Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
RISICO SENZA REGOLE: IL DETONATORE IN VENETO, MA L’ALTRA MICCIA E’ IN PUGLIA… LO STRABISMO DI NCD ALLEATO ORA CON IL PD ORA CON FORZA ITALIA… FINO ALLE MARCHE, DOVE IL CENTRODESTRA PRESENTA L’EX GOVERNATORE PD… E LA LOMBARDIA TREMA
Potrebbe essere il record di corna (politiche) in uno stesso giorno: l’election day come giornata
nazionale dello Staisereno.
Mai come oggi il centrodestra (o il controdestra, come lo chiama Storace) potrebbe assumere il nome di Casa delle Libertà , nel senso dei finti spot di Guzzanti: sotto Berlusconi il federatore a due mesi dalle Regionali fanno un po’ “come cazzo gli pare”.
Ricostruire con quali alleanze si presenteranno al voto in 7 Regioni Forza Italia, Lega Nord e Nuovo Centrodestra è come disegnare a mano la mappa di Calcutta: i patti di Bari sono carta straccia a Genova, l’intesa di Perugia non vale a Venezia, a Firenze carezze e a Napoli sguardi in cagnesco.
I candidati alle presidenze vanno e vengono che nemmeno in un bagno di una discoteca, quelli che già fanno campagna elettorale si sentono dire ogni giorno che da un momento all’altro potrebbero essere accantonati a dare volantini sotto i portici. Anche perchè a ciascun partito corrisponde una quota dissidenti: Berlusconi ha Fitto, Salvini aveva Tosi, Alfano avrà la De Girolamo.
E’ ormai una maxi-partita a chi se la tira di più (i giornali li chiamano di solito “veti incrociati”) e il finale è tutto da capire, da vedere se sarà splatter o da Stanlio e Ollio (cfr. “Le comiche finali”, Gianfranco Fini, 2007).
L’illusione è che il traino del Carroccio sia in grado di portarsi dietro tutto il baraccone. Ma in Veneto non c’è l’accordo Lega-Fi, in Liguria c’è un candidato leghista, in Toscana un candidato ciascuno, in Puglia e Campania il pericolo è Fitto.
Le scosse fino a Milano (in Comune e in Regione)
C’erano una volta le tre punte, ora ce ne sono trecento: ognuno si sente principe ereditario della dote di Berlusconi.
“Salvini — dice Altero Matteoli, uno che ha attraversato indenne interi autunni e intere primavere della destra italiana — non è un incapace, mi faceva più paura Bossi. Eppure non è la soluzione per il centrodestra, basta vedere quanto è accaduto in Emilia Romagna, dove la Lega è andata bene ma il centrodestra no”.
Roberto Maroni sta bruciando centinaia di calorie per mettere d’accordo il suo leader e il suo ex presidente del Consiglio perchè ha il terrore che una separazione certificata alle Regionali finisca per segare le gambe del suo tavolo, a Palazzo Lombardia.
Caduto Cota, in bilico Zaia, vedi mai che finisca con un en plein: ciao ciao, macroregione.
Non solo: mentre Pisapia annuncia di non volersi ricandidare, la Gelmini vuole Lupi candidato al comune di Milano.
Ma Salvini ne ha appena chiesto le dimissioni dal governo e nel frattempo non dà limiti al suo futuro: “Io sindaco di Milano o premier? Sono piccolino e vivo la mia esperienza come strumento e servizio. Se servo a qualcosa, sono a disposizione. Sono milanese nel sangue”.
Il risiko della destra (che sembra Guernìca)
Proviamo una sintesi.
In Veneto c’è Zaia ma senza l’appoggio di Berlusconi che prima — raccontano i giornali — pretende che i candidati leghisti in Liguria e Toscana si ritirino (nonostante non abbia nomi alternativi).
Nel frattempo Fitto ha indossato l’elmetto e vuole candidarsi in Puglia contro l’uomo scelto dal suo capo.
Fosse vero, i fittiani a quel punto potrebbero correre da soli in Campania e in Veneto, solo per il gusto di rompere le scatole.
In una tale frittata il simbolo dell’intera storia sono le Marche: qui Ncd e Udc sono pronti a correre con Forza Italia puntando su un cavallo vincente, il due volte presidente Spacca, che fino a ieri è stato col Pd.
A dare un po’ d’aria frizzantina è l’Umbria, dove le cose vanno alla grande: il centrodestra è unito, i leghisti hanno perfino detto sì all’Ncd senza chiamare la disinfestazione.
Sfortuna maledetta vuole che l’Umbria non sia, a sfogliare gli annali, esattamente una roccaforte berlusconiana.
Il detonatore: il mancato accordo per il Veneto
La corsa in ordine sparso è partita da Verona. Le bottigliate da saloon tra Salvini e Tosi hanno riempito le pagine dei giornali e pochissimo i pensieri degli elettori, ma restano aperti due fronti. Il primo è decisivo: il presidente uscente Luca Zaia continua a ripetere in loop l’immagine del “pancia a terra e lavorare” (6 volte in 20 giorni, archivio Ansa), ma gli manca l’accordo con Forza Italia che in Veneto alle Europee pesò quasi il 15%.
E basta davvero l’Armiamoci e sparate di Salvini, la campagna per togliere l’eccesso colposo della legittima difesa, nel Veneto del benzinaio western Stacchio?
“Se Salvini punta a perdere, gli lasciamo questa bandierina” gli risponde Brunetta. L’altro fronte è quello di Tosi: si è lanciato come un kamikaze contro Zaia e Alessandra Moretti per la conquista di Palazzo Balbi a Venezia, ma il sindaco defenestrato attualmente conta solo su se stesso, perchè le danze di corteggiamento con Alfano sono rimaste tali.
Eppure nella mareggiata in sostegno del sindaco di Verona può finire anche una lista fittiana.
Puglia, l’epicentro della guerra dentro Fi
L’altra miccia è a Bari, campo centrale del torneo “fittiani vs resto del mondo” (berlusconiano).
Forza Italia, per contrastare Michele Emiliano, aveva detto sì all’oncologo Francesco Schittulli.
Fitto aveva assicurato: “Avrà il mio sostegno”. Infatti da lì è iniziata una faida che ha portato nell’ordine al commissariamento del partito (ora guidato dal fedele Luigi Vitali, ex candidato al Csm), alla minaccia di Fitto — recordman di preferenze — di candidarsi e all’espulsione del “suo” Chiarelli da una commissione per mano di Brunetta.
