Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
INTERVISTA AL SINDACO DI FIUMICINO: “NESSUNO FA INVESTIMENTI”
Per chi non lo sapesse, il sindaco di Fiumicino è di fatto il sindaco dell’aeroporto. È un piddino ed è furibondo.
Si chiama Esterino Montino, da politico navigato ha attraversato le istituzioni a tutti i livelli, dal comune di Roma alla Regione Lazio, fino al Senato.
Sabato, dopo gli incendi, i blackout elettrici e i disservizi che hanno consegnato il primo scalo italiano alla lista nera degli aeroporti di tutto il mondo, Matteo Renzi lo ha chiamato promettendo che su Fiumicino il governo metterà le mani e la testa.
Ma le promesse al momento sono tali, e lo hanno placato fino a un certo punto.
Sindaco, contento di finire tutti i giorni in prima pagina?
Non per quello che succede dentro e fuori l’aeroporto. No.
Un guaio al giorno, perchè?
Perchè è durata troppo a lungo la latitanza del gestore dello scalo e quella dello Stato sugli investimenti.
Esempio.
Il Molo C, che avrebbe dovuto sostituire il T3 durante la ristrutturazione, prima dell’incendio naturalmente. Beh, hanno cominciato a costruirlo sette, otto anni fa e per sei anni è rimasto alle fondamenta.
Ed è ancora uno scheletro.
Certo, perchè dopo la ripresa dei lavori si è fermato tutto di nuovo quando si è scoperto che l’impresa era in amministrazione controllata. Cioè, mezza fallita. Dico io, ma la Atlantia del gruppo Benetton che ha la maggioranza di Aeroporti di Roma come può sbagliare l’assegnazione di un appalto in modo così clamoroso?.
Quindi, dimentichiamoci il Molo C per almeno altri due anni.
Fosse solo questo. Il problema è che al momento dentro l’aerostazione non è previsto alcun tipo di investimento, fatta eccezione per gli interventi sulle piste. La Tre in particolare, che poggia su banchi di torba e sprofonda in continuazione. Sul resto, zero.
Come è possibile?
Nel 2012 il governo Monti aveva stipulato un nuovo contratto di servizio con Aeroporti di Roma concedendo un aumento delle tariffe a fronte di un piano di investimenti.
Approvato nel 2013 e mai applicato. Parliamo di 1,8 miliardi per tre nuovi terminal, automatizzare il sistema attuale in tutta l’aerostazione, costruire una monorotaia per collegare i terminal tra loro e col parcheggio a lunga sosta….
Come succede in tutto il mondo.
Invece, pur di fare cassa, hanno affogato l’aeroporto di parcheggi e negozi. Fare cassa è stata la vera priorità di questi anni. Poi dicono che il sistema collassa.
Allora diciamolo: quello di Fiumicino è un aeroporto vecchio e inadeguato.
È così. Sia rispetto al volume di traffico che alle prospettive per il futuro.
Lei cosa farebbe?
Comincerei a svuotare tutte le costruzioni che non necessarie ai servizi diretti e trasferirei uffici, mense e parcheggi a ridosso dell’aerostazione restituendo questi spazi alla vita quotidiana dello scalo. Pensi che efficienza ritrovata se si riuscisse ad utilizzarli per selezionare il trasporto nazionale, continentale e intercontinentale, collegando queste strutture ai terminal e tra loro con nastri, scale mobili e monorotaia. Serve una riprogettazione globale, bisogna smontare e rimontare tutto l’aeroporto con una visione e un criterio. Invece qui stiamo parlando addirittura di mancanze gravi nella manutenzione straordinaria.
Un altro esempio, allora.
Tre anni fa andò a fuoco la scala mobile che collegava gli arrivi e partenze nel T3 e al tunnel per il treno ed è rimasta così. Bruciata, da tre anni. Poi se vogliamo parlare di problemi, cene è anche uno esterno. Enorme.
Quale?
Ora le faccio la fotografia della situazione. Lei sa che l’Hub nazionale è tutto dentro un unico comune, quello di Fiumicino?.
No, vada avanti.
