Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
STRATEGIE E PROSPETTIVE DEI TRE MAGGIORI PARTITI
A una settimana dal voto e con i partiti euro-scettici (M5S, Lega, Fratelli d’Italia, la stessa Forza
Italia) che potrebbero nel complesso superare la soglia del 50 per cento, speculare sul dopo è inevitabile.
Tra i vertici politici è un esercizio inevitabile, fondato però sulle sabbie mobili perchè il voto del 25 è probabilmente davvero imprevedibile. Ma ognuno, si sa, ha in mente uno scenario preferito e cerca di costruirlo orientando gli ultimi giorni della campagna.
Come si è capito da tempo, Renzi fa la corsa su Grillo. Il deputato Genovese è stato sacrificato alla Camera proprio per tamponare il “battage” grillino.
E infatti l'”Unità ” titolava ieri mattina: «Il Pd spiazza Grillo». Con ciò confermando il calcolo elettoralistico dietro la decisione di votare l’arresto.
Il problema del premier è soprattutto uno: allargare il più possibile la forbice delle percentuali fra il Pd e i Cinque Stelle.
Nel 2013 Bersani e Grillo arrivarano quasi alla pari e solo il premio di maggioranza salvò i democratici e la legislatura.
Oggi Renzi sa che la sua vittoria non sta tanto nella percentuale (benchè il 33 per cento sia un po’ la soglia magica), quanto nella forbice: sette-otto punti o più sarebbero i gradini del trionfo; viceversa un distacco di un paio di punti, o magari tre, renderebbe inestricabile una matassa politica già abbastanza complicata.
Anche per questo la campagna renziana è tutta “tagliata” su Grillo, a costo di suscitare critiche e qualche dubbio.
Ma Renzi ha un solo risultato utile, la vittoria, ed è logico che giochi le sue carte senza risparmio, anche a costo di qualche scivolata di stile.
Quanto a Grillo, il suo scenario prediletto è fin troppo ovvio: arrivare a ridosso del Pd, se non proprio al primo posto nella graduatoria; costringere Renzi sulla difensiva; chiuderlo nel circuito ristretto della sua maggioranza, in cui aumenterebbe il peso contrattuale di Alfano; lucrare sull’involuzione del sistema e l’eventuale fallimento delle riforme.
Non è una strategia sofisticata, certo, ma è tipica di una forza che raccoglie malessere e rancore sociale come se avesse una rete a strascico.
Peraltro l’esperienza storica insegna che i movimenti populisti vivono una parabola abbastanza breve, a meno di non conoscere un’evoluzione politica.
Grillo non si evolve e tuttavia resta in apparenza sulla cresta dell’onda. Il voto servirà a verificare questo paradosso.
Poi c’è Berlusconi. Nel sentire comune Forza Italia è destinata al collasso. Ma anche qui c’è un elemento d’imprevedibilità , per quanto pochi riescano a vedere la lista oltre il 19-20 per cento.
Non a caso Berlusconi adombra un ritorno alla grande caolizione, nel tentativo di avviluppare Renzi e salvare il salvabile.
Ma è un’ipotesi di fantapolitica. Il Pd non potrà mai accettarlo, specie se i Cinque Stelle uscissero dal voto europeo sulle ali di un buon risultato.
Il punto è un altro: se la somma dei consensi al Pd e a Forza Italia fosse molto al di sotto del 50 per cento, il destino delle riforme, almeno della nuova legge elettorale, sarebbe segnato.
Il che avrebbe conseguenze insondabili sul futuro della legislatura perchè la stessa filosofia del “renzismo” come novità politica si fonda sulla riforma elettorale.
E non una riforma qualsiasi, bensì quella il cui testo era nato dall’intesa con Forza Italia.
Ciò tuttavia presuppone un duopolio che è ormai saltato nel paese, benchè non ancora in Parlamento.
Stefano Folli
(da “il Sole24ore“)
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
IN FONDO LE TANGENTI ERANO ADEGUATE ALLA CRISI E SCONTATE PER I PADIGLIONI DEI PAESI POVERI
Come è possibile che, ventidue anni dopo Mani Pulite, qualcuno finisca ancora in galera per tangenti sugli appalti pubblici?
Possibile che in questo Paese non cambi mai niente?
Se lo chiedono, increduli e molto scossi, Gian Stefano Frigerio, Luigi Grillo e Primo Greganti, anche a nome degli imprenditori coinvolti.
I loro avvocati, secondo indiscrezioni, starebbero per denunciare la Procura di Milano per interruzione di pubblico servizio.
TARIFFE
Erano onestissime, perfettamente adeguate alla crisi: alle imprese per aggiudicarsi un appalto bastava pagare una mazzetta dell’uno per cento.
La navigata professionalità del trio Frigerio- Greganti-Grillo garantiva un trattamento di assoluta eccellenza: oltre alla documentazione completa per la concessione dell’appalto, in una preziosa edizione su carta pergamenata con le firme perfettamente falsificate di Obama e papa Bergoglio in aggiunta a quella del geometra comunale, ricevevano anche una prelazione per gli appalti di Expò 2020 a Dubai.
Per i padiglioni dei paesi poveri, realizzati con i caratteristici mattoni di fango e paglia, la tariffa scendeva addirittura allo 0,5 per cento. In un solo caso, quello del padiglione delle isole Far Oer che doveva essere interamente dedicato al merluzzo, è stata pagata una tangente al governo di quel Paese perchè rinunciasse a partecipare.
LE FIACCOLATE
Tornano le fiaccolate attorno a Palazzo di Giustizia, in segno di solidarietà con i giudici.