Quanto basta per un’altra scena madre dell’ex ministro: “Da partito liberale siamo diventati il partito delle censure, dei commissariamenti, delle sostituzioni, delle epurazioni”.
Dove c’è rissa, c’è Lega, perfino a Bari: Raffaele Volpi, vicepresidente (pavese) di Noi con Salvini, ha annunciato che sono pronte per essere presentate liste di disturbo finto-leghiste.
Caldoro senza Ncd (a cui piace un po’ De Luca)
Nel polverone sollevato da Tosi e Fitto a prenderle potrebbe essere Stefano Caldoro che in Campania ha tutti i favori del pronostico, il primo dei quali è rappresentato da uno sfidante — che peraltro ha già battuto nel 2010 — condannato e ineleggibile, Vincenzo De Luca.
Ma l’ex socialista inviso a Cosentino ha un po’ di pensieri.
Una lista Fitto, se la situazione al di là dell’Appennino dovesse precipitare. Ma anche l’assenza di un patto con il Nuovo Centrodestra, parte del quale è tentato da un governo Renzi in versione presepe di San Gregorio.
E anche il governatore uscente potrebbe ritrovarsi il partito-interferenza di Salvini che forse ha ripulito la memoria dalla filastrocca che il segretario della Lega canticchiava 6 anni fa: “Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani”.
Dicono che Caldoro, in questa situazione, è pronto anche a mandare tutti a spigare. A bordo campo si scalda Mara Carfagna (che smentisce).
Calcio fiorentino tra Verdini e l’economista no euro
Poi le due regioni che Berlusconi pretende da Salvini, come fosse il trattato di Versailles: Toscana e Liguria.
A Firenze i leghisti hanno scelto l’economista anti-euro Claudio Borghi, responsabile economico del partito, occhialini tondi e tanta tv, che ha ospitato di recente il segretario per un tour elettorale.
A Prato, provincia di Shanghai, il contrappasso è stato che due cinesi hanno riconosciuto Matteo-l’altro e hanno voluto un selfie.
A Forza Italia non piace Borghi perchè fa il leghista. Quando un sedicente simpatizzante dell’Isis ha hackerato il sito del Pd in Toscana ha twittato che “era meglio la lettera con le pallottole”.
“Quelle di Borghi sono bischerate che capitano a uno che arriva da Milano in Toscana — l’ha ripreso Massimo Parisi, deputato del battaglione Verdini — Questa regione è terra di civiltà ”.
Forza Italia, che in Toscana è tradotto con la parola Denis, ha invece indicato Gianni Lamioni, presidente della Camera di commercio di Grosseto.
Ma il povero Lamioni ha la lettera scarlatta di provenire da Ncd, quindi non va a genio alla Lega ma neanche a gente come l’ex tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi (fittiano dal linguaggio da ambasciatore): “Io i Forza Renzi non li voto, neanche se mi bucano”.
Così la soluzione sarebbe resettare tutto (e Borghi?) e puntare su un terzo, magari uno tra i viareggini Deborah Bergamini e Giovanni Toti, i quali dovrebbero accettare di andare contro il presidente di Regione più popolare d’Italia, Enrico Rossi, avendo a disposizione solo due mesi.
Il vice-Salvini, il forzista se ne va. La Paita imbarca Nc
Sportellate anche in Liguria.
Prima si è presentato Federico Garaventa, imprenditore, presidente regionale dell’Ance, l’associazione dei costruttori edili.
Il tempo di vantarsi con gli amici che la Lega gli ha candidato contro Edoardo Rixi, vice di Salvini, che nel curriculum ha anche un’ipotesi di peculato formulata nell’inchiesta sulle spese pazze in consiglio regionale.
Garaventa così si ritira, Forza Italia dice che appoggerà Rixi ma nel frattempo chiede a via Bellerio di ritirarlo per fare posto (di nuovo) a Toti.
E quelli di Alfano? Dalle quelle parti lo strabismo è la regola.
Dopo essersi diviso per mesi, l’Ncd compie l’impresa di decidere, con tanto di riunioni a Roma, di sostenere la candidata renziana Raffaella Paita, designata erede del governatore Claudio Burlando.
La Paita ha risposto più o meno che tutto fa brodo. Gli scajoliani alle primarie non erano l’ultimo capitolo.
Ancona, sul carro del ri-governatore (finora del Pd)
Nelle Marche i partiti di centrodestra sono uniti: vogliono invece incollarsi tutti al sedere di Gian Mario Spacca da Fabriano, che intende rimanere sulla poltrona di presidente di Regione per altri 5 anni, dopo i due mandati che ha fatto con il centrosinistra.
Quando il Pd ha fatto le primarie per scegliere il suo successore (Luca Ceriscioli), Spacca — che ridendo e scherzando è nelle giunte marchigiane dall’inizio degli anni Novanta — si è riscoperto del Ppi e della Margherita, ha detto che era un presidente di coalizione, espressione di una lista civica, che è stato iscritto del Pd solo per 3 anni e è mancato poco che dicesse che nel centrosinistra c’è finito perchè quel giorno sbagliò strada.
Abiura sufficiente per Area Popolare (e tra breve anche a Fi) per incoronare l’usato sicuro e soprattutto non fare la fatica cagna di trovarne un altro.
San Claudio d’Assisi ha riunito tutti: dalla Lega a Nc
Il capolavoro, l’unico in Italia, riesce solo a Claudio Ricci, sindaco di Assisi.
Saranno la forza spirituale del posto o gli effetti della marcia della pace, ma solo lui — che infatti è ingegnere — è riuscito a mettere insieme tutti, dall’Ncd alla Meloni. Sindaco dal 2006 della seconda città umbra a non essere rossa, l’ingegner sindaco si vanta di essere in giunta comunale da 24 anni e il primo cittadino più longevo, “secondo solo al podestà ”.
Doveva essere il candidato del centrodestra alla Regione già nel 2010.
Retroscena maligni dissero che lo scartò Berlusconi.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Forza Italia | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
L’ACCHIAPPANUVOLE SOGNATORE DI UN MONDO CHE NON C’E’ PIU’
Ci sono due parole, così distanti, che nel vocabolario di Pietro Ingrao hanno un posto particolare. Sono “luna” e “barricata”.