Bene, questo comune ha ottantamila residenti e di fatto è la quarta città del Lazio dopo Roma, Latina e Guidonia. Ma ha un’area territoriale che è il doppio di Firenze ed è più grande di quella di Milano. Eppure a Fiumicino non ci sono presidi statali. Due anni fa ci hanno tolto pure i vigili del fuoco….
Quindi, se c’è un incendio chi dovete chiamare?
I vigili del fuoco di Ostia, di Cerveteri o addirittura di Roma. Per l’incendio della pineta sono dovuti venire i vigili dell’aeroporto e abbiamo aspettato tre ore. Ma se ci fosse stata un’emergenza nello scalo e non fossero potuti uscire?.
E la Forestale?
Non c’è mai stata, nonostante siamo il cuore del Parco nazionale del litorale romano. Parlo di 12mila ettari di macchia mediterranea, di cui mille solo a Maccarese. E’ come se il Circeo o il Parco d’Abruzzo fossero abbandonati al loro destino. Non è pazzesco? Ma se vuole le racconto dei carabinieri.
Non avete neanche i carabinieri?
Sì, ma sono ancora quelli di quando eravamo la XIV circoscrizione di Roma. La stazione di Fiumicino fa capo al comando di Ostia. La stazione di Passoscuro e Fregene fa capo a Civitavecchia e l’entroterra fa capo a Casalotti. Per non parlare dei nostri vigili urbani. Su 180 previsti ne abbiamo 86, di cui 30 adibiti in pianta stabile al controllo della viabilità e del servizio taxi nella zona dell’aeroporto.
Dove succede di tutto, tra abusivi e non.
È così. E per completare la fotografia le ricordo che l’accesso all’Hub aereo più importante d’Italia ha un’unica via d’accesso. Perciò quando c’è un incidente, e ce ne sono purtroppo in continuazione, la strada si blocca e blocca il sistema. Uno direbbe: ma io a Fiumicino ci vado in treno. Beato lei: quel trenino che chiamano express, per fare 20 chilometri da Termini all’aeroporto impiega 45 minuti. Infatti il settanta per cento dei passeggeri ci va in macchina.
Con questi guai, tra dentro e fuori, come pensa che se ne uscirà ?
Renzi, Alfano e il prefetto Gabrielli mi hanno garantito che ci metteranno la testa e le mani da subito, prendendosi la responsabilità della messa in sicurezza della parte esterna. E dentro? Il Giubileo è dopodomani, non so come finirà .
(da “Huffingtonpost“)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
A MAGGIO LA RAI TAGLIA I SALARI DEI DIRIGENTI, MA POI EMETTE UN BOND DA 350 MILIONI PER ELUDERE IL LIMITE DI 240.000 EURO
Sabato mattina il premier Matteo Renzi ha visto il candidato favorito a guidare la Rai: Antonio
Campo Dall’Orto, già a capo di La7 e Mtv, uno dei primi renziani.
E in serata ha visto Pier Carlo Padoan, formalmente azionista unico della Rai con il ministero del Tesoro. Domani i nomi della nuova squadra di vertice della tv pubblica dovrebbero essere ufficiali.
Quando le trattative sono così avanzate, di solito si comincia a parlare di soldi. Che nel caso della Rai sono un aspetto rilevante della questione: ormai quasi nessuna poltrona pubblica può ancora offrire gli stipendi che promette viale Mazzini.
Sia per il presidente che dovrebbe avere un minimo di 100-200mila euro (a salire in base a quante deleghe avrà ).
Ma soprattutto per il direttore generale, e poi destinato a trasformarsi in amministratore delegato, che è autorizzato a sfondare il tetto in teoria universale che fissa a 240mila euro lordi all’anno la retribuzione massima per i dirigenti pubblici.
La storia di questa eccezionalità è istruttiva.
Nel bilancio 2014 della Rai, approvato il 25 maggio scorso dall’assemblea degli azionisti (cioè dal ministero del Tesoro), si legge che “L’art. 13 della Legge n. 89/2014 ha riferito il limite massimo ai compensi degli amministratori con deleghe e alle retribuzioni dei dipendenti delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni all’importo di 240.000 euro annui”.
E la Rai si adegua. Nei giorni successivi il direttore generale Luigi Gubitosi e altri top manager fanno il bel gesto di adeguare al ribasso il proprio compenso.
