Cosa resta? «Le ricette di Benedetta Parodi no – scherza -. Vedrete».
Alessandro Trocino
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
“LA MIA SINISTRA PARLA DEI TEMI CARI A SANT’EGIDIO”….”SE VINCO, REDDITO MINIMO A 10.000 GIOVANI”
Il giorno dopo Ignazio Marino è come il giorno prima. Prudente.
Ha incassato il risultato del ballottaggio, ha «dormito benissimo» ma è già in moto per il secondo turno, «mai dare nulla per scontato».
Un abbraccio con militanti ed elettori al Capranica e poi la sera da “Ballarò”, confronto indiretto con il sindaco di Roma Gianni Alemanno, uscito pesto dalle urne.
«L’irregolare Marino», come lo definisce Goffredo Bettini, ammette di aver fatto molta strada da solo: «Il Pd mi ha aiutato moltissimo dal momento in cui è stato eletto Guglielmo Epifani. Prima c’è stata invece una situazione di attesa, diciamo di non operatività , alimentata dal combinato disposto delle dimissioni del segretario nazionale e da quelle, quasi contestuali, del segretario cittadino».
Insomma, non è stata una passeggiata e non lo sarà neanche in questi 15 giorni.
Gli sembra perciò opportuno non esercitarsi sul tema allargato degli effetti del voto romano sul governo Letta. Il medico chirurgo, avverso alle larghe intese, recide con il bisturi ogni domanda: «Io parlo ai cittadini romani. Non mi sto occupando del destino del governo nazionale. Trovo già molto impegnativo concentrarmi sul destino del governo di Roma capitale».
Marino e adesso qual è la strategia?
«Adesso la cosa più importante è non rilassarsi. Il Campidoglio e i Municipi sono ancora da conquistare con il voto. Si può liberare Roma solo se ognuno fa lasua parte».
Non pronuncia mai la parola vittoria. Scaramanzia?
«Nel mio vocabolario non ci sono guerra, sconfitta, lotta, battaglia. Userei un termine da sala parto. Qui si tratta di far rinascere Roma, al di là di vinti e vincitori, di amici degli amici e nemici. C’è un progetto al servizio di una città che ha smarrito il senso di comunità e lo deve ritrovare. Penso al 40 per cento dei giovani senza lavoro, ai tanti cinquantenni licenziati, alle 50 mila famiglie senza casa. Questa città ha vistocrescere del 20 per cento i reati di violenza sessuale, del 12 per cento gli omicidi. È una città dove si consumano esecuzioni capitali per strada, nonostante il sindaco uscente avesse messo, 5 anni fa, la sicurezza come priorità della sua agenda».
Per vincere – la parola la uso io – bisogna conquistare i voti degli elettori Cinque Stelle e di Alfio Marchini.
«Con questi elettori è possibile fare un patto su quei temi che sono loro quanto miei. Mi riferisco alla riduzione dei costi della politica, alla democrazia partecipata, al rigore nella gestione del bilancio invocato da Marchini. È dal 2009 che mi batto per questecose e continuerò a farlo con orgoglio anche in queste due settimane».
Pensa di parlare anche agli elettori del centrodestra?
«Sì, a quelli delusi e disgustati, quelli che non si sono mai riconosciuti nelle assunzioni per chiamata diretta all’Atac, quelli che credono come me nel merito e avrebbero preferito ingaggiare autisti veri nella Azienda dei Trasporti di Roma e non cubiste, ex pugili ed ex picchiatori neri».
Grillo dice che chi vota Pd e Pdl vota l’Italia peggiore.
«Non ho la sua violenza verbale e non possiedo una cultura divisoria. A suo tempo difesi Grillo quando si prese la tessera del Pd per partecipare alla corsa per la segreteria. Io vedo una città con enormi potenziali. C’è spazio per tutti quelli che vogliono dare una mano».
Alemanno dà colpa anche al derby per come sono andate le cose.
«Sono giustificazioni surreali. Ha avuto 5 anni per gestire i trasporti e i rifiuti. Basta con i vittimismi, ci vogliono le proposte».
Per esempio?
«Per esempio. Comune e Regione possono lavorare insieme per utilizzare un bando europeo che darà lavoro e reddito di cittadinanza a 10 mila giovani tra i 18 e i 29 anni. È quello che faremo io e Zingaretti, presidente della Regione ».
Il Pd l’ha aiutata?
«Moltissimo da quando è diventato segretario Epifani».
Prima?
«C’è stata una fase di attesa, non operativa, con le dimissioni di Bersani e del segretario cittadino. Zingaretti ha fatto un po’ il vicario e ne è nato un rapporto solido, non sull’amicizia ma sui contenuti, dai trasporti alla sanità , dall’energia alla casa. Non mi ha mai fatto sentire solo. Un rapporto molto positivo per la città ».
Vendola parla di lei come «uomo libero». C’è chi la vede troppo schiacciato a sinistra…
«Mi occupo dei senza casa, dei disabili, degli aiuti alle giovani coppie. Sono i temi di Sant’Egidio. Non capisco perchè, se ne parlo io, devo essere un pericoloso estremista».
Il primo provvedimento del sindaco Marino?
«Le dico il primissimo: rendere pubblica e trasparente ogni singola virgola del bilancio comunale, inclusi gli stipendi delle figure apicali, quelle che guadagnano 100 volte di più di un operaio ».
Alessandra Longo
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
NELL’ASSEMBLEA DEI GRUPPI E’ LITE TRA VERDINI E QUAGLIARELLO
Il risveglio è da giorno nero, in via dell’Umiltà .
La botta incassata dal Pdl con i definitivi delle liste assume contorni più marcati, da partito in crisi.
I sondaggi sbandierati nelle ultime settimane sono smentiti dalle urne.
Silvio Berlusconi resterà silente e lontano da Roma, in Sardegna, per tutta la settimana, immerso nelle sue carte processuali.
E il partito gli va in frantumi nel giro di 24 ore.