La prima è bellissima, l’altra ruvida. Perchè c’è un polo buono, umanissimo, perfino sognante ma ce n’è anche uno duro, aspro, meno noto nell’uomo che arriva alla fantastica età dei cento anni — altro che “secolo breve” — e che nella dolcezza di un lungo crepuscolo vede acquietarsi i tumulti di una vita non comune. Anzi, fantastica.
C’era un periodo in cui Ingrao diceva sempre (questa cosa di ripetere le stesse frasi è un po’ un suo tic) di essere considerato un “acchiappanuvole”, naturalmente negandolo ma sapendo in cuor suo che almeno in parte era così.
Ingrao il sognatore, l’utopista.
Il rivoluzionario di professione che, giovanissimo, si imbarca nella durezza della cospirazione antifascista all’ombra del Partito e della sua ideologia alla ricerca di qualcosa di eroico.
Un tratto alla Stendhal più che alla Lenin. Gli rimane anche dopo, ormai dirigente di primo piano, questa ansia di andare un po’ oltre il vissuto delle interminabili riunioni e delle inestricabili controversie, e molto oltre l’orizzonte della politica, perfino della bella politica delle amate piazze, oltre anche i misteriosi riti delle Botteghe Oscure e delle stanze sudate dell’Unità di quei tempi là .
Oltre la realtà quotidiana: ed ecco il cinema, i libri, l’arte.
Pubblicò anche un libro di poesie molto montaliane (E muto / ogni volta / tendo la mano / Come se tu / sventura / fossi la vita).
Ed è facile pensare che fosse proprio questa carica utopistica a reggere il peso di una vicenda personale e politica complicata assai.
Lo sa lui per primo, lo ha scritto mille volte: una storia politica di errori e sconfitte, di dissensi e minorità .
La “luna” di Ingrao è qualcosa che lui stesso nella accorata autobiografia (sì, riuscì a scrivere un libro accorato su di sè, “Volevo la luna”, appunto) non chiarisce bene cosa sia: non era più un comunismo che — era evidente — non si poteva realizzare, ma non era neppure l’indicazione precisa di cosa diamine potesse essere una democrazia tanto avanzata al punto di “superare” uno stato socialdemocratico di tipo europeo.
E dunque la vera sconfitta di Ingrao sta proprio nella insufficiente concretezza del modello da costruire.
L’ingraismo, frutto succoso della vicenda della sinistra italiana, era votato alla sconfitta innanzi tutto per la sconnessione con l’evoluzione reale di una società italiana che a metà degli anni Sessanta, quando Ingrao scende in campo per spostare a sinistra l’asse ideologico e politico del Pci contro la destra di Amendola, si è ormai assestata nel letto di un capitalismo difettoso assai ma in grado di assicurare occupazione e salari.
Pensò di diventare il segretario del Pci, Ingrao, nel dopo-Togliatti?
Amendola certamente lo sospettava, ed è anche per questo che contro di lui, nel ’64, fu durissimo.
Quanto meno, Ingrao pensava di vincere la battaglia per chi fosse riuscito a condizionare un mite Longo, il segretario scelto dopo la morte del Migliore.
Fu battuto ma riuscì a restare al vertice del partito, mentre i suoi venivano dispersi (e molti si lamentavano che il capo non muovesse un dito per difenderli).
Perchè non si deve pensare che lui non fosse — legittimamente — ambizioso. Come tutti gli uomini politici.
E poi è vero che aveva, allora e dopo, un enorme consenso alla base.
Ci fossero state le primarie, per dire, avrebbe vinto.
Quando parlò in quel congresso dello scontro con Amendola “tutta quella massa di compagni — ha ricordato lui stesso — scattò in piedi nell’applauso, e furono per me minuti indimenticabili”.
Come un grande attore, effettivamente Ingrao incantava l’uditorio.
E lui era attentissimo a creare l’atmosfera giusta, fin nei particolari, come fossero disposte le sedie, dove la tribuna, chi parla prima…
Di calore, aveva bisogno. Gli piaceva essere amato, dalla base dei quartieri popolari e delle campagne umbre e dagli intellettuali marxisti di mezza Europa.
E forse anche essere un perdente di successo.
Nell’immaginario prevale l’immagine bonaria del presidente della camera che passeggia fra le dune di Sabaudia, il vecchio patriarca a capotavola nella sua Lenola con familiari e famigli, decine di persone appese alle sue parole. Tutto vero.
Ma era anche un duro, Ingrao. Un antistalinista, certo, ma pur sempre cresciuto a quella scuola, una scuola che certi segni li lascia, indelebili.
Un eretico, sì, e tuttavia la Chiesa era quella, c’è poco da fare.
È stato anche detestato, e certo con un Pajetta (si disse che ci fu anche qualche rivalità in campo sentimentale, parliamo dei primi anni Cinquanta) il rapporto non fu sereno, tanto meno con i “destri”, e con Berlinguer o Napolitano al massimo c’era cortesia, certo non simpatia, specie col secondo.
Con i non-ingraiani non era scioltissimo.
Un duro che scelse di stare da una precisa parte della “barricata” — il titolo del suo famoso articolo sull’Unità dell’ottobre del ’56 — quella dei carri armati sovietici che calpestavano la libertà e la dignità di Budapest, la prima grande verifica di come fosse impossibile riformare il comunismo.
Allora bisognava capire, allora bisognava agire: quanto rimpianse, in seguito, di non aver fatto nè l’una nè l’altra cosa, “fu il mio errore più grande”.
Ecco, la “barricata” è la metafora di un errore che a sua volta era il simbolo del limite vero della vicenda del Pci: i dirigenti capivano che questa storia dell’Urss era inaccettabile eppure ne decretarono “l’esaurimento della spinta propulsiva” nientemeno che nel 1981, 25 anni dopo Budapest, 13 dopo Praga.
“Avevamo paura di perdere il partito…”, ha scritto qualche tempo fa Alfredo Reichlin.
E poi, cosa forse ancor meno spiegabile (se non con l’antico riflesso condizionato dell’obbedienza alla chiesa) Ingrao scelse un altro lato sbagliato della barricata nel 1969, quando il comitato centrale del Pci decise di radiare il gruppo del Manifesto, cioè — diciamo così — il distillato più avanzato dell’ingraismo, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina, Natoli, gente che era veramente sua amica e che lui non difese, non solo, ma alzò la mano per il voto a favore che contribuì a cacciare dal partito.