Differenze non di poco conto, visto che il capo azienda ha sempre incassato attorno ai 600mila euro lordi annui, tranne Lorenza Lei che riuscì a trovare il modo di portarlo a 750mila.
Secondo quanto ricostruito da Leandro Palestrini e Aldo Fontanarosa su Repubblica.it il 18 maggio, l’ufficio del personale Rai convoca 42 alti dirigenti “perchè firmassero una lettera.
C’era scritto che il loro stipendio veniva tagliato a partire da subito. Con la busta paga di maggio, questi dipendenti (Giancarlo Leone, Antonio Marano, Lorenza Lei, tra gli altri) avrebbero ricevuto il corrispettivo mensile di 240 mila euro lordi annui”. Qualcuno prova a obiettare che la Rai è un’azienda normale, anche se controllata dallo Stato, e quindi il tetto non si può applicare. Ma vince la linea dell’austerità . O così sembra.
Perchè il bilancio Rai stabilisce anche che l’azienda “potrà procedere all’attuazione dell’iter propedeutico all’emissione in una o più tranches di un prestito obbligazionario non convertibile, fino a un importo massimo di 350 milioni di Euro, destinato a investitori istituzionali, da quotare nei mercati regolamentari”. La parola chiave è “quotare”.
Tutte le norme che si sono succedute dal governo Monti (2011) in poi in materia di tetti agli stipendi pubblici hanno sempre escluso le aziende controllate dallo Stato che emettono titoli di debito quotati.
Lo spirito doveva essere che quelle con una struttura finanziaria complessa devono poter assoldare i migliori professionisti sul mercato, che costano.
Ma nella pratica l’effetto è che basta fare le giuste scelte finanziarie. Il 20 maggio 2015, due giorni dopo che Gubitosi aveva convocato i dirigenti per tagliare i loro stipendi, l’agenzia Reuters comunica che la Rai ha avviato il collocamento di un bond da 350 milioni. Addio tetto.
La nuova riforma renziana non si pone il problema: si limita a stabilire che “il consiglio di amministrazione, su indicazione dell’assemblea, determina il compenso spettante all’amministratore delegato”.
Quindi decide di fatto il governo, senza limiti. Antonio Campo Dall’Orto può sperare di avere anche lui 5-600mila euro come i predecessori.
Il fatto che il governo abbia deciso di procedere con le nomine usando la vecchia legge Gasparri del 2004 invece che aspettare l’approvazione anche alla Camera della riforma apre poi interessanti opportunità per Campo Dall’Orto.
Secondo un’usanza inimmaginabile nel settore privato, i direttori generali della Rai si facevano anche assumere a tempo indeterminato.
Quando cambiava il partito al potere, venivano accantonati ma non perdevano lo stipendio.
La riforma prevede espressamente che non può essere dipendente della Rai: se anche lo fosse al momento della nomina, prima deve dimettersi e poi accettare la carica di amministratore delegato.
Ma la riforma, appunto, non vige ancora. Quindi Campo Dall’Orto in teoria può ancora fare in tempo a farsi assumere.
Dal centrodestra c’è chi suggerisce, come alternativa a Capo dall’Orto, il nome di Giancarlo Leone, attuale direttore di Rai1, attivissimo su Twitter.
Sarebbe un direttore generale di transizione in attesa dell’approvazione della riforma e non dovrebbe neppure dimettersi finchè restano in vigore le vecchie regole.
Ma è una soluzione che per Renzi diventerebbe un’ammissione di debolezza.
Vedere Campo dall’Orto prima di partire per il Giappone — il premier rientrerà a nomine fatte — è stato un segnale chiaro.
E l’ex manager di La7 e Mtv è così consapevole delle proprie possibilità che nei giorni scorsi, come rivelato dal Fatto, si è fatto rilasciare un parere da un importante studio legale romano per essere sicuro che fosse possibile la trasformazione in corsa da direttore generale ad amministratore delegato quando sarà approvata la riforma. Sarebbe spiacevole trovarsi a guidare la Rai solo per pochi mesi e poi dover lasciare il posto a un altro.
Anche se Campo Dall’Orto dunque sembra sicuro, è tutto ancora aperto, bisogna trovare l’incastro tra le varie tessere, a cominciare da quella del presidente.