L’assemblea dei gruppi parlamentari che lui diserta si trasforma in autocoscienza collettiva, va avanti per ore e riprende in serata fino a notte.
Braccio di ferro sulla legge elettorale da riformare, sull’accordo col Pd che regge a stento. In realtà , ancora una volta, i falchi, con Verdini, Fitto, Santanchè in testa, tornano a scatenarsi e a mettere in discussione la lunga gittata del governo Letta. Dall’altro lato, i ministri Quagliariello e Alfano, Schifani e Cicchitto e le altre «colombe».
L’esecutivo non si mette in crisi, ma va incalzato, «tenuto sulla corda», ordina il capo da Villa Certosa.
«È il male minore, ma deve dare risposte serie prima dell’estate», dice riferito ai soliti Imu, Iva, Equitalia, detassazione delle assunzioni.
Nè il leader sembra intenzionato a spendersi per i ballottaggi: stavolta non ci mette la faccia. Non a caso.
Gli ultimi report trasmessi da via dell’Umiltà sono da brivido.
Il Pdl è rimasto fuori dal Consiglio regionale in Val d’Aosta, fuori dal ballottaggio ad Avellino, dove perfino il candidato Udc ha avuto la meglio.
Altrove il partito è al ballottaggio – Roma, Viterbo, Imperia, Brescia, Lodi, Barletta e Siena, tra gli altri – ma il candidato parte sempre sfavorito.
La lista è in calo quasi ovunque.
Solo in Calabria il governatore e coordinatore Giuseppe Scopelliti canta vittoria, ma si è votato in centri minori.
Nell’assemblea dei gruppi, riuniti a Montecitorio, i capi Schifani e Brunetta aprono tra gli applausi esprimendo «solidarietà a Berlusconi da 20 anni oggetto di persecuzione», ma la tensione sale subito.
Anche per quel che sta accadendo fuori.
Le agenzie di stampa iniziano a pubblicare stralci delle imbarazzanti rivelazioni contenute nel libro-intervista di Luigi Bisignani Clicca qui .
Il faccendiere chiama pesantemente in causa Alfano e Schifani, parla di “Giuda” che nel partito avrebbero cercato, nel 2012, un’alternativa a Berlusconi.
Il vicepremier segretario arriva in assemblea inritardo e, racconta chi è presente, compulsa nervosamente il telefonino e le agenzie.
Nel frattempo in riunione lo scontro si fa dirompente tra Verdini e Quagliariello.
Il pretesto è la riforma «trappola», come la bolla il coordinatore, alla quale lavora il ministro.
Poi l’affondo si allarga al governo.
«La gente non arriva a finemese, ci chiede provvedimenti concreti, altro che riforme», tuona il toscano. Con lui, Santanchè, Fitto, Romani, Capezzone, la Polverini. Cicchitto irrompe: «Basta coi coordinatori regionali calati dall’alto. Berlusconi deve essere sostenuto da un partito democratico ».
Lui, come i ministri, sono convinti che il governo debbadurare a lungo per fare le riforme.
Gli altri, i «falchi», sempre più insofferenti, anche nei confronti della segreteria del partito.
«La verità – ragiona il senatore Augusto Minzolini in Transatlantico – è che con questo governo pensavamo di aver messo il Pd in gabbia, i risultati dicono altro».
Carmelo Lopapa
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
DA SARAGAT A FORLANI: LE SCUSE DEI POLITICI PER NON AMMETTERE LA SCONFITTA
E non ci vuole stare. Beppe Grillo alza le braccia al cielo e dinanzi ai pochi voti ottenuti dal MoVimento Cinque Stelle lancia nel cyberspazio un post pieno di battagliero sarcasmo, che però sa anche di rabbiosa autocommiserazione.
Può succedere, a chi perde. Di prendersela in qualche modo con l’elettorato che non capisce, o capisce troppo, «tiene famiglia » e perciò difende i propri privilegi.
Così il dopo-elezioni si configura come un tempo utilissimo, una specie di cartina al tornasole per capire di che pasta umana sono fatti i leader, specie quando sono soli, nudi e sconfitti: non solo nelle urne, ma anche nel proprio ego
Accade spesso, ed è tipico dei «pennivendoli», come li chiamano Grillo e diverse generazioni di politici, osservare con appagata e crudele curiosità le reazioni dei perdenti, spesso traendone ulteriori risorse narrative per condire i loro articoli.
Ma un tempo, specie quando vigeva la legge proporzionale e le differenze percentuali erano minime, gli sconfitti pateticamente facevano finta di nonaver perso — e lo stesso Grillo ieri un po’ c’è cascato, senza troppa convinzione cercando di far notare che in questo turno il M5S ha «raddoppiato» i suoi consiglieri. Ma pazienza.
In passato, quando i risultati si mettevano male, sia la Dc che il Pci spedivano in sala stampa figure di secondo piano — Costante Degan, per dire, o Luca Pavolini — per salvare il salvabile, a volte nemmeno quello, e in ogni caso soddisfare il pasto dei giornalisti.
Allorchè i numeri erano inconfutabili e la batosta troppo evidente da nascondere o camuffare dietro figure di gregari, i capi procedevano di solito al rito dello scaricabarile.
Il più celebre e altisonante, nel 1953, dopo l’insuccesso della legge truffa, venne officiato da GiuseppeSaragat, che era un uomo anche letterariamente molto coltivato, e che in quella remota circostanza accusò «un destino cinico e baro».
Ma era anche quello, a ben vedere, un modo per attribuire la disdetta elettorale a un evento esterno, comunque trascendente la propria responsabilità .
Si è anche scritto che nel 1968, una volta al Quirinale, per via di una delusione delle urne, come in un cartone animato lo stesso Saragat prese a calci un televisore.