Alcuni ingraiani votarono contro o si astennero (fra cui il cognato di Ingrao, Lucio Lombardo Radice). Ma lui, il capo, no.
Quelli non lo dimenticarono mai.
E quando un giorno, tanti anni dopo, in una riunione il vecchio Pietro provò a spiegare a quelli del Manifesto “la linea” da seguire, Pintor con la durezza che si poteva permettere lo mise al suo posto: non siamo più i tuoi figliocci.
Piano piano gli ingraiani si dissolsero. Si emanciparono.
Achille Occhetto, ex giovane pupillo, sciolse il Pci e lui — una vita in dissenso, l’eretico per eccellenza, l’uomo che voleva andare oltre — paradossalmente divenne il capo del “fronte del No” accanto a persone non certo affini, come Cossutta, mentre gente come i “suoi” Reichlin o Bassolino non lo seguirono.
Nelle riunioni del “fronte del No”, specie nei primi mesi dopo la Bolognina, era molto molto severo con i suoi compagni anti-svolta, aveva rimesso i panni del dirigente comunista, bisogna fare così bisogna fare colà …
Era di nuovo il leader-ombra, pareva rinato.
Nell’inverno del ’90 pensava di vincerla, la battaglia per “salvare” il Pci, un nuovo Pci beninteso ma pur sempre Pci con il simbolo che da decenni nelle piazze chiedeva di barrare, “falce martello e stella”.
Ma l’illusione durò poco, la “Cosa” era più forte. L’ultima sconfitta.
Ci restò per un po’ nel Pds, ma non era più il suo mondo, la sua casa, la sua croce e la sua delizia, tutto cambiava.
Uscì da quel partito — non capiva Occhetto, diffidava di D’Alema, su questo era d’accordo col vecchio Natta — seguì per poco tempo Rifondazione comunista che, pur vista con simpatia, non poteva essere il lato giusto della barricata nè tanto meno, assomigliare alla luna.
Che dopo cento anni Pietro Ingrao può ammirare ancora, lì, fra le nuvole.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Partito Democratico | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
TRENITALIA AVEVA ELIMINATO LA FIGURA DEL SECONDO MACCHINISTA: SE AVESSE AVUTO UN MALORE NESSUNO POTEVA GUIDARE IL CONVOGLIO… LA LOGICA RENZIANA PRODURRA’ EFFETTI TRAGICI SUI DIRITTI DEI LAVORATORI
Il ferroviere Silvio Lorenzoni non voleva guidare senza il secondo macchinista. 
Come migliaia di colleghi temeva che, in caso di emergenza o se si fosse sentito male trovandosi in un tunnel o su un viadotto, un’ambulanza non lo avrebbe mai raggiunto: ci sarebbe stato bisogno di un collega che portasse il treno incontro ai soccorsi.
Per questo Trenitalia lo ha sospeso e licenziato. Ma il Tribunale di Genova gli ha dato ragione.
Il problema del doppio macchinista
Trenitalia, come altre aziende del trasporto ferroviario, dal 2009 ha introdotto l’agente solo per il trasporto viaggiatori e dal 2010 ha progressivamente tagliato i doppi macchinisti a bordo dei treni merci, affiancando a un unico conducente il cosiddetto tecnico polivalente.
Questo, in caso di malore del macchinista, ferma il treno e chiama i soccorsi, ma non è in grado di guidare.
Una misura presa per rendere più efficiente il lavoro, dopo la liberalizzazione del trasporto ferroviario.
“Allora furono 7mila, sui 10mila macchinisti totali che ci sono in Italia, a firmare contro questa misura. Ma in un clima segnato da sospensioni e licenziamenti, in pochi sono stati coerenti e hanno continuato a rifiutarsi di guidare. Uno di questi è Lorenzoni” fa sapere a ilfattoquotidiano.it il ferroviere genovese Antonino Catalano, responsabile del sindacato Cat (Coordinamento autorganizzato trasporti).
Addetto alla Divisione Cargo dell’Area Nord Ovest, Lorenzoni era abituato a guidare su tratte piene di tunnel, come quelle liguri.
Da solo non voleva lavorare: sarebbe stato troppo pericoloso in caso di malore.
Lo aveva messo anche nero su bianco, con una lettera indirizzata alla direzione di Trenitalia il 22 febbraio 2011.
Avvertiva che avrebbe potuto “astenersi dal compiere l’attività di condotta richiesta in tali condizioni di degrado, a tutela della propria incolumità ”.
E ha mantenuto la promessa.
Nel 2012 era stato sospeso per due volte, perchè, non lavorando, aveva causato ritardi e quindi danni patrimoniali all’azienda.
Nel 2014 lo aveva fatto di nuovo, quattro volte.
Dopo le sanzioni disciplinari (oltre 30 giorni senza lavoro e senza paga), Trenitalia è passata al licenziamento, il 5 settembre 2014.
Una decisione storica che potrebbe cambiare il trasporto ferroviario
A distanza di sei mesi, il tribunale di Genova non si limita ad annullare il licenziamento con un’ordinanza immediatamente esecutiva, ma entra nel merito della questione.
Secondo il giudice Marcello Basilico, l’azienda non può aumentare i rischi per i lavoratori per motivi di “economicità ” ed “efficienza”.
Se lo fa, è da considerarsi responsabile. “Sono più di 200 i macchinisti sanzionati con giorni di sospensione perchè si sono rifiutati di guidare senza un collega pronto a sostituirli in caso di malore; in tribunale hanno perso in primo grado, aspettano l’appello. Ma questa ordinanza potrebbe cambiare tutto” spiega ancora il ferroviere e sindacalista Catalano.
L’ultimo caso due giorni fa, in Sardegna: infarto del conducente
A meno che il treno non si trovi nella Pianura Padana, lontano da gallerie, il conducente rischia grosso se si sente male sul lavoro.
Come è accaduto il 26 marzo sulla linea Iglesias-Cagliari, quando l’uomo alla guida di un regionale ha accusato sintomi di infarto.
Fortuna che tra i passeggeri c’era un collega fuori servizio, che ha portato il treno alla stazione più vicina.
Soccorso dall’ambulanza, il macchinista è giunto in ospedale e operato di urgenza. Se c’è stato un lieto fine, lo si deve solo al caso.