Silvio Berlusconi si consulterà con i suoi sherpa e prenderà le sue decisioni, lunedì si riunisce la commissione di vigilanza che, con la maggioranza dei due terzi, deve approvare l’indicazione del presidente che arriva dal cda ma di fatto dal governo. Chissà se Campo Dall’Orto — o i suoi sfidanti, Andrea Scrosati di Sky e Marinella Soldi di Discovery — appena arrivati a viale Mazzini rimetteranno il tetto agli stipendi, incluso il proprio.
Il passato consiglia scetticismo.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
PER I CONTI DELL’OSPEDALE DI ALESSANDRIA SCELTO UN COMMERCIALISTA CHE VIVE AD AVOLA
«Tagli? Macchè, sono sprechi evitati». Diceva così la ministra Beatrice Lorenzin. Illustrava il nuovo piano di spesa sanitaria: 10 miliardi in meno in 5 anni. Ma niente paura, va via il superfluo.
Diceva così e intanto procedeva in direzione opposta, perchè proprio nelle stesse ore dal suo ministero partiva la nomina, quale revisore dei conti dell’azienda ospedaliera di Alessandria, in Piemonte, non già di un valente e disponibile professionista scelto secondo il criterio solitamente valorizzato della prossimità , ma di Luca Cannata.
E chi è Cannata? È anche, se non soprattutto, il sindaco di Avola, in Sicilia.
È un commercialista, certo, ma ha pur deciso, riuscendoci, di dedicarsi all’amministrazione del suo piccolo seppur noto Comune.
Chi, anche tra i sobri, non ha mai sentito parlare del Nero d’Avola?
Ma una cosa è il vino, la sua promozione come risorsa locale, un’altra è il controllo della spesa pubblica. Si può far tutto, contemporaneamente, e bene?
Alfredo Monaco, il puntiglioso consigliere regionale del Piemonte che ha sollevato il caso, ha fatto qualche calcolo geo-amministrativo.
Avola dista da Alessandra 1.500 chilometri. E di mezzo c’è anche il mare.
Un viaggio in auto, andata e ritorno, con annesso attraversamento dello Stretto, può durare anche 30 ore, e tra le spese bisogna calcolare almeno 110 litri di carburante e 200 euro di pedaggi autostradali.
Un biglietto aereo, invece, costa 550 euro, ma da Catania a Genova, Torino o Milano, poi bisogna calcolare le prime e le ultime miglia, quelle da e per gli aeroporti. Insomma, perchè tutto questo giro d’Italia?
Anche a voler pensar male, e cioè a uno scambio elettorale o a un favore ricambiato, non si poteva trovare una soluzione meno «movimentata»?
La Sanità regionale, dalla ministra di recente censurata in polemica con l’ex assessore Borsellino, non necessita di bravi revisori?
«Sprechi evitati», dice il ministro. Come no.
Marco Demarco
(da “il Corriere della Sera“)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
LA CAPITALE DELLA CULTURA 2019: NON VOGLIAMO DIVENTARE UNA CARTOLINA
E poi c’è Matera. Eccezione delle eccezioni. Capitale europea della cultura nel 2019. Dove tornano
giovani andati a studiare al Nord o all’estero.
Dove arrivano gli stranieri a fare impresa. E dove a fronte di 60 mila abitanti l’anno scorso (dunque anche prima del successo della candidatura, sancito il 17 ottobre), i turisti sono stati 153mila persone per 244mila pernottamenti.
Raddoppiati in cinque anni eppure, anzichè esultare, a Matera si stanno preoccupando perchè i turisti stanno diventando troppi e crescono a ritmi troppo sostenuti (+16,5% in un anno), con il rischio di diventare «città cartolina».
Mordi e fuggi, perdendo l’anima.
Matera è un miracolo che non nasce all’improvviso. È il frutto di pensieri lunghi.
Dei giovani come l’urbanista Pietro Laureano che quarant’anni fa immaginarono di far entrare i Sassi nel circuito dei beni Unesco, primo sito del Sud.
E dei giovani come la sociologa Ilaria D’Auria, che nel 2009 immaginarono la candidatura a capitale europea, telefonarono a un professore italiano che insegna in Gran Bretagna e si fecero spiegare come si fa.