Anche Fanfani, del resto, faceva scene turche; mentre De Gasperi si ammalava, Berlinguer s’incupiva e Craxi si mostrava brusco, ma assai più prudente di quanto si possa immaginare. Posto davanti a una debacle, d’altra parte, per misteriose ragioni Forlani sembrava perfino allegro; così come nel 1987 De Mita — di cui resta agli atti una magnifica foto, disfatto su un divano, con una mano sulla capoccia come a dire: «Che botta! » — passò giorni e giorni a Nusco invitando e ricevendo visitatori con un bloc notes in mano: «Ma perchè — gli chiedeva — ho perso quei sette punti?».
Ecco. Sia come sia, saper perdere con stile è anche un’arte. D’Alema, per dire, non sarà un simpaticone, ma nel 2000, dopo il disastro delle regionali, se ne andò rapidamente e con grande dignità .
Bersani, tredici anni dopo, un po’ meno. Di Fini si sono addirittura perse le tracce.
Ma pure al netto di rimpianti e nostalgie, sul piano della pura tecnica converrà fare un pensierino sul fatto che se Saragat invocava il Caso, per chiamarsi fuori ieri Alemanno ha tirato in ballo nientemeno che Roma-Lazio.
Tra la potenza mitologica e il derby corre una gamma neanche troppo vasta di scuse e pretesti atti a salvare la superbia del potere, dalla par condicio alla televisione cattiva, dagli errori di comunicazione alla giustizia a orologeria.
E tuttavia, di tutti possibili parafulmini, il più allarmante è quello di attribuire la colpa dello sconquasso agli elettori «che non hanno capito » — il che di norma vuol dire «non mi hanno capito».
Difficile a questo punto tralasciare la grande lezione di Berlusconi, per il quale l’ideastessa di sconfitta non rientra nel novero degli schemi psicologici e anzi finisce per violare l’ordine mentale alla base del suo potere e del suo personaggio.
Ciò nondimeno egli è riuscito a perdere parecchie volte, ma senza mai ammetterlo, sempre attribuendo l’irreale condizione a qualcosa di incommensurabilmente bislacco, o contronatura. Con la stessa naturalezza, per giunta, con cui una volta riuscì a definire «coglioni» chi non lo avrebbe votato.
A tal fine si ricorda con quanta impudica disinvoltura il Cavaliere arrivò anche a tirare in ballo i brogli — e in più di un caso, e perfino in via preventiva — come risolutiva contingenza alla base di una sua «mancata vittoria ».
Una giustificazione che lo rendeva vittima.
Anche se la più fantasmagorica notazione a discolpa risuonò, tra finzione e realtà , scherzo, capriccio e utile inventiva, il giorno in cui esaminando i disastrosi numeri di una batosta, gli scappò detto: «I risultati veri sono quelli dei miei sondaggi» — e la faccenda suonava strana, beh, non era già la prima, nè sarebbe stata l’ultima.
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica“)
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
PER SEGUIRE IL TOUR SI ERA PRESO L’ASPETTATIVA. ORA MOLLA TUTTO
“Ho deciso che quella di oggi sarà l’ultima puntata di Mi scappa la diretta. E ho deciso di
lasciare questo Paese. Sono un vigliacco, non ho intenzione di continuare a lottare. Non ce la faccio più. Il risultato elettorale di ieri è l’ultima goccia. Basta”. Salvo Mandarà si è svegliato da poco, nel suo appartamento di Abbiategrasso.
E come ogni mattina, si mette davanti alla telecamera e registra la puntata del suo canale casalingo: 15 minuti di analisi del mondo, rigorosamente a 5 Stelle.
Ieri, però, è l’ultima. Ventiquattro ore dopo aver assistito al tracollo elettorale del Movimento che era diventato quasi la sua ragione di vita, decide che ne ha abbastanza.
Prende le valigie e se ne va. Sei mesi fa, era dicembre, si era addirittura preso l’aspettativa dal lavoro per dedicarsi anima e corpo alla campagna di Grillo.
Lui, ingegnere elettronico, siciliano trapiantato al Nord, si era inventato l’hang out, una versione riveduta e corretta della video chat, una sorta di comunità virtuale in cui si poteva mandare in diretta un comizio in corso a Treviso, commentarlo da Tokyo e corredarlo con immagini in arrivo da Londra.
“Rimarrà nei libri di storia” dicevano di lui gli attivisti che lo ammiravano sotto al palco di piazza San Giovanni, a febbraio.
Sempre lì, a un passo da Beppe a riprendere con quello strano aggeggio ogni frammento dello Tsunami Tour, su e giù dal camper dove, suo malgrado, gli avevano affibbiato l’ingrato compito di lavare i piatti.
E adesso basta. “Viviamo in un Paese in cui 8 milioni e 700 mila persone votano M5S e danno l’illusione a un coglione come me che gli italiani si siano svegliati — dice Mandarà nel video d’addio -. Invece non è così, forse solo un milione o due di quelli si è svegliato davvero, gli altri si sono girati dall’altra parte e hanno ricominciato a dormire. Io non voglio più vivere in uno Stato di merda come questo perchè c’è un popolo di merda. Sono un vigliacco, avete ragione a pensarlo. Ma io qui non resto”.
Non tutti la prendono bene. C’è chi gli rimprovera di mollare tutto alla prima sconfitta.
Il deputato Ferdinando Aliberti scrive su Facebook: “Sto piangendo. Piango perchè se Salvo scrive questo vuol dire che qualcosa s’è rotto. Non l’Italia, quella è rotta da decenni, ma nella lotta che abbiamo iniziato insieme. Sì, sono triste e delle elezioni non me ne fotte un cazzo”.
Lo sconforto è tale che Mandarà è costretto a replicare, a spiegare in un post che la disfatta elettorale non è l’unica ragione, che ha problemi a casa, che vuol far crescere suo figlio in un altro posto.
“Se fossi single e senza figli, rimarrei qui in trincea…” prova a convincerli Salvo.
Ma la verità è che qui la guerra ha preso un’altra piega. E si è costretti a imbracciare nuove armi.
Mentre il simbolo dell’autarchia informativa fa i bagagli, quindici parlamentari sono in partenza per Milano.