Sono ancora più affollate di quelle degli anni Novanta perchè molti dei manifestanti, dopo tutti questi anni, sfilano accompagnati dalla badante.
Nella sua monumentale opera “Storia della corruzione in Italia” (trenta volumi, con fascicoli di aggiornamento mensili) lo storico inglese Trevor Potter sostiene che «il precoce fallimento di Mani Pulite poteva essere ravvisato già in quelle fiaccolate attorno a Palazzo di Giustizia. Ai partecipanti le fiaccole vennero vendute con un ricarico del dieci per cento da destinare ai nuovi partiti che sarebbero nati dalla decapitazione di quelli vecchi».
L’EQUIVOCO
Tutto è talmente identico ad allora (i piemme, gli imputati, i reati contestati e le dichiarazioni dei politici “sorpresi e amareggiati”) che molte persone, vedendo i telegiornali, hanno pensato che fosse uno sceneggiato televisivo su Mani Pulite e hanno scritto alla Rai protestando perchè nel cast non ci sono Beppe Fiorello e Giulio Scarpati.
Galvanizzato da quanto sta accadendo si è rifatto vivo anche Mario Chiesa, che in una intervista-verità ha detto che l’esperienza di Tangentopoli ha lasciato un’eredità tutt’altro che disprezzabile: per esempio, secondo lui è ancora possibile recuperare nel fiume Lambro le banconote da centomila lire che aveva buttato nel gabinetto in una delle fasi più convulse di quell’inchiesta.
GREGANTI
I magistrati lo hanno sottoposto all’esame del Dna per verificare che si tratti proprio di lui e non del suo successore,
Secondo Greganti, al quale il Pd, per dare un chiaro segnale di svolta, aveva affidato l’incarico lasciato vacante. Secondo illazioni non verificate Primo Greganti, ibernato per vent’anni nella cella frigorifera di un Ipercoop contenente frutta di stagione (la stagione è l’estate del 1993) e scongelato solo pochi mesi fa per l’errore di un addetto, sarebbe all’oscuro degli avvenimenti storici degli ultimi vent’anni, e si sarebbe tradito chiedendo tangenti in lire e promettendo l’interessamento di Nilde Iotti.
LE COOPERATIVE
Impressionante il video dei carabinieri nel quale è immortalata la trattativa tra le cooperative rosse e i tangentisti.
Nel tentativo di recuperare almeno in parte l’antico spirito del movimento operaio, le Coop si sono recate all’appuntamento, davanti a un bar di Milano, con una foltissima delegazione, sul modello di Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, con tanto di madri discinte con il bambino al seno, avanzando compatti lungo il viale e bloccando il traffico.
Michele Serra
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA LOTTA ALLA CORRUZIONE: WHISTLEBLOWER, MENO LEGGI, SEMPLIFICAZIONE DELLE REGOLE, ROTAZIONE DEI FUNZIONARI
Lo scandalo delle mazzette all’Expo di Milano ha riacceso il dibattito sulla lotta alla corruzione nella
pubblica amministrazione.
Come c’era da aspettarsi, le proposte sul tavolo sono caratterizzate dal vizio tutto italiano di credere che basti approvare l’ennesima legge per far scomparire il problema.
Purtroppo la bacchetta magica, saldamente nelle mani della fata dai capelli turchini, esiste solo nell’immaginazione di Carlo Collodi e nelle pagine del suo capolavoro, Pinocchio.
Introdurre nuove e complicate fattispecie nel codice penale è la strategia usata dalla classe politica per autoassolversi e non intacca il sistema delle tangenti.
Quali sono dunque le ricette che hanno ridotto, anche se mai eliminato del tutto, la corruzione negli stati che occupano i primi posti della classifica di Transparency International?
Innanzi tutto la corruzione si può combattere partendo dal basso, dando gli strumenti ai cittadini per operare come «vedette civiche» al servizio del bene collettivo.
Gli Stati Uniti hanno una legislazione molto avanzata sul ruolo del whistleblower, quel dipendente pubblico che denuncia illegalità nell’amministrazione dove lavora.
E’ cruciale promuovere questo tipo di denunce e difendere chi le fa dall’accusa di essere una spia oppure un invidioso.
Questi cittadini, al contrario, svolgono un servizio pubblico, anche se i loro motivi iniziali possono essere poco nobili.
Un altro modo di combattere la corruzione dal basso è promuovere la discussione del fenomeno.
Siti come Ho pagato una tangente (https://www.ipaidabribe.com/) stanno avendo un grande successo. Tale piattaforma è stata introdotta dapprima in India e permette ai cittadini di raccontare, facendo o meno i nomi, i loro incontri quotidiani con la corruzione.
In Italia, bisognerebbe imparare dalla lotta alla mafia e applicare alla corruzione il principio di AddioPizzo, l’associazione di imprenditori siciliani i quali si rifiutano di pagare il pizzo.
Questi movimenti hanno bisogno di leader carismatici e tempo per crescere, ma possono avere un effetto rivoluzionario.
Nel Regno Unito, ad esempio, esiste un’iniziativa simile, tra aziende nel settore delle costruzioni.
Questi imprenditori hanno creato anche un forum anti-tangenti, che permette loro di scambiarsi informazioni preziose su funzionari corrotti (un’iniziativa simile esiste anche nel settore del trasporto navale).
Dare potere ai cittadini va di pari passo ad uno sforzo della politica.