Ecco uno dei tratti peculiari (e originali, nel panorama italiano e non solo meridionale) del caso Matera: i tempi lunghi.
Il secondo è la capacità di attrarre capitali e persone da fuori.
I più conosciuti come l’attore Mel Gibson, che nei Sassi alla fine del 2002 girò il film sulla Passione di Cristo, o il milanese Daniele Kihlgren, che ha impiantato un albergo diffuso con tassi di riempimento costantemente sopra l’80%.
E i meno noti, ma non meno significativi: l’inglese che produce gioielli tra i Sassi con materiali di riciclo del territorio; l’architetto irlandese che restaura case nei centri storici lucani; la traduttrice americana che organizza il festival di letteratura rosa più importante d’Europa.
Terzo elemento: il turismo a Matera è destagionalizzato (una chimera in gran parte d’Italia), tanto che gli albergatori hanno chiesto di anticipare di due settimane il festival organizzato con Radio3, «perchè a fine settembre siamo già pieni».
Il fatto è che a Matera – altra eccezione – la parola turista non piace.
Nel dossier 2019 risuonano altre espressioni. Come «cittadino temporaneo», perchè l’obiettivo è trasformare chi arriva per un weekend in una persona che vive a Matera per un tempo più lungo, ci ritorna, si radica in quello che Vittorio Sgarbi definisce «un luogo assoluto».
Un’altra espressione chiave è «abitante culturale», riferito a una persona che non aspetta lo Stato ma si occupa personalmente del patrimonio culturale cittadino sentendosene proprietario e responsabile.
Per questo la vulcanica soprintendente Marta Ragozzino (una che due minuti prima dell’inaugurazione di una mostra trovi fuori sotto il sole a spostare le transenne, non dentro a stringere le mani alle autorità ) ha deciso di affidare ai materani le opere del museo di Palazzo Lanfranchi, consentendo di portarsele a case, per diventare «ambasciatori» della cultura nel quartiere.
«Tutto questo esisteva già , noi l’abbiamo trasformato in una narrazione – dice Paolo Verri, capo della struttura organizzativa – guardare tra vent’anni è l’unico modo per arrivare in tempo, se pensiamo a recuperare il tempo perduto non ce la faremo mai».
Quindi non solo b&b, festival, pub.
Tra due mesi arriveranno i primi venti allievi della scuola di restauro, per fare «export di competenze culturali» e partecipare nel tempo a progetti anche all’estero.
E una delle idee più forti del dossier di candidatura attiene al capitolo «open data e open democracy» con investimenti sugli studenti tra 8 e 12 anni, nella regione con il più basso tasso di lettura d’Europa.
Poi, certo, senza treni nazionali e aeroporti Matera resta lontana. Nei giorni scorsi la Regione Puglia ha stanziato 20 milioni per eliminare i cinque passaggi a livello che portano il viaggio delle ferrovie locali Bari-Matera a 75 minuti.
Chissà se fino al 2019 questa «grande opera» sarà completata e consentirà di viaggiare da Bari a Matera in treno in tre quarti d’ora (meno che in auto).
Ma in ogni caso quella che si presenterà all’Europa come capitale della cultura sarà una città tutt’altro che disconnessa.
Giuseppe Salvaggiulo
(da “La Stampa”)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
IMPIEGHI E IDEE INNOVATIVE PER CREARE LAVORO
Per anni, l’impianto della Pfizer era una fabbrica dei sogni. I sogni sessuali di signori anziani, che compravano il Viagra prodotto nel casermone di mattoni di Brooklyn quasi fosse un elisir d’eterna giovinezza.
Ma quando l’ultima pillola blu uscì dalla catena di montaggio, nel 2008, l’edificio fu abbandonato ai graffiti, all’incuria e allo sfacelo.
Oggi, grazie al lavoro di finanzieri lungimiranti, lo stabilimento è ritornato a fabbricare sogni. Non di vecchi in cerca di un passato che non ritornerà mai più, ma di giovani imprenditori che stanno costruendo un nuovo futuro.