Venerdì comincia il primo turno di corso di comunicazione televisiva. Lezioni di piccolo schermo tenute da esperti scelti da Grillo e Casaleggio che prima o poi toccheranno a tutti i deputati e senatori.
Hanno capito che la Rete non basta, ma non vogliono farsi schiacciare dal mezzo.
Conoscere le regole è indispensabile per non farsi manovrare. E poi, da questa batosta elettorale, alcuni Cinque Stelle hanno cominciato anche a capire quanto è importante il rapporto con il territorio.
Fa tanto di vecchia politica, così come la condizione necessaria per mantenerlo: la settimana corta.
Dopo tre mesi in Parlamento deputati e senatori si stanno liberando della retorica del lavoro dal lunedì al venerdì.
Se si sta sempre nei palazzi, è difficile spiegare fuori quello che si sta facendo. Così, tra una proposta e l’altra, si insinua anche quella di dedicare l’inizio e il fine settimana alle attività nei dintorni di casa.
Sarà uno degli argomenti di cui discuteranno probabilmente anche nell’assemblea congiunta di domani, la prima dopo il flop delle amministrative.
Per i malpancisti, i risultati delle urne rappresentano un ulteriore prova del fatto che il Movimento sta sbagliando.
“Caporetto era niente”, fulmina il deputato friulano Aris Prodani.
“Non si può incolpare chi non ci ha votato. Bisogna ritornare a sentire la base, i simpatizzanti e gli elettori, per capire se si aspettavano altro, se sono delusi”, dice il deputato Walter Rizzetto. Si sarebbe “giocato la partita in altro modo”, il senatore Lorenzo Battista .
E Mara Mucci da Imola dice: “È arrivato il momento di iniziare a parlare di politica”.
Presto, visto che i ballottaggi sono tra poco più di una settimana e i Cinque Stelle possono muovere la bilancia in molte città . A Roma per esempio.
La sfida tra Ignazio Marino e Gianni Alemanno è considerata alla stregua di un nuovo caso Grasso. Astenersi e rischiare di far vincere un nemico o scegliere il “meno peggio”?
Marino è molto apprezzato dai grillini, che hanno sottoscritto molte delle sue proposte di legge da senatore.
Marcello De Vito, il candidato sconfitto, per evitare di caricarsi di una responsabilità eccessiva aveva parlato dell’ipotesi di una consultazione on line tra gli attivisti.
Ieri sera, però, un tweet del M5S Roma lo ha anticipato: “Votare è un dovere, votare Marino o Alemanno un errore”.
Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 28th, 2013 Riccardo Fucile
NEL LIBRO “L’UOMO CHE SUSSURRA AI POTENTI” SVELA I RAPPORTI TRA GRILLO E LA CIA E LA CORTE DEL CAVALIERE A RENZI
Berlusconi ha corteggiato in tutti i modi Matteo Renzi.
Il Cavaliere ha rischiato di essere tradito dai suoi, compreso Renato Schifani.
Alfano voleva mollare il leader Pdl. Le stragi che hanno ucciso Falcone e Borsellino sono state ideate tra Mosca e Roma.
Poi i rapporti tra Grillo e i servizi segreti americani.
Sono alcune delle verità di Luigi Bisignani nel libro-intervista realizzato con il giornalista Paolo Madron, “L’uomo che sussurra ai potenti” (edito da Chiarelettere, in vendita dal 30 maggio).
Come dice il sottotitolo del libro il faccendiere, quello che Berlusconi definì “l’uomo più potente d’Italia”, racconta di “trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate”.
Bisignani è stato condannato in via definitiva a 2 anni e mezzo per l’inchiesta Enimont e ha patteggiato una pena di un anno e 7 mesi per il processo P4.
I presunti traditori di Berlusconi e la corte a Renzi
Innanzitutto i presunti tradimenti (o tentativi di tradimento) all’interno del centrodestra.
“Più che di tradimento vero e proprio — precisa Bisignani — parlerei di piccoli uomini creati da Berlusconi dal nulla e improvvisamente convinti di essere diventati superuomini”.
Il faccendiere e ex giornalista parla di “molti Giuda”. “Il primo che mi viene in mente — continua — è Renato Schifani, avvocato di provincia di Palermo, ex presidente del Senato. Con Angelino Alfano, altro siciliano, lavoravano alla costruzione di una nuova alleanza senza Berlusconi”.
Nella ricostruzione sui presunti complotti contro Berlusconi all’interno del Pdl, Bisignani assicura che tra chi tramava c’erano “in primis alcuni di An: Gasparri, La Russa, Mantovano e Augello.
Certamente non Altero Matteoli che è rimasto sempre leale”.
“E tra le donne — aggiunge — la favorita di Angelino, Beatrice Lorenzin, premiata con il ministero della salute”.
Quanto ad Alfano, in particolare, una volta insediato il governo Monti, si mosse per cercare alleanze per abbandonare Berlusconi.
“Finchè il governo Berlusconi stava in piedi, seppur con una maggioranza risicata, Alfano non si mosse. Cominciò a farlo non appena insediato l’esecutivo Monti, nel momento in cui per Berlusconi iniziava la fase più aspra di un calvario politico giudiziario che sembra non finire mai”.
Secondo Bisignani, Alfano cercò la sponda di Casini “il quale in realtà lo ha sempre illuso. E non interrompendo mai un filo sotterraneo con Enrico Letta, all’epoca vicesegretario del Pd”.
Il faccendiere ha poi aggiunto che “la sua corte cercò di costruirsela incontrando parlamentari nella casa ai Parioli che Salvatore Ligresti gli aveva fatto avere in affitto. E in più stringendo un asse con Roberto Maroni, che da ex potente ministro dell’Interno, dopo aver fatto fuori Umberto Bossi, preconizzava la morte civile del Cavaliere e l’investitura di Alfano come nuovo leader”.