I Paesi più onesti hanno un numero di leggi e regolamenti molto inferiore del nostro. Ad esempio, nel 2003, il Parlamento italiano ha approvato 173 leggi, mentre il Regno Unito 50, la Spagna 82 e la Germania 85, nazioni che hanno livelli di corruzione inferiori al nostro.
Vi è una relazione statisticamente significativa tra quantità di leggi e regolamenti, e corruzione.
Un funzionario pubblico ha più potere discrezionale quando la legislazione è fuori controllo.
La ricetta è semplificare le regole.
Un’altra misura utile consiste nell’introdurre forme di competizione tra uffici pubblici: quando è possibile ottenere licenze, passaporti e altri titoli in uffici diversi dal proprio comune di residenza si riduce il potere discrezionale dei funzionari.
Vi è un’altra riforma della pubblica amministrazione che avrebbe un effetto rivoluzionario: introdurre un sistema di rotazione e di estrazione a sorte dei funzionari assegnati a certi settori.
Il corruttore istituisce rapporti di lungo periodo con il corrotto. Non stupisce se anche nello scandalo dell’Expo incontriamo sempre gli stessi signori, già all’onore delle cronache negli Anni Novanta.
Questi individui dispongono di un capitale di rapporti sociali costruito negli anni e di grande valore.
E’ necessario rompere il sodalizio tra di loro e i funzionari statali introducendo degli elementi di incertezza, attraverso l’estrazione a sorte di coloro cui viene affidato un incarico pubblico.
I nomi dei prescelti potrebbero benissimo essere pescati da una lista idonei, scelti sulla base delle loro competenze da una commissione indipendente.
Chi legge le cronache in questi giorni rischia di farsi prendere dallo sconforto. Al contrario, non bisogna cedere al pessimismo cosmico.
L’Italia dispone di una magistratura indipendente, di una società civile attenta, e di molte persone oneste. Alcune riforme mirate potrebbero avere effetti rivoluzionari in poco tempo.
Diversi Paesi sono passati da un equilibrio della mazzetta ad uno di relativa onestà in pochi anni.
Per fare questo miracolo servono però due ingredienti: uno sforzo collettivo, e non credere alla bacchetta magica.
Quella esiste solo nel mondo di Pinocchio, il burattino che diceva le bugie.
Federico Varese
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LE MISTERIOSE RELAZIONI ROMANE DI PRIMO GREGANTI E GLI IMBARAZZATI SILENZI DEI SENATORI PD
Francesco Riccio detto Ciccio, calabrese della Locride, quand’era tesoriere del Pds, introduceva il comizio finale del compagno segretario alla festa nazionale dell’Unità , come era d’uopo.
Seguì poi Claudio Velardi, ex lothar dalemaniano di Palazzo Chigi, nella società Reti. Soci. E lobbisti. Ma i due da tre anni non lavorano più insieme.
Riccio fa il consulente per conto proprio e tre mesi fa, a febbraio, come annotano i finanzieri, ha incontrato Primo Greganti.
È l’unico contatto chiaro, per il momento, che emerge tra il compagno G e il suo antico mondo di riferimento, sia dalemiano, sia bersaniano. A più di una settimana dal suo secondo e clamoroso arresto, Greganti e le sue relazioni romane con il Pd rimangono il mistero più grande della nuova via crucis giudiziaria della sinistra.
Al centro di tutto, le sue visite al Senato, senza lasciare traccia all’ufficio passi. È come se, una volta entrato, il compagno G fosse stato inghiottito da un buco nero.
Chi l’ha visto? Chi l’ha ricevuto? Il giallo Greganti a Palazzo Madama riecheggia, per certi versi, l’enigma della valigetta da un miliardo di lire che varcò Botteghe Oscure portata da Gardini e di cui non si è mai saputo il destinatario, cruccio storico dell’allora pm Antonio Di Pietro.
Ancora una volta, il tentativo è quello di accreditare il compagno G come uno che sbaglia da solo e che millanta rapporti che non ha.
Eppure le conferme sulle sue relazioni di partito, vent’anni dopo la stagione di Tangentopoli, non mancano.
Al di là dei nomi citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emergono nuovi dettagli forniti dall’ineffabile coppia Frigerio-Cattozzo.
I due, parlando un anno fa di appalti legati a Finmeccanica, ribadiscono lo schema delle coperture bipartisan per avere successo.
Dice Cattozzo: “Ma perchè tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole?”.
Frigerio risponde: “Certo”.
Giorno dopo giorno si ispessisce sempre più il filo che lega il compagno G al giro dalemiano, da cui forse non si è mai distaccato.
Altro esempio di peso sono le pressioni, intercettate dagli investigatori, del tesoriere ligure del Pd sul governatore di quella regione, Claudio Burlando, dalemian-bersaniano.
La catena di Greganti sembra invisibile ma è d’acciaio. In fondo anche i suoi rapporti con i corregionali Sergio Chiamparino e Piero Fassino appartengono a quegli ambienti.
Che poi Chiamparino e Fassino sia siano convertiti al renzismo questo è un altro fatto. Anche Greganti ha sempre sperato in futuro riformista e largo del Partito democratico, alla maniera dell’ex sindaco di Firenze.
Senza dimenticare, però, che il famigerato Cattozzo in un’altra intercettazione, già nota, fa riferimento a un sì di Bersani, riferito da Greganti, sulla conduzione della Sogin. Una banda di millantatori?
Tutta questa catena conduce ai mercoledì di Greganti a Roma.
Lucio Barani, senatore socialista di Gal, il gruppo autonomista, ha dichiarato di avere visto il compagno G a Palazzo Madama insieme a “due o tre senatori del Pd e a un componente del governo”, forse un ministro, oppure un sottosegretario.