Ilaria Lonigro
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: ferrovie | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
UNA PIAZZA GIOVANE E BELLA DAL PROFUMO DI GELSOMINO
Una Piazza gremita. Una bella Piazza. Popolata di giovani, di donne, senza vessilli di partito ma con tante bandiere nazionali.
Per dire che di fronte all’attacco terroristico il ragazzo in jeans e la ragazza con il capo velato si tengono per mano e lanciano la loro comune sfida di libertà e pluralismo ai fautori della dittatura della sharia.
Un’unità di popolo, prim’ancora che di classe dirigente.
Una unità dal basso, per questo più importante. È la Tunisia che oggi è scesa in piazza per dire “no” al terrorismo e rendere omaggio alle vittime della strage al Museo del Bardo.
Al centro della scena mediatica ci saranno senz’altro i leader del mondo convenuti a Tunisi: Hollande, Renzi, Abu Mazen. Per la Tunisia c’è il presidente Beji Caid Essebsi e il premier Habib Essid; tra i capi di governo sono presenti l’algerino Abdelmalek Sellal, il belga Charles Michel, il libico Abdullah al Thani (espressione della Camera dei rappresentanti di Tobruk) e il vicepresidente del Consiglio del Bahrein, Khalid bin Abdullah al Khalifa.
Ma quello che conta di più è la Piazza. I suoi volti, i suoi slogan.
La sua volontà di rafforzare la transizione democratica e difendere quei principi di libertà , giustizia, indipendenza, che sono stati alla base della “rivoluzione dei gelsomini”.
La “nuova Tunisia” esiste. E resiste.
La manifestazione era stata annunciata domenica scorsa dal presidente tunisino Essebsi nel corso dell’intervista rilasciata all’interno del Bardo.
Essebsi l’aveva presentata come una marcia del popolo tunisino e poco dopo, intervistata dall’agenzia TAP, la ministra del Turismo Salma Loumi aveva fatto sapere che erano stati invitati i principali leader mondiali.
Insomma un evento per dire no al terrorismo sullo stile della marcia internazionale che si tenne a Parigi l’11 gennaio dopo gli attacchi cominciati con l’assalto a Charlie Hebdo.
La polizia tunisina parla di 70 mila persone. Tante.
Ma la “Piazza” si misura non solo in quantità ma in qualità . E quella di Tunisi è una qualità straordinaria.
“No pasaran”. È la determinazione che accomuna i tanti partecipanti al corteo di popolo che ha affiancato quello delle autorità .
“Le monde est Bardo” è lo slogan scelto dagli organizzatori. A fianco della risposta di piazza, c’è quella militare. Continua la stretta delle forze di sicurezza tunisine contro le milizie islamiste dopo la strage del museo del Bardo. Nove terroristi sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con gli agenti a Gafsa, nel sud del Paese. “Le nostre forze hanno ucciso nove terroristi in una vasta operazione a Sidi Aich. Hanno anche sequestrato armi ed esplosivi”, ha affermato il portavoce del ministero, Mohamed Ali Aroui.
Tra i terroristi uccisi anche il super ricercato algerino Khaled Chaib, conosciuto come Lokman Abou Sakher, il terzo attentatore. Si tratta del leader della cellula Okba Ibn Nafaa, gruppo terrorista con base nelle montagne Chaambi al confine con l’Algeria, responsabile secondo il governo dell’attacco del 18 marzo.
Siamo cittadini del mondo, e le ragioni che ci uniscono sono forti, salde, e i tagliagole dell’Isis non riusciranno a reciderle.
C’è questo messaggio dietro a quei cartelli tenuti dai manifestanti con i nomi delle vittime, tra cui anche quelli degli italiani: “Je suis Orazio”, “Je suis Giuseppina” in ricordo di Orazio Conte e Giuseppina Biella, due degli italiani feriti mortalmente nella strage di undici giorni fa.
“Siamo qui per dire che la nostra vita non deve essere presa in ostaggio da questi criminali che nulla hanno a che vedere con l’Islam”, dice Ahmed , studente universitario ventenne. “Io voglio guardare al futuro e non essere trascinata nel Medioevo”, incalza Hanan, collega di studi di Ahmed.
“Ci siamo liberati dalla paura”: era questo lo slogan coniato, 5 anni fa, dai ragazzi della “rivoluzione jasmine”.
Una liberazione di chi sa che il futuro è dalla propria parte ma, per appropriarsene, occorre rompere un presente stagnante, ibernato.
È quanto hanno fatto quei giovani. Ed è quello che continueranno a fare.
“Non ci piegheranno, perchè in gioco è la nostra libertà , è poterci muovere liberamente, e per noi donne sapere di avere gli stessi diritti e le stesse opportunità degli uomini. La nuova Costituzione sancisce questo principio ma ancora c’è tanto da fare per realizzarlo nella vita pubblica”, sottolinea Kalida, 23 anni, attivista di una delle associazioni di donne che arricchisce la società civile tunisina.
Così come i sindacati, soggetto fondamentale nella transizione democratica in atto.
Una bella Piazza. Una Piazza giovane. In continuità con quella che dette l’avvio alla rivolta che spazzo via il regime di Ben Ali.
Una generazione, ricorda Oliver Roy, tra i più affermati studiosi europei del mondo arabo e islamico, “che non è interessata all’ideologia: scandisce slogan pragmatici e concreti (erhal, “subito”) ed evita richiami all’Islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni Ottanta. Rifiuta la dittatura, quella dei militari come quella degli islamisti, e continua a chiedere a gran voce democrazia”.
Questi giovani vanno ascoltati, e sostenuti.
“Io mi sono diplomato tre anni fa ma ancora oggi non riesco a trovare un lavoro. E lavoro significa non solo mantenere i miei tre bambini, lavoro è anche dignità ”, dice Faisal, che viene da uno dei sobborghi più poveri di Tunisi.
“I jihadisti — racconta — arruolano promettendo una paga e una famiglia. Conosco alcuni ragazzi che sono stati attratti da queste promesse e ora stanno combattendo in Siria”.
Faisal parte dalla sua esperienza personale e quella di alcuni suoi amici per affermare una verità fondamentale: la sconfitta del terrorismo jihadista non può venire solo da una incisiva azione di polizia e di intelligence.