Lo stabilimento, di 54 mila metri quadrati, è uno dei più grandi «incubatori» degli Stati Uniti, un posto dove piccole imprese possono produrre, creare e vendere senza spendere troppo in affitto. E dove i capitani di queste piccole industrie possono condividere l’arduo sentiero dell’imprenditoria con altri compagni di strada.
Il mio viaggio nella ripresa economica degli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria del 2008 incomincia qui, sulla linea «G» della metropolitana che a Manhattan nemmeno ci va.
Parto fuori dalla New York dei turisti, di Wall Street e di Broadway perchè uno dei temi-guida della ripresa americana, e la grande differenza con il ristagno europeo e italiano, è lo spirito camaleontico e rigeneratore dell’economia Usa, la capacità non solo di produrre nuovi posti di lavoro, ma di creare nuovi «tipi» di lavoro quando le industrie tradizionali non funzionano più.
Incontreremo altri mestieri nuovi durante la nostra spedizione nel cuore economico dell’America — dai petrolieri-contadini della Pennsylvania ai venditori di marijuana di Denver, ai guidatori di taxi di Uber —, ma il viaggio sotterraneo sulla «G» ci porta ad un gruppo di lavoratori nato dalle ceneri dell’industria manifatturiera di un tempo: i nuovi artigiani.
Per capire come gli Usa si sono ripresi dalla crisi bisogna analizzare le motivazioni, speranze e paure di gente che non vuole più fare l’impiegato, che preferisce essere il proprio capo e che per fare ciò, rischia molto di suo.
Lawrence Katz, professore di economia a Harvard, ha battezzato questo nuovo fenomeno «l’economia artigiana».
Nessuno sa quanto sia grande ma Etsy, un sito web che facilita la vendita di prodotti artigianali l’anno scorso ha mosso quasi 2 miliardi di dollari di merce per conto di 1,4 milioni di produttori.
Secondo Katz, questo nuovo settore non è solo una ribellione-yuppie alla tirannia dei salari, ma potrebbe salvare le classi medie americane, creando posti di lavoro che rimpiazzano quelli resi obsoleti dalla tecnologia o trasferitisi nei Paesi in via di sviluppo.
Ripartire da zero
Basta passare cinque minuti nei corridoi ampi della fabbrica Pfizer per capire di essere nel mezzo di una rivoluzione sociale. Dove un tempo c’erano formule chimiche, camici bianchi e guanti, ora ci sono forni, pezzi di stoffa e persino vegetali idroponici. Gli odori passano dal fragrante aroma dei croissant, all’attacco del kimchi — il pungente sott’olio amato dai coreani — al profumo Chanel delle modelle, magre muse di stilisti ancora sconosciuti.
La metafora è quella del passaggio delle consegne: gli spazi creati per una delle più grandi multinazionali del mondo sono stati invasi da decine e decine di piccole aziende con grandi ambizioni.
Da fotografa a pasticciere
E all’interno di quelli spazi, tante storie. Storie di emigranti come Antonella Zangheri, nata a Rimini, fondatrice della Krumville Bake Shop, una pasticceria artigianale per celiaci. Antonella mi offre uno dei suoi buonissimi biscotti senza glutine e racconta di come è diventata artigiana.
Faceva la fotografa di moda fino a quando non scoprì di essere celiaca: «Tutto d’un tratto, sono stata costretta a comprare pane congelato. Per gente come me, non c’era niente di fresco».
Aveva sempre avuto la passione per la pasticceria ma allora, per la prima volta, pensò che potesse essere un mestiere. Fondò Krumville tre anni fa con i suoi risparmi e un’impiegata.
Per ora, il fatturato è piccolo — 170 mila dollari nel 2014 — ma in crescita. E il lavoro è duro. Antonella, che ha 44 anni ma ne dimostra 30, fa tutte le consegne a bar e pasticcerie di New York da sola, la mattina presto, con la sua macchina. Sembra contenta.
«Quando fai il fotografo — spiega Antonella — non crei nulla, catturi semplicemente un momento. Non è molto creativo».
È interrotta da un bip sul computer, un ordine via internet da Amazon, esempio di come, nel 2015, anche un artigiano si debba appoggiare alla tecnologia. Antonella passa l’ordine alla cuoca — focaccia al rosmarino – e conclude: «In questo mestiere, la gente apprezza quello che fai».