Chi? Il ministro Martina, per esempio, che si occupa di Expo ha già detto di non avere mai visto Greganti. C’è da credergli, fino a prova contraria.
Ma resta l’imbarazzante silenzio di quel senatore o di quei senatori amici di Greganti.
Perchè non escono allo scoperto, invece di alimentare questa caccia all’uomo?
Passare per amici di Greganti, oggi come vent’anni fa, è una sorta di marchio infame. Otto anni fa, in un libro-intervista sulla sua vita, il compagno G alla fine si congedò così: “Il compagno G non andrà in pensione. Tenderò ad occupare tutti gli spazi che mi saranno consentiti per sostenere le mie idee. Lasciami essere presuntuoso: il bisogno che sento di esprimerle è prima di tutto motivato dalla inadeguatezza e la superficialità dell’offerta politica oggi disponibile”.
Se sostituite la parola “idee” con “appalti”, sembra una confessione, non una profezia.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LENTEZZA DEI PROGETTI E FRAMMENTAZIONE DEI PIANI. MANCA UNA VISIONE UNITARIA…NEL 2015 IN BALLO 22 MILIARDI
L’occasione di crescita si dissolve nei mille rivoli della burocrazia, nella sconfinata frammentazione
dei progetti finanziati e nella mancanza di un quadro comune che li contenga.
E’ così che il Sud, da anni, perde le poche occasioni concesse per recuperare il gap che lo separa dal resto del Paese e dall’Europa.
Lo spreco di risorse si può dedurre da un’analisi di Riccardo Padovani contenuta nell’ultimo rapporto Svimez, che mette a confronto (nel periodo 2007-2010) l’andamento del Pil misurato in pari potere d’acquisto nelle distinte regioni dell’Europa a 15.
In media, fra il 2007 e il 2010, le aree della convergenza (le più povere dei vari paesi) hanno subito una caduta della ricchezza del 3,5 per cento contro il meno 1,7 delle aree più sviluppate.
Ma l’Italia è andata decisamente peggio sia riguardo alla media, che rispetto a Grecia e Spagna, poli della crisi.
Nel periodo considerato, infatti, l’area della convergenza (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia), quanto a Pil in pari potere d’acquisto, ha subito un crollo del 4,6 per cento, contro il meno 4 della corrispondente area greca e il meno 3,8 della Spagna.
I risultati hanno penalizzato, in genere, i paesi con maggior scompenso territoriale e la responsabilità del fallimento non può essere completamente attribuita all’uso fatto dei Fondi strutturali europei e della corrispondente dotazione che il bilancio dello Stato deve mettere sul piatto, precisa la Svimez, ma certo i risultati parlano chiaro, l’occasione è andata persa e il problema va affrontato.
Anche perchè, secondo i calcoli del premier Renzi, sommando le «vecchie» risorse ancora da spendere, quelle previste per la programmazione 2014-2020, e i 55 miliardi del Fondo per lo sviluppo e la coesione, nei prossimi sei anni ci saranno complessivamente 180 miliardi da impegnare: «l’ultima chance per la svolta» ha detto.
In realtà , secondo i dati del ministero della Coesione territoriale i miliardi a disposizione risultano essere 106 (84 per i prossimi anni più i 22 da spendere entro il 2015).
E va anche precisato che la quota propriamente europea di quei fondi non va oltre i 42 miliardi: il resto proviene interamente dal bilancio dello Stato. La mancata crescita e l’aumento del debito pubblico potrebbero quindi mettere a rischio i futuri investimenti.
«Fino ad oggi le speranze di crescita sono naufragate nella burocrazia e lentezza che accomuna i nostri progetti e nella eccessiva frammentazione dei piani presentati dalle regioni» commenta Adriano Giannola, presidente della Svimez.
«Il rientro degli investimenti è basso perchè le risorse sono destinata a opere piccole: un rifacimento di una piazza là , un restauro qua, interventi spesso di bassa qualità . Si distribuisce un po’ di lavoro, si coltivano le clientele, ma nel complesso non c’è un progetto unitario che favorisca la crescita».
Del fatto che la frammentazione fosse il nocciolo del problema se ne erano già accorti Fabrizio Barca e Carlo Trigilia, ministri della Coesione economica nei governi Monti e Letta. Trigilia aveva avviato un processo di razionalizzazione della spesa, concentrazione degli obiettivi e controllo dei risultati, ma le buone pratiche rischiano ora di essere superate dai tempi stretti.
«Gli interventi devono essere concentrati in pochi obiettivi qualificati e selezionati sulla base di una strategia volta ad affrontare i problemi di coesione territoriale» scriveva nel suo ultimo rapporto sull’attività svolta. Appena arrivato al ministero si era trovato sul tavolo oltre 400 azioni che chiedevano di essere ammessi ai finanziamenti e li aveva drasticamente ridotti ad una quarantina, finalizzandoli soprattutto all’occupazione e al rilancio delle imprese.
Ma il nuovo governo (che non ha nominato un ministro ad hoc, ma ha assegnato la delega al sottosegretario della presidenza del Consiglio Graziano Delrio) dovendo accelerare i tempi della spesa e consegnare a Bruxelles l’Accordo di partenariato (il documento guida della nuova programmazione) entro il 22 aprile, ha riaperto le porte alle richieste delle regioni e ha fatto lievitare i progetti da finanziare a quota 330.
Il rischio frammentazione è tornato.