A Bisignani arriva la risposta secca di Schifani: “Io mi occupo di politica e non di malaffare — dichiara a Porta a Porta — e non ho mai avuto il piacere di incontrare questo faccendiere, e la non veridicità delle sue parole è dimostrata dal fatto che io sono capogruppo del Pdl al Senato e Alfano è vicepremier”.
Ma Berlusconi, secondo Bisignani, guardava altrove.
Aveva già un’altra carta da giocare: Matteo Renzi.
“Berlusconi lo ha corteggiato in tutti i modi” spiega nell’intervista. “Nei sondaggi riservati — prosegue — Renzi volava, tanto che Berlusconi non si sarebbe mai ributtato nella mischia. Solo Bersani fece finta di non accorgersene, mobilitando tutto l’apparato del partito per batterlo alle primarie. E scavandosi così la fossa”.
“Alfano? Pensava a costruirsi il monumento”
Il tentativo di “eliminare” politicamente Berlusconi partì proprio quando il Cavaliere fece diventare Alfano segretario politico del partito.
Ma “una volta incoronato, nell’estate del 2011, contro il parere di tanti — spiega Bisignani nel libro — Alfano ha pensato soprattutto a costruire un monumento a se stesso”.
Secondo quanto racconta il faccendiere l’ex ministro della Giustizia “se ne stava chiuso nel suo ufficio bunker in via dell’Umiltà , dove per chiunque era impossibile entrare.
Passava più tempo con i giornalisti, su Facebook e Twitter che con i parlamentari e con la base del partito e gli esponenti del mondo imprenditoriale, bancario e culturale che pure avevano desiderio di conoscerlo.
Inoltre Alfano ha una vera mania per i giochini sul cellulare, cui non rinuncia nemmeno durante le riunioni. E poi ha la debolezza di consultare sempre l’oroscopo e di regolare le giornate in base a quel che c’è scritto…”.
E sui parlamentari del Pdl che definisce “Giuda” perchè complottavano contro Berlusconi afferma: “Si montavano a vicenda, senza capire che, quando è ferito, Berlusconi dà il meglio di sè”.
“Monsignor Fisichella lavorava a un dopo Berlusconi”
In molti, insomma, secondo Bisignani, lavoravano a un dopo Berlusconi. Tra questi monsignor Rino Fisichella, a lungo rettore della Pontificia Università Lateranense e attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
“Con Alfano e il fidatissimo Maurizio Lupi lavorava sodo al dopo Berlusconi anche l’arcivescovo Rino Fisichella” sostiene Bisignani.
“Alcuni incontri riservati con Casini e Lorenzo Cesa — ricorda — si svolsero proprio Oltretevere, in un ufficio nella disponibilità di Fisichella, il quale era molto amareggiato per non essere stato fatto cardinale da Joseph Ratzinger”.
“Falcone, Andreotti pensava che c’entrasse il Kgb”
Poi un po’ di sguardi verso il passato. Prima tappa, le stragi del 1992.
Giulio Andreotti, ha sempre avuto un convincimento e cioè che i motivi delle stragi di mafia in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “non si dovessero cercare a Palermo, ma fra Mosca e Roma”.
Il sette volte presidente del Consiglio, secondo Bisignani, era convinto che Falcone sarebbe stato eliminato “perchè collaborava a una spinosa indagine della magistratura russa sui finanziamenti del Kgb al Partito comunista”.
Bisignani ricorda anche che Falcone avrebbe dovuto incontrare, due giorni dopo la strage, il procuratore penale di Mosca Valentin Stepankov:
“Andreotti era certo che da lì bisognasse partire per capire meglio la strage, e su questo concordava anche Francesco Cossiga. Il quale era al corrente dell’iniziativa di Falcone”.
Secondo il faccendiere “la sinistra ha sempre taciuto ma ora “credo che dovrà fare i conti con Piero Grasso, per anni capo della procura antimafia, ora presidente del Senato”.
Dovrà fare i conti con lui “per la sua onestà intellettuale e perchè, tra i primi atti, ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle stragi”.
“Tangentopoli? Tutti, da Agnelli a De Benedetti, tentarono di bloccare i pm”
Poi la vicenda Tangentopoli: “I protagonisti sotto assedio” del capitalismo italiano, “tutti indistintamente, da Agnelli a De Benedetti, cercarono disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano”.
La “fortezza” in cui si arroccò il capitalismo per respingere l’offensiva giudiziaria contro il sistema delle tangenti fu Mediobanca.
“Fu lì — racconta Bisignani — che si tenne una riunione riservata presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti.
Vi presero parte, oltre all’avvocato Agnelli e a Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti, Carlo Sama per il Gruppo Ferruzzi e ovviamente l’amministratore delegato dell’istituto, Vincenzo Maranghi”.
Proprio Maranghi, dopo una perquisizione della polizia giudiziaria a Piazzetta Cuccia, organizzo nella notte “un pulmino che portò via tutte quelle carte dal contenuto inquietante” che non erano state scoperte.
Agli investigatori era infatti sfuggita una parete mobile “celata dietro una libreria in una delle sale del piano nobile dell’istituto — dove si custodivano altri segreti”. Secondo Bisignani, “tutta la storia di Mediobanca è fitta di episodi simili” a quello sul “pulmino” di Maranghi, come il caso dei fondi neri scoperti nella Spafid, la fiduciaria di Mediobanca che “custodiva la contabilità ufficiale e parallela dei grandi gruppi”, fino alle “carte segrete su Gemina” rinvenute in “una botola” dalla Guardia di Finanza.
Tornando alla riunione “anti-pool” in Mediobanca “fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la Procura di Milano” nonchè la “perentoria denuncia dei metodi che stavano destabilizzando il paese e la sua economia”.
Cuccia incaricò Romiti di “coordinare ogni iniziativa” e ordinò “a quegli imprenditori che avevano interessi nell’editoria” di supportare la linea “senza tentennamenti”. Il fronte però si sfaldò presto un po’ perchè i tg di Berlusconi, che “all’epoca non faceva parte del giro di Mediobanca”, cavalcarono l’onda di Mani Pulite ma soprattutto perchè le delle ammissioni di un dirigente Fiat “fecero cambiare radicalmente la strategia decisa” facendo scattare il “tana libera tutti”.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm
Un altro retroscena riguarda Cossiga, il “presidente picconatore”. Nel novembre del 1991 l’allora presidente della Repubblica fece intervenire i carabinieri davanti al Csm, rivela Bisignani.