Perchè è dentro una drammatica crisi sociale ed economica che le filiere tunisine dello Stato islamico e di al-Qaeda fanno proseliti.
La disoccupazione giovanile nel Paese ha raggiunto livelli drammatici, e secondo un recente rapporto OCSE almeno 2 giovani tunisini su 5 sono senza lavoro, situazione che disegna i contorni di “un vero e proprio dramma sociale che ha urgente bisogno di essere affrontato”.
E se così non sarà , il rischio è che si propaghi e rinvigorisca una tensione che già è di per sè alta nel Paese, il quale potrebbe cadere definitivamente vittima della violenza jihadista in uno scenario ancora peggiore.
Per Mourad, disoccupato di 28 anni con un master in tecnologia, l’Is è l’unica speranza di ”giustizia sociale”, ”l’unico modo per ridare al popolo diritti veri” e sostenerlo ”è un dovere per ogni musulmano”.
Molti raccontano di amici che, entrati nell’Is, ”vivono meglio di noi” con stipendio, casa e moglie, racconta Walid, 24 anni.
Nei bar della zona di Ettadhamen, nell’agglomerato urbano di Tunisi, decine di giovani disoccupati e appartenenti alla classe operaia hanno espresso la loro simpatia per le posizioni dell’IS: alcuni accusano gli stati europei di avere diviso gli Stati arabi alla fine della Prima guerra mondiale, impedendo la nascita di un califfato; altri parlano di “giustizia sociale”, dicendo che una volta che il califfato avrà assorbito le monarchie del Golfo Persico, ricche di petrolio, ci sarà una ridistribuzione generale della ricchezza.
Questi giovani non sfilavano oggi. Ma esistono, ed anche loro fanno parte della “nuova Tunisia”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Esteri | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
MAI LA DESTRA REPUBBLICANA AVEVA RAGGIUNTO ALLE DIPARTIMENTALI UN RISULTATO DEL GENERE…BOCCIATA LA POLITICA ANTI-EURO
Per l’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, è un trionfo. 
Il suo partito l’Ump e i suoi alleati ha superato gli avversari nel ballottaggio per le elezioni amministrative. Ha conquistato 66-70 dipartimenti su 101.
Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, avrebbe conquistato da zero a due dipartimenti.
I socialisti del presidente Franà§ois Hollande registrano una forte perdita e avrebbero perso la metà dei 61 dipartimenti che si erano invece aggiudicati nelle precedenti elezioni.
“Stasera, la destra ha nettamente vinto le elezioni dipartimentali. Mai, nella Quinta repubblica, la destra aveva raggiunto un risultato del genere”, ha dichiarato pochi minuti dopo la diffusione del risultato Sarkozy, presidente dell’Ump, confermano la vittoria del centrodestra.
“L’alternanza è ormai avviata e niente la fermerà “, ha aggiunto.
Un risultato commentato anche da Manuel Valls, premier socialista. “Questa sera la destra repubblicana ha conquistato una vittoria incontestabile”, sono state queste le prime parole di Valls, che ha ammesso la sconfitta – .
La sinistra, troppo dispersa, troppo divisa al primo turno, conosce un netto arretramento, nonostante un buon bilancio dei governi dei dipartimenti.
Più di 40 milioni di francesi sono stati chiamati alle urne oggi per il secondo turno delle elezioni in 101 dipartimenti, equivalenti alle province italiane.
Il partito di destra Ump, tornato da poco sotto la guida dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, si è imposto al primo turno di domenica scorsa con il 29%, bloccando l’avanzata del Front National di Marie Le Pen, fermo al 25%.
Solo terzi i socialisti del presidente Francois Hollande con il 21,8%.
Domenica scorsa è andata alle urne la metà degli aventi diritto .
argomento: Sarkozy | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
IPSOS: A LIVELLO NAZIONALE IL 40% E’ CONTRARIO AD ALLEANZA CON LA LEGA… IN VENETO IL 24% RITIENE TOSI UN PERICOLO PER ZAIA E UN ALTRO 19% DA’ ZAIA SCONFITTO IN OGNI CASO…IN CAMPANIA PER 4 ELETTORI PD SU 5 DE LUCA DEVE RITIRARSI
Mancano due mesi alle elezioni di maggio che riguarderanno 7 Regioni e oltre mille Comuni, di cui 18 capoluoghi di provincia.
Complessivamente saranno chiamati alle urne circa 17 milioni di cittadini, cioè un elettore su tre. Ogni elezione in Italia assume un carattere «nazionale» e rappresenta una verifica che riguarda, di volta in volta, il consenso del governo, l’andamento dei partiti, l’esito di alleanze o l’aumento dell’astensione.
Inutile dire che spesso sono di indicazioni un po’ forzate, dato che si tratta di un voto amministrativo, ma tant’è: la politologia in Italia è sempre più simile alla drammaturgia, a maggior ragione negli ultimi anni nei quali si è registrata una fluidità elettorale senza precedenti.
Il sondaggio odierno si concentra sulle due Regioni più popolose in cui si terranno le elezioni e sui principali temi che le contraddistinguono: la candidatura di Vincenzo De Luca in Campania; la vicenda Tosi e le alleanze nel centrodestra in Veneto.
In Campania De Luca, che ha una condanna in primo grado a suo carico per abuso d’ufficio, ha vinto le primarie del centrosinistra e sfiderà il governatore uscente Caldoro.
La candidatura di De Luca ha suscitato vivaci reazioni perchè secondo la legge Severino gli amministratori condannati in primo grado non possono ricoprire cariche pubbliche.
Oltre quattro italiani su cinque (83%) ritengono che De Luca dovrebbe rinunciare alla candidatura perchè, se venisse eletto, rischierebbe di non poter fare il presidente.
Al contrario il 10% pensa che dovrebbe partecipare alle elezioni perchè una condanna considerata lieve non può fermare chi ha il consenso popolare.
L’opinione prevalente è quindi molto netta e non si ravvisano differenze significative nelle diverse aree del Paese e nei diversi elettorati, nemmeno tra quello del partito di De Luca, il Pd (84%).