I dati dell’ex ministro Barca sottolineano poi che fra il 2007 e il 2013 in diverse province del Sud la spesa procapite finanziata dai Fondi ha superato i 4 mila euro: visti i mancati effetti sull’occupazione, un’occasione sprecata.
Federico Fubini e Luisa Grion
(da “La Repubblica“)
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
ORA A RISCHIO GLI EFFETTI DEL BONUS IRPEF
I primo segnali di scollamento fra speranze e realtà erano emersi la settimana scorsa.
Da gennaio Piazza Affari aveva corso più delle altre Borse, prima volta da anni. Eppure dall’inizio del mese qualcosa si era spezzato. Come a maggio 2011, subito prima che l’Italia venisse investita dal contagio, il listino di Milano ha iniziato a perdere mentre gli altri tenevano.
Questo non è il 2011, certo. Ora esiste una garanzia (condizionata) della Banca centrale europea, quindi il mercato sa che l’Italia potrà sempre trovare un prestatore ultimo a Francoforte se necessario.
Ma se c’è un filo rosso che collega quei giorni traumatici a questi, è nel fatto che il Paese non è mai riuscito a liberarsi davvero dalla recessione in cui è piombato tre anni fa. Il calo dell’economia nei primi tre mesi del 2014 è appena dello 0,1%, poca cosa dopo un crollo di oltre il 5%, ma contiene un duplice messaggio.
Il primo è che l’Italia di oggi non ha i muscoli per risalire dal fondo e, evidentemente, non ha usato questi anni per costruirli. Ma l’altro messaggio di ieri è che questa debolezza cronica ancora una volta minaccia l’architettura di bilancio del governo in carica. Oggi quello di Matteo Renzi, come ieri quelli di Enrico Letta, Mario Monti e Silvio Berlusconi.
Non c’è dubbio infatti che l’impianto dello sgravio da 80 euro al mese da ieri poggia su basi meno solide. L’Istat fa sapere che quest’anno l’Italia per ora è decresciuta dello 0,2% dunque, calcola Sergio De Nardis di Nomisma, per il 2014 può contare al massimo in un Pil in aumento dello 0,2% o 0,3%.
È una stagnazione, non la ripresa annunciata.
L’Istat peraltro stima che spendere 6,7 miliardi per il bonus Irpef già nel 2014 genererà circa 1,5 miliardi crescita in più.
Il resto verrà risparmiato dalle famiglie per paura del futuro, finirà ai produttori esteri di smartphone o farmaci comprati dagli italiani, o in parte ai professionisti in posizione di rendita che si fanno pagare troppo cari i propri servizi.
Dunque il governo spende molto per raccogliere poco: poichè il motore dell’economia italiana è palesemente guasto da anni, la benzina che i vari esecutivi cercano di versarci dentro perchè sia consumata spinge poco lontano.
Era successo con i 5 miliardi dell’Imu del governo Letta, può riprodursi con i 6,7 miliardi dell’Irpef di quello di Renzi benchè quest’ultima misura miri all’equità sociale con molta più determinazione.
Ma con un’economia quasi a zero, anzichè in ripresa, rischiano di non esserci neanche i soldi previsti per finanziare il bonus Irpef rispettando l’impegno a non far salire il deficit oltre il 3% del Pil.
In un Paese fermo infatti la coperta si accorcia. Poichè la crescita sarà più debole di quanto stimato dal governo, l’ammanco di cassa prevedibile per la fine dell’anno sembra essere di circa 4,5 miliardi di euro.
Basta un minimo intoppo negli ingranaggi pensati per coprire la spesa del bonus Irpef, perchè il deficit torni di nuovo eccessivo.
Siamo solo a maggio ma, come l’anno scorso, già si allunga l’ombra di una manovra correttiva in estate o in autunno. Allora il governo la smentì per poi farla in ottobre e anche oggi lo percorso ha iniziato a ripetersi.
Per spezzare l’incantesimo di questo ciclo continuo di cadute del Pil, manovre, nuove cadute e ulteriori strette al bilancio, il governo può guardare ai dati sui Paesi europei pubblicati ieri. Eurostat segnala che economie fragili come Spagna, Portogallo o Irlanda sono risalite nell’ultimo anno, mentre l’Italia è scesa ancora di più.
Quelli restano Paesi carichi di problemi, ma hanno un aspetto in comune: cercano di adattare le proprie istituzioni economiche interne alla nuova realtà della vita in un’unione monetaria.
Hanno capito che non si può giocare a calcio continuando a indossare i tacchi alti come prima. In quei Paesi i negoziati sui salari non escludono certo i sindacati, ma avvengono sempre più al livello delle singole aziende per permettere loro di stare sul mercato.
Magistrati e avvocati sono sotto pressione per produrre una giustizia dai tempi praticabili, non decennali. E contro la corruzione non si creano «task force», ma si rende il falso in bilancio un reato per cui si va in carcere.
Quanto alla Spagna, poi, il governo è stato costretto ad affrontare il problema delle banche prima e con forza, senza rinviarlo.
Solo in Italia il credito (a marzo) è di 27 miliardi sotto i livelli di un anno fa. Non che ciò risolva tutti i problemi. I dati Eurostat di ieri gettano luce su un’area euro che emerge dalla sua crisi in pezzi.
L’unione monetaria resta un edificio di pieno di squilibri. Non fosse per la Germania che cresce dello 0,8%, l’area nel suo complesso sarebbe ferma.