“Non fidandosi in quel momento — racconta Bisignani — nonostante fossero suoi amici, dei ministri della Difesa Virginio Rognoni e dell’Interno Vincenzo Scotti, chiamò personalmente al telefono il comandante della legione dei carabinieri di Roma, il colonnello Antonio Ragusa, perchè si preparasse a fare irruzione al Csm in piazza Indipendenza”.
“In quella riunione — spiega Bisignani — il Csm doveva occuparsi dei rapporti tra i capi degli uffici giudiziari e i loro sostituti. Una materia che, secondo Cossiga, non era di sua pertinenza”.
Secondo il racconto di Bisignani, Ragusa mise in stato d’allerta la vicina caserma: “I carabinieri rimasero al loro posto. Ma Ragusa che era in contatto telefonico diretto con Cossiga, entrò da solo negli uffici di piazza Indipendenza e convinse il vicepresidente Giovanni Galloni a togliere dall’ordine del giorno l’argomento incriminato”.
I rapporti tra i servizi segreti Usa e Beppe Grillo
I rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo sono il tema di un capitolo del libro intervista a Bisignani.
Oltre a raccontare una vicenda già conosciuta come il pranzo tra Beppe Grillo e alcuni agenti e diplomatici americani e il dispaccio dell’ex ambasciatore Ronald Spogli, aggiunge: “Avendo avuto anch’io il dispaccio in mano, c’è qualcosa che andrebbe approfondito” in quanto sono stati occultati “chirurgicamente quasi tutti i destinatari sensibili” tra cui oltre alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla Cia “c’è da scommetterci ci fosse il Dipartimento dell’energia e la National Secuity Agency, che si occupa soprattutto di terrorismo informatico”.
“Agli americani — spiega Bisignani — è noto il rapporto strettissimo che Grillo ha con due loro vecchie conoscenze. Franco Maranzana, un geologo controcorrente di 78 anni, considerato il suo più grande suggeritore su tematiche energetiche e ambientali non politically correct, in contrasto così con la linea ecologica che viene attribuita al movimento. E soprattutto Umberto Rapetto, un ex colonnello della Guardia di finanza”.
Secondo Bisignani l’incontro con Grillo dovrebbe essere avvenuto nel marzo del 2008 in quanto il rapporto dell’ambasciatore Spogli dal titolo “Nessuna speranza. Un’ossessione per la corruzione” reca la data del 7 marzo 2008.
Con ogni probabilità , secondo Bisignani, quel documento è finito nelle mani del presidente Obama. Quindi fornisce le conclusioni del rapporto sulle idee di Grillo: “La sua miscela fatta di spumeggiante umorismo, supportata da dati statistici e ricerche, fa di lui un credibile interlocutore per capire dal di fuori il sistema politico italiano”.
Inoltre, racconta che dopo le elezioni del febbraio scorso una delegazione di grillini “capeggiata dai due capigruppo in parlamento, Vito Crimi e Roberta Lombardi, è andata a omaggiare l’ambasciatore David Thorne.
Lo stesso che, parlando agli studenti, ha pubblicamente lodato il nuovo movimento come motore necessario per le riforme di cui ha bisogno l’Italia”.
“Il Pdl voleva far cadere Monti subito, fu Letta a arrabbiarsi e a scongiurare la crisi”
La crisi del governo Monti poteva arrivare molto prima e non a fine dicembre.
“Dopo pochi mesi di governo — riferisce Bisignani — mezzo Pdl voleva far cadere Monti. Ma fu proprio Letta, con voce alterata, a convincere tutti che lo spread sarebbe schizzato alle stelle e che la colpa sarebbe ricaduta tutta sul Cavaliere che a quel governo aveva appena dato appoggio”.
Sul ruolo di Gianni Letta, Bisignani ricorda anche che quando Berlusconi e Fini fecero saltare l’accordo sulla Bicamerale, “fece sapere a D’Alema che il Cavaliere aveva commesso un errore”.
“Allo stesso modo — ricorda — nel febbraio del 1996 dissentì dal no di Berlusconi a un governo guidato da Antonio Maccanico, grand commis di Stato che avrebbe aperto le porte a una collaborazione tra Forza Italia e la sinistra. La bocciatu
“Scalfari ad ogni scoop mi regalava champagne”
Spazio anche ai ricordi personali nei rapporti con i personaggi più influenti della stampa italiana.
Nel libro sono descritti i rapporti con i direttori dei giornali più importanti. Di Eugenio Scalfari ricorda di avergli offerto diverse notizie quando era capo ufficio stampa del ministero del Tesoro Gaetano Stammati.
“Ogni volta che lo aiutavo a fare uno scoop — ricorda — mi mandava una bottiglia di champagne. Credo che fosse altrettanto con un’altra sua fonte, Luigi Zanda, portavoce di Francesco Cossiga, al Viminale e poi alla presidenza del consiglio, con il quale credo abbia conservato una forte amicizia”.
Sul direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli invece dice: “Sempre compassato, dotato di una camaleontica capacità di infilarsi tra le pieghe del tuo discorso e di una grande dialettica, non sufficiente però a nascondere il fatto di non aver quasi mai un’opinione troppo discorde da quella dell’interlocutore: democristiano con i democristiani, giustizialista con i giustizialisti, statalista o liberista a seconda di chi ha davanti”.
Bisignani racconta inoltre di aver favorito i suoi rapporti con Geronzi ma non con D’Alema “visto che i due si detestavano cordialmente”.
“E durante il governo Berlusconi — ricorda — i motivi di contatto sono stati molteplici”.