Nel Veneto dopo l’espulsione di Tosi dalla Lega e l’annuncio della sua candidatura contro il governatore leghista Zaia le opinioni degli elettori appaiono molto diversificate: il 26% prevede che, nonostante il rischio di divisioni tra le fila della Lega Nord, Zaia vincerà comunque (percentuale che sale al 39% nelle Regioni del Nordest e al 44% tra i leghisti) perchè ha governato bene, mentre il 24% ritiene che la candidatura di Tosi rappresenti un serio pericolo che farà perdere le elezioni a Zaia e il 19% prefigura comunque una sconfitta il per governatore uscente, con o senza Tosi. Quanto alla possibile alleanza tra Forza Italia e Lega alle prossime Regionali, il 35% ritiene che Berlusconi dovrebbe evitarla, perchè le loro posizioni sono troppo distanti, il 27% è di parere opposto per ragioni tattiche e avere la possibilità di vincere nonostante le significative differenze tra i due partiti e il 13% ritiene che per entrambi sarebbe opportuna un’alleanza politica in grado di rilanciare il centrodestra e renderlo competitivo nei confronti del Pd di Renzi.
Va sottolineato che le opinioni degli elettori delle due forze politiche sono tutt’altro che univoche e convergenti: tra i berlusconiani prevale il favore all’alleanza con la Lega ma più per ragioni tattiche, ossia per vincere le elezioni in Veneto (32%), che di strategia politica (22%) e una robusta minoranza (36%) si dichiara contraria ad una qualsiasi un’alleanza con Salvini.
I leghisti sono più favorevoli ad un’alleanza politica (37%) che tattica (27%) mentre uno su quattro risulta indisponibile ad un accordo tra le due forze politiche.
A prescindere dalle prossime elezioni regionali, l’ipotesi di una l’alleanza complessiva di Berlusconi con Salvini divide nettamente gli elettori dei due principali partiti del centrodestra: tra i berlusconiani il 43% è favorevole e il 40% è contrario; tra i leghisti favorevoli e contrari si equivalgono (47%).
Tra i primi è presente una forte preoccupazione per il possibile spostamento a destra della coalizione, soprattutto dopo la manifestazione promossa dalla Lega a Roma a cui hanno partecipato esponenti di CasaPound e della destra neofascista.
Tra i secondi è forte la consapevolezza del crescente consenso della Lega e la tentazione di poter assumere autonomamente il predominio nel centrodestra, preferendo rimanere divisi.
Insomma, un’alleanza non facile che potrebbe dare un impulso centripeto al frammentato e disorientato elettorato di centrodestra ma potrebbe anche determinare ulteriori spinte centrifughe, soprattutto da parte dei moderati che faticano a riconoscersi nella politica di Salvini ma non trovano un alternativa «centrista» che al momento non riesce ad imporsi e, anzi, appare in difficoltà dopo la vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro Lupi.
E sullo sfondo c’è un elettorato astensionista le cui fila sembrano allargarsi progressivamente.
Nando Pagnoncelli
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: elezioni | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
I TECNICI CONFERMANO LA RESA, ULTIMATI SOLO 15 PADIGLIONI ESTERI SU 53
l capo dello Stato Sergio Mattarella deve aver capito per tempo l’aria che tira, infatti ha declinato
l’invito: all’inaugurazione lui non ci sarà .
Palazzo Italia, il cuore dell’Expo, edificio simbolo del paese ospitante, non sarà pronto all’inaugurazione dell’esposizione universale, il primo maggio prossimo a Milano.
Quelle che fino a qualche giorno fa erano solo le funeste, o realistiche, previsioni di “gufi e rosiconi”, secondo il nuovo lessico renziano, si stanno confermando.
I ritardi di Expo sono incolmabili, ma non è solo qualche padiglione estero a non poter concludere in tempo i lavori.
All’appello mancherà il pezzo forte, l’edificio eretto dal Paese ospitante, tradizionalmente il più visitato in ogni esposizione universale, oltre a essere quello dedicato agli ospiti istituzionali: capi di Stato, delegati internazionali , ambasciatori.
Assieme a quello, è tutta l’area del Padiglione italiano, ai due lati del Cardo, a essere indietro.
Il disastro ora lo ammettono anche i tecnici: “Può darsi che il primo maggio non si riesca ad aprire neanche uno dei sei piani di Palazzo Italia”, dice un ingegnere di Expo che preferisce rimanere nell’anonimato.
Dichiarazioni che smentiscono le rassicurazioni date fino a quattro giorni fa dal commissario Sala, secondo cui sarebbe stato tutto pronto salvo “qualche finitura da sistemare”.
A guardare lo stato di avanzamento dei lavori a un mese dall’appuntamento viene peraltro da domandarsi che cosa ci sarà di pronto: i padiglioni esteri terminati ad oggi sono una quindicina su 53.
Nel cantiere mancano l’acqua, le fognature e l’energia, tanto che le maestranze al calar del sole devono lavorare alla luce di fotoelettriche attaccate ai generatori; sul Cardo, viale simbolo delle eccellenze alimentari italiane, della Confindustria e della casa Lombardia, le strutture sono ancora ai primi stadi dell’edificazione.
Il governatore lombardo Roberto Maroni, interpellato due giorni fa dall’agenzia Ansa sui ritardi di Casa Lombardia, ha detto: “Chiedete a Expo, io non faccio i padiglioni” , ammettendo di essere “moderatamente” preoccupato.
Il responsabile del dipartimento di prevenzione dell’Asl di Milano ha fatto sapere che anche laddove i lavori saranno completati non ci sarà tempo per i collaudi.
Un aspetto non da poco, considerando che nel sito dovrebbero essere aperti più di 200 ristoranti.
Giova ricordare che l’Expo 2015 è stata assegnata a Milano il 31 marzo 2008, sette anni fa.
La gara per Palazzo Italia, secondo la Procura di Firenze che il 15 marzo ha disposto quattro arresti nell’ambito dell’inchiesta sul presunto “cartello delle grandi opere” che conta 51 indagati, sarebbe stata assegnata alla società Italiana Costruzioni grazie agli uffici di Antonio Acerbo, già responsabile unico del Padiglione Italia arrestato nell’ottobre scorso per un altro appalto Expo, quello sulle “Vie d’acqua”, di Andrea Castellotti, uomo di Cl, ex dirigente dell’impresa Tagliabue, portato da Acerbo in Expo come Facility manager, arrestato anch’egli per l’appalto delle Vie d’Acqua, e dell’imprenditore Stefano Perotti, arrestato insieme al super-manager delle Infrastrutture Ercole Incalza.
Secondo la Procura fiorentina, è evidente che “la gara di Palazzo Italia sia stata pilotata”.