La Francia lo è e sembra avere molti degli stessi problemi dell’Italia. Persino le economie un tempo più vicine alla Germania arrancano: l’Olanda vive una recessione dettata dai bilanci delle famiglie, in profondo rosso a causa dei mutui casa; la Finlandia somiglia a un’azienda il cui modello di business è saltato: persa Nokia, l’unica grande impresa, scopre nell’era digitale che l’export del suo legname per produrre carta sta crollando.
Solo l’Austria sembra tenere il passo della Germania e di un euro talmente forte che in ogni altro Paese deprime l’export e i consumi, facendo salire solo il debito in rapporto al Pil.
Ora tutti guardano a Mario Draghi perchè riduca lo stress che schiaccia ancora l’area euro. Per la Bce i prossimi mesi non si annunciano più tranquilli degli anni passati: nel 2012 ha sedato la crisi, ma questa può risvegliarsi in ogni momento.
Federico Fubini
(da “la Repubblica“)
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
APPELLI ALLE FORZE DELL’ORDINE, INSULTI A SFONDO SESSUALE ALLA MERKEL, PROMESSA DI PROCESSI PUBBLICI: E COME SEMPRE PROPOSTE CONCRETE ZERO
Beppe Grillo in comizio a Torino attacca il candidato del Pse Martin Schulz alla presidenza della
commissione europea: “Bisogna ringraziarlo Stalin. La guerra contro i nazisti l’ha vinta lui. Se non vinceva Stalin, Schulz era dentro al parlamento con una svastica sulla fronte. E tu dai dello stalinista a me? Schulz, vedi di andare affanculo…”.
Rincara la dose e urla alla folla, travalicando il limite delle parole: “Dicono che io sono Hitler. Ma io non sono Hitler…sono oltre Hitler!”.
E aggiunge: “Se non ci fosse il M5s adesso ci sarebbero i nazisti”.
Poi spara a zero contro i politici facendo un appello alle forze dell’ordine: “La Digos è tutta con noi, la Dia è tutta con noi, i carabinieri pure. Noi facciamo un appello, non date più la scorta a questa gente”, perchè “non ce la fanno più a scortare quella gente al supermercato o al festival. Loro sono noi”, grida il leader del M5s.
E assicura le migliaia di persone radunate in piazza Castello: “Siamo scesi in piazza per vincere e vinceremo queste europee con il 100 per cento”.
Anzi, ribadisce che “queste europee le abbiamo già vinte e lo sanno e cominciano di nuovo con il
dossieraggio, la stesa tecnica non cambia di una virgola. Dicono che 32 anni fa prendevo soldi in nero, ma i risultati ci daranno ragione vinceremo con il 100%, non ce la faranno. Io non sono candidato, non sono il loro avversario sono un pregiudicato e li riconosco prima, il loro avversario è l’onestà di chi fa buona politica”.
Come da copione, attacca anche il Capo dello Stato: “Io non mi stupisco quando allo stadio fischiano l’inno di Mameli. Fratelli d’Italia, dice. Ma fratelli di chi? Dei piduisti, dei massoni, della camorra? Chiediamoci perchè si fischia un inno. Io invece inorridisco quando il presidente della Repubblica riceve al Quirinale un condannato in via definitiva”.
E conia un nuovo soprannome per Berlusconi: “Non è più lo psiconano, ma Tinto Brass: Vediamo chi metteranno nel cesso Tinto…”, riferendosi alla battuta dell’ex cavaliere di qualche giorno fa .
Contro Renzi dice: “Portano i bambini in piazza e li fanno gridare ‘Matteo, Matteo’. Bisogna prendere quelle maestre e licenziarle in tronco perchè non possono fare queste cose con i bambini”.
E ironizza sull’efficacia delle politiche del governo Renzi in Europa con insulti a sfondo sessuale al cancelliere tedesco: “L’ebetino è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel”.
Sui giornalisti, sui politici sugli imprenditori che hanno rovinato questo paese. Faremo un’indagine per vedere come hanno usato i nostri soldi. Faremo un processo pubblico”
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
E FARINETTI SI PORTA IL DUOMO IN USA… CANONI RIDICOLI PER INGRAZIARSI LA FINANZA INTERNAZIONALE
La banca d’affari newyorchese Morgan Stanley ha accolto i suoi danarosissimi ospiti per una cena
ultraesclusiva (organizzata dall’albergo di lusso Four Seasons) nel Cappellone degli Spagnoli, che è la sala capitolare trecentesca di Santa Maria Novella a Firenze.
Si chiama così perchè, a metà del Cinquecento, divenne la cappella dove si riunivano gli spagnoli del seguito di Eleonora di Toledo, moglie del granduca Cosimo I.
È, insomma, una chiesa – con tanto di grande crocifisso marmoreo sull’altare – completamente coperta di affreschi che raccontano la spiritualità e le opere dell’ordine mendicante fondato da San Domenico.
La brillante idea di usarla come location al servizio della grande finanza responsabile della crisi è del vicesindaco e candidato a sindaco Dario Nardella: la cappella è, infatti, compresa nel circuito museale comunale.
Rispettando più il desiderio di discrezione del gruppetto di super-ricchi che non il diritto dei cittadini a essere informati dell’uso del loro patrimonio monumentale, il Comune ha tenuto finora segreto l’evento.
Ma si apprende che il beneficio economico sarà minimo: meno di 20 mila euro, che dovrebbero essere destinati al restauro di un’opera d’arte.
La precipitosa e silenziosa organizzazione della serata – gestita direttamente da Lucia De Siervo, responsabile della Direzione cultura di Palazzo Vecchio e membro del cerchio magico renziano – comporta la temporanea chiusura della chiesa di Santa Maria Novella (eventualità che ha fatto infuriare il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, proprietario del tempio), e obbliga collocare le cucine in un chiostro del convento ancora di proprietà dei frati, all’oscuro di tutto.