Papa Francesco e la riforma dello Ior
In un passaggio del libro Bisignani parla anche delle mosse future di papa Francesco per trasformare lo Ior: “Secondo alcune autorevoli indiscrezioni lo riformerà trasformandolo in una vera banca della solidarietà al servizio dell’evangelizzazione. Uno strumento di aiuto per le chiese povere e per le missioni sparse nel mondo. I centri missionari saranno uno dei punti fondamentali di papa Francesco, secondo la miglior tradizione dei gesuiti”.
Secondo Bisignani, la riforma dello Ior avverrà attraverso la riclassificazione di tutti i conti e saranno “autorizzati solo quelli che fanno capo ufficialmente a congregazioni e ordini religiosi.
Nessuno potrà più gestire fondi, depositi e titoli se non nell’esclusivo interesse di enti religiosi”. Bisignani ha quindi spiegato che “la Curia conosce bene le sue intenzioni”. “Non fu un caso — ha aggiunto — se nel conclave precedente, per scampare il pericolo della sua salita al soglio pontificio come voleva il suo grande elettore di allora, Carlo Maria Martini, gesuita come lui, gli fu preferito Ratzinger. Meglio conosciuto nei palazzi apostolici e quindi considerato più malleabile”.
Cairo editore di La7? “Facilita future alleanze”
Telecom ha venduto La7 a Urbano Cairo, preferendolo al fondo Clessidra, perchè “si dice nell’ambiente che si è scelto il contendente finanziariamente più debole così da facilitare una possibile futura alleanza con Diego Della Valle o con De Benedetti, a seconda di come butterà la politica”.
In particolare sull’interesse di De Benedetti per La7, Bisignani sostiene che l’Ingegnere sarebbe stato disponibile all’acquisto “però solo con un’adeguata dote, quella che poi il consiglio Telecom ha concesso proprio a Cairo e non a lui, secondo me facendolo irritare. Vedrà che alla fine rientrerà nella partita”.
Infine “ad accelerare la vendita de La7 — racconta — ha contribuito anche lo studio legale Erede con una lettera che nelle ore che precedettero il consiglio d’amministrazione decisivo”.
Del legale Bisignani ricorda che “ha assistito Cairo nell’operazione e ha ottimi rapporti con De Benedetti”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 28th, 2013 Riccardo Fucile
SEDIE, CARTE, SCRIVANIE, ECCO I TAGLI DELLO STATO… ECONOMIE PR 1,5 MILIARDI CON LE “AZIONI VERDI” PER RIDURRE GLI SPRECHI ENERGETICI
Una sedia che costa 86 euro anzichè 124 (il 30% in meno), una scrivania a 112 euro invece di
176 (-36%), una risma di fogli A4 a 2,415 centesimi e non a 2,470 (-2,23%): sono anche questi i tagli attraverso cui la Consip, la società che si occupa degli acquisti per la Pubblica amministrazione, ha messo a segno un risparmio complessivo di 6,15 miliardi nel 2012, su 30 miliardi effettivi di spesa realizzata.
«Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi prefissati», commenta soddisfatto l’amministratore delegato, Domenico Casalino, presentando i dati del rapporto annuale della Concessionaria Servizi Informativi Pubblici, società che fa capo al ministero dell’Economia.
E a cui tutte le Pubbliche amministrazioni, per effetto della spending review, dovrebbero rivolgersi per i propri acquisti: il condizionale è d’obbligo perchè in realtà non tutti gli enti obbligati usano le convenzioni o gli altri strumenti messi a disposizione dalla Consip, con il rischio di incorrere nei richiami della Corte dei conti, e il 60% degli acquisti è da attribuire ad enti che non hanno prescrizioni.
Come gli enti locali: che teoricamente dovrebbero agire attraverso le centrali di acquisto regionali e, solo se queste non hanno ancora attivato una convenzione, passare alla Centrale pubblica di acquisti.
Oppure, in alternativa, indire gare d’appalto al ribasso, mettendo come prezzo base di riferimento quello Consip.
Perchè una cosa è certa: il prezzo ottenuto dalla Centrale, come testimoniato anche dall’analisi Istat-Ministero dell’Economia dell’anno scorso, è sempre più basso di quello di mercato.
E infatti di quei 6 miliardi e passa, vantati alla fine del 2012 (+20% dal 2011), buona parte (4,55 miliardi) sono stati ottenuti proprio su tagli ai «prezzi unitari» di 66 categorie merceologiche, che vanno dalle stampanti alla carta passando per le bollette della luce e del telefono.
I risparmi maggiori per gli uffici pubblici anzi si sono avuti proprio sui servizi, che rappresentano in realtà la fetta più grossa della spesa della pubblica amministrazione: in particolare, quelli di telefonia fissa e di gestione degli edifici.
Importanti anche i tagli ottenuti per l’illuminazione pubblica e per l’energia elettrica, dove è bastato rivolgersi a fornitori concorrenti per ottenere lo stesso servizio a prezzi più bassi.
Un’altra voce consistente, che ha permesso la riduzione, riguarda la gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro e quella degli apparecchi elettromedicali: ad esempio nelle Asl e negli ospedali l’oculatezza nell’affidare la manutenzione degli apparecchi delle Tac alle stesse aziende che li vendono è servita a risparmiare migliaia di euro.
Gli altri 1,59 miliardi sono ricavati in parte grazie alle «azioni verdi», che hanno portato a scegliere le soluzioni più sostenibili per ridurre gli sprechi. In parte vengono dalla cosiddetta «dematerializzazione documentale», ovvero il trasferimento di tanti dati, che richiedevano carta e ore di lavoro, sui computer e sulle reti cloud .
L’ultima fetta riguarda «i risparmi di processo», un’espressione che definisce tutto il tempo guadagnato dalle amministrazioni facendo gare sul Mercato elettronico anzichè dilungarsi in procedure lunghe, costose e a rischio.
Ma i margini di risparmio sono ancora tanti: un esempio su tutti è la prima gara in Italia sul Sistema dinamico d’acquisto, effettuata dalla Regione Lazio, per la fornitura di medicinali ad Asl e ospedali nel 2012.