La retorica pro Expo alla luce della situazione reale assume le caratteristiche del grottesco.
“Dobbiamo saperci raccontare meglio all’estero. Expo e Giubileo sono due grandi occasioni anche per un cambio di marcia psicologico”, ha detto ieri il ministro dei Beni culturali e del Turismo Franceschini, a Firenze, Palazzo Vecchio, durante la seconda giornata dedicata alla presentazione nazionale di Expo.
L’iniziativa, dal nome “Il Paese nell’anno dell’Expo”, era stata aperta dall’intervento del ministro dell’Interno Angelino Alfano, seguito da lavori incentrati sul tema “Padiglione Italia come vetrina del sistema-Paese” condotti, tra gli altri, da Luca Lotti, sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Diana Bracco, commissario per il padiglione Italia dell’Expo e Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole con delega all’Expo.
Marco Maroni
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL PREMIER CHIEDE ALLA MINORANZA DI FAR FUORI BERSANI E D’ALEMA, MA LUI UN BEL PO’ DI VECCHIA GUARDIA SE LA TIENE ECCOME
Stando a quanto raccontava Repubblica ieri, Renzi avrebbe detto “ai suoi” di smetterla di andar dietro a D’Alema e Bersani.
L’oggetto del contendere è la legge elettorale, sul quale il premier vuole un sì definitivo alla Camera senza variazioni.
Ma se D’Alema è un antico bersaglio, peraltro già colpito (e ampiamente rottamato ), Bersani come obiettivo esplicito non era mai apparso in questi termini.
È la guerra generazionale, il nuovo che avanza.
O meglio, il metodo ormai consueto per Renzi: portare a sè i giovani, inglobarli proponendo loro ruoli, posti di potere, magari candidature e isolare i “vecchi”, fino a detronizzarli.
Matteo Orfini, Marianna Madia, Debora Serracchiani, ma anche Enzo Amendola e Roberto Speranza prima erano all’opposizione, ora sono o “diversamente” maggioranza, o puntelli del premier segretario nella minoranza.
Eppure, se una parte consistente della vecchia guardia (D’Alema, Veltroni, Marini) ormai non conta più nulla, una pattuglia decisamente numerosa non solo resiste, ma avanza.
Soprattutto sui territori.
Perchè di certi pezzi di vecchio potere, il “nuovo” Matteo non può fare a meno.
Wanda Marra
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Renzi | Commenta »
Marzo 29th, 2015 Riccardo Fucile
L’INTELLETTUALE RENZIANO E L’APOLOGIA DELLA PRESUNTA CONCRETEZZA DEL “FARE” (STRONZATE)
Sulla home page dell’Huffington Post ieri mattina campeggiavano due foto: Maurizio Landini e
Francesco Piccolo.
Il leader della Fiom e l’ultimo premio Strega, da molti indicato come l’intellettuale di riferimento del renzismo di lotta, soprattutto di governo.
Nell’intervista al giornale on line diretto da Lucia Annunziata, Piccolo se la prende con Landini. Se la prende storicamente non personalmente, naturalmente: “È un discorso sulla sinistra che si sente pura, il mio giudizio su Landini è storico, non personale. E lo esprimo nel pieno rispetto delle sue idee e di quelli che le condividono”.
Fatta la doverosa premessa, la tesi è: Landini è reazionario.
Il che ha lo stesso effetto comico di quando Peppone tuona contro “la signora reazione che con ignobili insinuazioni tenta speculazioni ai danni del popolo”.
Ma almeno Peppone faceva il meccanico, non l’intellettuale.
Spiega lo scrittore che lo scontro “si apre ogni volta che la sinistra si fa concreta, diventa di governo, e deve mettere in atto le cose. Di fronte a questo appuntamento, in cui ci si espone alla fragilità del non farcela, c’è sempre nella sinistra un risveglio di purezza. Contrapporre alla fragilità della concretezza la purezza degli ideali è una strada seducente, irresistibile. Stavolta tocca a Landini incarnarla”.
La sinistra concreta sarebbe quella di governo.
La sinistra del Jobs Act, dell’articolo 18, del superpreside nella buona scuola.
La sinistra delle riforme, il pateracchio del Senato dei nominati e dell’Italicum fotocopia del Porcellum.
La sinistra del fare che vuol governare a suon di premi di maggioranza e listini bloccati.
La sinistra del decreto legge.
È questa la sinistra che, dice Piccolo, è diventata adulta. Perchè ripeness is all, la maturità è tutto e dunque non si può restare ostaggio delle idee, non diciamo ideologie che sono morte e sepolte da decenni.
Il governo del fare mette le mani nelle cose. E questo sarebbe di per sè un bene?
Che senso ha l’apologia dell’agire se le azioni sono quelle, molto discutibili, viste in questi mesi? Agire, ma per fare cosa?
Sembra una domanda inutile, senza importanza, in quest’orgia laudante del premier facitore.
È tutto un elogio della velocità , del piglio, dell’energia.
Ma è sul cosa e sul come, che Landini vuol portare l’attenzione e il segretario della Fiom ha ragione quando rivendica come politica la sua iniziativa.
Dice lo scrittore che le persone hanno un’irresistibile attrazione verso lo scatafascismo. Ma il mito del progresso (chissà se Piccolo se lo ricorda ancora il treno della Locomotiva gucciniana) è un mito smentito dai fatti: basta guardare la classe dirigente dei tuìt e delle slide.
Gente che non risponde mai sul punto, mai nel merito alle obiezioni.
Quelle rare volte che le obiezioni vengono considerate e non rispedite al mittente con gentilezze tipo ”tutti gufi e rosiconi”.
Prima non andava tutto meglio? È più convincente il “non c’è limite al peggio”.
Da “l’ottimismo della volontà ”, passando per “l’ottimismo è il sale della vita” della pubblicità , era un fatale arrivare al “preferisco avere il mito del futuro che quello del passato”.
Per questo il pessimismo della ragione è più che mai una risorsa.
Da ultimo: chi si autodefinisce intellettuale suscita sempre una certa diffidenza.
Non solo perchè spesso l’uso del cervello viene confuso con l’uso di mondo, o perchè a intellettuale seguono aggettivi come “libero” o “cosmopolita” oppure, perchè no, “organico”. Soprattutto per la presunzione di intelligere.
Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Politica | Commenta »