Nardella, evidentemente, non cambia verso rispetto a Renzi: l’unico uso del patrimonio pubblico è ancora quello commerciale.
Ma vista la grottesca esiguità del canone, è evidente che il vero movente è piuttosto quello di disporre di queste location per costruire e consolidare la rete dei rapporti politici ed economici del gruppo dirigente renziano, assai proclive a frequentare la più spregiudicata finanza internazionale.
Colpisce che il connubio chiesa-lusso-affari non turbi i sonni di politici che non perdono occasione per esibire il proprio cattolicesimo.
Negli affreschi del Cappellone i milionari hanno visto San Domenico, ardente di amore per la povertà , che converte e confessa coloro che vivono nel lusso: ci si riconoscono?
Poco più in là hanno visto rappresentato il trionfo di San Tommaso d’Aquino, il grande filosofo medioevale che scrisse che “il lucro non può essere un fine, ma solo una ricompensa proporzionata alla fatica”, e che “nessuno deve ritenere i beni della terra come propri, ma come comuni, e dunque deve impiegarli per sovvenire alle necessità degli altri”.
Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che la sua immagine dipinta avrebbe un giorno decorato la location di un banchetto per i super squali che hanno costruito la più grande disuguaglianza della storia umana.
Il prossimo passo quale sarà ? Far sfilare modelle in biancheria intima su un altare? Ma si è già fatto, e proprio a Firenze: in Santo Stefano al Ponte, con la benedizione della Curia.
Si arriverà a prestare pezzi di chiese gotiche a centri commerciali? Già fatto anche questo: Oscar Farinetti ha appena annunziato che porterà un pezzo del Duomo di Milano nel suo supermercato sulla Fifth Avenue, a New York, per la precisione “due guglie”.
E sì, la Veneranda Fabbrica del Duomo (quella che voleva mettere un ascensore per fare una terrazza da aperitivi sul tetto della Cattedrale) gli presta due guglie da tempo musealizzate, con relative statue di santi.
Non per un progetto scientifico, ma come attrazione: insieme a quattro di quelle che Farinetti ha chiamato “grondaie” (le gronde gotiche), e a quella che ha definito “una statua di Santa Lucia incinta”.
Ora, Santa Lucia era vergine e finì martire: ma incinta non risulta, e probabilmente l’esuberante Farinetti ha frainteso la veste goticamente cinta sotto il seno della bellissima Santa Lucia del Maestro del San Paolo Eremita, che verrebbe strappata al circuito del Museo del Duomo.
Ma il punto non è la gravidanza della statua, nè la cultura del patron di Eataly: il punto è chiedersi se abbia senso portare pezzi di una grande chiesa medioevale in un supermercato di cibo a New York, o far banchettare i banchieri in una chiesa del Trecento
Il Vangelo dice che non si può servire a due padroni, e che si deve scegliere tra Dio e il denaro: bisogna riconoscere che sia la Veneranda Fabbrica sia Nardella hanno scelto.
Ma anche chi non ha scrupoli religiosi dovrebbe preoccuparsi per la distruzione della funzione civile del patrimonio culturale.
Chi crede nel marketing dovrebbe interrogarsi sulla ridicola entità degli utili, e chi immagina che questa privatizzazione sia la via del futuro dovrebbe farsi qualche domanda sulla mancanza di trasparenza.
Gli unici che in nessun caso avranno dubbi sono i pochissimi che ci guadagnano: questo è certo.
Tomaso Montanari
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
IPOTESI VOTO ANTICIPATO CONSIDERATA UNA CARTA DA GIOCARE…SE FORZA ITALIA DIVENTA IL TERZO PARTITO, BERLUSCONI NON HA INTERESSE A VOTARE CON L’ITALICUM… E SALTEREBBERO LE RIFORME
Una piccola scala d’emergenza per tirare fuori il collo dalla eventuale palude che rischia di allagare la politica e le istituzioni dopo le elezioni europee di domenica prossima.
Una porta con una scritta ben chiara: elezioni anticipate. Appunto in autunno.
Ormai sono in tanti a parlarne. A considerarla la carta da giocare se tutto dovesse andare per il verso sbagliato. Nel centrosinistra e nel centrodestra. Nel governo e nel Partito democratico.
Certo quel “se” è ancora molto grande. Eppure per molti, nel corso di questa campagna elettorale, sta diventando via via sempre più piccolo. Mentre crescono le probabilità di votare a ottobre «per dare una svolta».
«Per quanto mi riguarda — ripete Matteo Renzi ad ogni occasione — le elezioni sono fissate per il 2018».
Ma a Palazzo Chigi alcuni dei suoi collaboratori hanno iniziato a prendere in considerazione proprio la “rivoluzione d’ottobre”.
Dopo l’inchiesta Expo, l’arresto di Scajola e il voto su Genovese, i calcoli sono diventati sempre più serrati.
Illustrano i vantaggi e gli svantaggi di una soluzione di questo tipo. Vagliano le condizioni che a partire dal 26 maggio potrebbero modificare e sbilanciare l’attuale assetto. E il tutto si basa su questo interrogativo: una ipotetica avanzata del Movimento 5 Stelle è in grado di mettere in crisi l’attuale equilibrio?
Dipende dalla quota che i grillini raggiungeranno e dal loro distacco rispetto al Pd e a Forza Italia.