Poichè i prodotti farmaceutici – spiega la relazione Consip – hanno diversi principi attivi e tanti fornitori sul mercato, si prestano alla negoziazione on line : su un bando con base d’asta di circa 57,3 milioni si è arrivati ad uno sconto del 5%, cioè quasi tre milioni di euro.
Valentina Santarpia
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Maggio 28th, 2013 Riccardo Fucile
MA LETTA NON AVEVA PARLATO DI RISPARMI?
Equiparare lo stipendio dei parlamentari italiani a quelli europei ritoccando, verso l’alto naturalmente, le entrate.
La proposta del Pd, o meglio, del deputato Guglielmo Vaccaro è la seguente: aumentare gli stipendi dei parlamentari, rivedere anche le cifre dei rimborsi spese e quelle destinate ai portaborse.
La proposta di legge è la numero 495 di cui Vaccaro, fedelissimo di Enrico Letta, ne è il primo firmatario.
Una richiesta bizzarra in un momento in cui la parola chiave è ‘sacrifici’ e dove la politica del rigore dovrebbe essere applicata non solo ai cittadini ma, e forse soprattutto, alla classe dirigente.
Ebbene, il belpaese riesce a stupire sempre e in quest’Italia a due velocità ecco che spunta una proposta da molti già ribattezzata come ‘la furbata’.
La proposta di Vaccaro consiste nel dare a deputati e senatori la stessa indennità mensile netta degli europarlamentari: 6.200 euro netti contro gli attuali 5 mila ‘scarsi’, facendo registrare un bel + 24% sugli introiti.
Una volta fatta questa scelta, sarebbe direttamente indicizzata alle rivalutazioni e alle decisioni del Parlamento europeo.
Aumento anche per i portaborse, ma direttamente pagati dalle Camere per evitare che i singoli onorevoli possan girare ai loro collaboratori una somma inferiore.
Ma chi è Guglielmo Vaccaro?
Da sempre fidato collaboratore del presidente del Consiglio Letta, che lo volle nella sua segreteria tecnica tra il ’99 e il 2011 quando era ministro dell’Industria.
Lo stretto legame affonda le radici in un passato ben più remoto che risale alla margherita e ancor prima ai giovani democristiani.
(da “Ibtimes“)
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Maggio 28th, 2013 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI AFRICANI AVREBBERO RICEVUTO SOLDI E UN PERMESSO SCHENGEN PER PROSEGUIRE IL VIAGGIO VERSO LA GERMANIA
Gravissime accuse delle autorità tedesche all’Italia.
Centinaia di migranti africani arrivati in Italia dove avevano ottenuto lo stato di rifugiati (o esuli), cioè non di illegali, sarebbero stati ‘spediti’ dalle autorità italiane in Germania.
O meglio, a ciascuno di loro, secondo le accuse tedesche, sono stati pagati 500 euro ed è stato concesso un permesso di soggiorno valido per tre mesi per tutta l’area di Schengen (quella gran parte dell’Unione europea al cui interno una volta entrati si viaggia senza essere tenuti a passare controlli di confine) a condizione che si trasferissero altrove.
Molti di loro sarebbero stati invitati più o meno chiaramente a recarsi in Germania.
Il problema è serio, soprattutto per gli sventurati esuli, i quali in Germania non hanno diritto a sussidi o altre misure di appoggio e sostegno.
Sono cittadini di paesi africani classificati come democratici (Nigeria, Togo, Ghana, dove tornando rischierebbero la miseria ma non repressioni), ma ottennero lo status di rifugiati in quanto, trovandosi da anni come emigrati per lavoro in Libia, fuggirono dalla Libia allo scoppio della guerra civile tra regime di Gheddafi e ribelli.
Fuggirono spesso con mezzi di fortuna, pericolosi viaggi in mare.
In Italia appunto furono classificati rifugiati perchè venivano da una zona di guerra, la Libia. Ma non sono rifugiati o esuli dal paese di nascita.
“Non hanno diritti legali qui in Germania, sarebbe irresponsabile dare loro false speranze”, dichiara il ministro degli Affari sociali della città -Stato di Amburgo, Detlef Scheele.
“Le uniche alternative per loro sono andare dove possono avere diritto di residenza legale e lavorare, come per esempio in Italia, o il loro paese solo se nel frattempo là la situazione è cambiata”.
E’ un pasticciaccio che minaccia di pesare e creare malumori nei rapporti bilaterali italotedeschi, sullo sfondo delle generali tensioni tra tutti i governi dell’eurozona su austerità , occupazione, salvataggio della moneta unica.
Il ministero dell’Interno federale, tra l’altro, non è chiaro che ruolo abbia voluto giocare: secondo l’agenzia di stampa tedesca Dpa, aveva scritto circolari riservate ai responsabili degli uffici stranieri (cioè per gli extracomunitari) dei 16 Stati della Repubblica federale (Bundeslaender), avvertendoli appunto in modo confidenziale che l’Italia stava pagando fino a 500 euro a testa a ogni rifugiato, più il visto Schengen, alla condizione che in cambio la persona del caso partisse dal territorio italiano alla volta di un altro Stato europeo membro dello spazio di Schengen.
La polemica, non nuova, rischia oltre l’incidente diplomatico di riaprire anche lo scontro sugli sbarchi nel Mediterraneo.
I paesi europei del sud Europa, infatti, rappresentano la principale via d’accesso al Vecchio Continente per i migranti in fuga da situazioni di guerra e fame non solo dall’Africa, ma anche dal Medio Oriente e dall’Asia.
L’Italia, proprio per questo, ha sempre sollecitato l’Unione a considerare quello dei profughi un problema della comunità europea, ricordando inoltre che molti dei migranti che arrivano in Italia hanno già come meta altri Paesi dell’Unione dove esistono comunità di connazionali radicate.
Andrea Tarquini
(da “La Repubblica“)
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