Tra i democratici e forzisti infatti sta avanzando una sorta di “demone”. Una paura per certi aspetti incontrollata che i pentastellati si avvicinino a insidiare la soglia di successo del Pd e che il distacco da Berlusconi riduca Forza Italia definitivamente al ruolo di terzo partito.
Ieri, nel Transatlantico di Montecitorio, era scattato l’allarme tra deputati di prima nomina e veterani raggiungendo i massimi livelli.
Un turbinio di bigliettini passava di mano in mano con i dati degli ultimi sondaggi. E ogni volta tutti sgranavano gli occhi. Scuotevano la testa e se ne andavano.
Se quei numeri venissero confermati — è il ragionamento che molti fanno nel governo e nelle Istituzioni — il primo effetto sarebbe il disconoscimento da parte del Cavaliere del cosiddetto “patto del Nazareno”. La vittima istantanea sarebbe dunque l’Italicum. L’ex premier non potrebbe più accettare una legge elettorale che prevede il ballottaggio tra i primi due partiti e quindi la sua ininfluenza.
La riforma costituzionale — l’abolizione del Senato — salterebbe un minuto dopo. Senza contare che diventerebbe più complicato cambiare il sistema di voto e il quadro istituzionale senza o addirittura contro il M5S eventualmente irrobustito dalle urne europee.
«Per quanto mi riguarda — dice proprio Berlusconi in queste ore — quell’impianto di riforme già non esiste più». Il leader forzista è già passato ad una sorta di “fase due”. Quella della «difesa a oltranza».
Prova a ricucire con l’ex delfino Alfano nella speranza di poter unire i voti di tutti i “satelliti” del suo schieramento (in primo luogo la Lega e Fratelli d’Italia) e sommarli a quelli del Nuovo centrodestra. Per provare a dire dopo il 26 maggio che la sua coalizione è ancora competitiva. Ma lo stesso Cavaliere non nasconde il suo pessimismo: «Sarà inutile».
Al punto che già non esclude con i suoi fedelissimi la strada della disperazione: «Un governo di unità nazionale».
Ma ci sarebbe anche un secondo effetto. Ed è quello che alcuni degli uomini che frequentano Palazzo Chigi stanno valutando con più attenzione.
Far saltare le riforme significa far precipitare il governo nella «palude». Una delle «ragioni sociali» di questo esecutivo verrebbe di fatto meno.
Come scrive l’”Economist” nel suo ultimo numero riferendosi a tutta l’Europa e alla carica del fronte populista e “no-euro”, «la disillusione degli elettori può provocare una nuova crisi».
Renzi più di una volta ha spiegato che sulle riforme «ci metteva la faccia».
Paralizzare il percorso di modifica della Carta equivale allora ad elidere la sua “mission” fondamentale.
«Ma se Forza Italia dovesse andare male è il suo ragionamento — ancora di più sarà costretta a blindare la legislatura».
Ma a questo discorso viene spesso chiosato dai suoi collaboratori: «E se non fosse così?». Il suo incubo peggiore prenderebbe forma: l’impossibilità di agire e l’esposizione al ricatto di un governo insieme a Forza Italia. «Inaccettabile».
Ma c’è di più. In autunno, quando entrerà in gioco la legge di Stabilità , il governo dovrà — così prevedono i programmi — procedere con un’altra gigantesca opera di “Spending review”: circa 19 miliardi.
Allora in tanti si domandano: è possibile incidere sulla spesa in maniera così pesante senza un mandato elettorale e con le urla dell’opposizione ingigantite dal megafono elettorale del 25 maggio?
È possibile tenere il passo di 400 miliardi ogni anno di roll over nel debito pubblico (emissione di titoli di Stato) in queste condizioni?
«Forse — è la soluzione che alcuni dei collaboratori di Renzi stanno prospettando — bisogna chiedere un parere agli elettori. Non ci possiamo assumere certe responsabilità da soli, lo devono fare gli italiani».
Chiedere insomma un incarico pieno, suffragato dalle urne.
Eccola dunque la “exit strategy”. Ma si tratta comunque di un percorso pieno di incognite. Due delle quali gigantesche.
La prima riguarda proprio la legge elettorale. Il rischio del voto a ottobre sarebbe quello di presentarsi agli italiani con il cosiddetto “Consultellum”, un sistema completamente proporzionale corretto solo dalle soglie di sbarramento.
La possibilità che si riprecipiti nell’ingovernabilità sarebbe assai consistente. Non a caso sia nel Pd, sia in Forza Italia sta rispuntando l’idea di una sorta di «riforma transitoria»: il ritorno al Mattarellum.
La seconda incognita è il Quirinale. Napolitano ha più volte fatto sapere che non intende sciogliere le Camere senza una nuova legge elettorale.
Piuttosto sarebbe pronto a dimettersi. Ma se tutto dovesse precipitare, le sue dimissioni risponderebbero anche ad un’altra esigenza: quella di far eleggere dall’attuale Parlamento il nuovo capo dello Stato.
Quello che gli ha rinnovato il mandato e che offre le maggiori garanzie dal punto di vista della “successione democratica”.
Tutto però, prima di ogni cosa, dovrà essere misurato dal dato reale dei risultati elettorali di domenica prossima e non dalla emotività dei sondaggi. «Per quanto mi riguarda io voglio andare avanti fino al 2018», ripete ad ogni piè sospinto il presidente del consiglio.
Ma molti a questo punto vogliono capire se le elezioni di domenica prossima saranno davvero un viatico per la fine della legislatura.
Claudio Tito
(da “La Repubblica”)
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