La pasta di Gonzalez
Essere apprezzati, essere in contatto con i clienti, fare qualcosa di creativo e utile, è un refrain che echeggia nel palazzone della Pfizer.
Non si sente quasi mai parlare di soldi, una novità per chi, come me, di solito frequenta finanzieri e scrive di mercati.
Imprenditori come Steve Gonzalez, il patron dello Sfoglini Pasta Shop, i soldi li vogliono fare ma non è quello il motivo per cui si sono messi in proprio.
Steve, americano di origine messicana, ha scoperto la passione per la pasta in un giro peripatetico per le cucine italiane: Gorizia, Bergamo, le isole.
Quando è tornato negli Usa ha deciso di produrre pasta con farina biologica e ingredienti tutti provenienti dallo Stato di New York.
La Sfoglini costa tanto — dai 7 ai 10 dollari al pacco — ma la gente la compra e tra pochi mesi la venderà anche il gigante Eataly.
Steve sembra un ragazzino, più giovane dei suoi 35 anni, con una faccia che non sembra mai aver avuto un pelo di barba, e una bandana rossa in testa. Ma quando parla del suo business, è serissimo.
«Amo la pasta e la volevo fare per bene. Per un pubblico americano, ma per bene», dice mentre guarda con attenzione i suoi impiegati sfornare un enorme vassoio di conchiglie allo zafferano.
La Sfoglini, come quasi tutte le imprese nella fabbrica Pfizer producono prodotti venduti in negozi — «business-to-business» nel gergo finanziario.
Molti dei nuovi artigiani, però, non «creano» nel senso vero della parola ma utilizzano tecnologie moderne per mettere in contatto produttori e consumatori («business-to-consumer», direbbero gli analisti di Wall Street).
«Il Nostro Raccolto»
Michael «Mike» Winik e Scott Reich fanno parte di questo gruppo. I due hanno fondato OurHarvest — Il Nostro Raccolto — una società che vende cibo prodotto da fattorie dello stato di New York.
A vederli, i due 32enni non sembrano tipici artigiani. Amici d’infanzia — «ci siamo conosciuti sullo scuola-bus delle elementari» dice Scott — laureati alla prestigiosa Wharton Business School, avevano scelto carriere «rispettabili: Scott in un grande studio legale e Mike in una banca d’affari.
«Dopo un po’, ci è venuta voglia di fare qualcosa che avesse più senso», ammette Mike mentre andiamo a prendere della merce nelle fattorie di Long Island. «Non volevamo arrivare a 60 anni e dire che avevamo fatto una carriera senza rischi».
E allora hanno preso dei bei rischi. Hanno deciso che se i newyorchesi non andavano più nelle fattorie, la frutta e la verdura gliela avrebbero portata loro. Hanno preso i soldi guadagnati a Wall Street, e hanno aperto «OurHarvest», un mercato «virtuale» dove i consumatori ordinano su Internet, i due amici vanno a prendere la merce e la consegnano in meno di due giorni.
«Più fresco di così, non si può», dice Scott, che certe notti dorme sul divano dei genitori per risparmiare.
«Lavorate moltissimo?» chiedo prima di ricordarmi che come apprendista-avvocato e apprendista-banchiere questi due si sono ammazzati di lavoro nelle loro vite precedenti. Mike capisce e sorride. «È più divertente. Qui vediamo subito l’impatto del nostro lavoro. Gli stimoli cambiano di secondo in secondo».
Osservando questi due giovani ex-rampanti toccare i pomodori e assaggiare le albicocche a Wickham’s Fruit Farm, una fattoria che ha iniziato a coltivare nel 1600, mi chiedo se questo sia solo il primo passo per Scott e Mike. Se vogliano fare «gli imprenditori seriali» stile-Silicon Valley che creano aziende, le vendono per poi crearne altre e così via. Scott scuote la testa. «Se non facciamo errori, non ce ne sarà bisogno», dice, con la fiducia e l’ottimismo che sono proprie di tanti nuovi artigiani. La riscossa delle donne
Il bello di questo nuovo settore è che è molto diverso dalle industrie del passato. Quando Etsy ha chiesto a quattromila venditori di identificarsi, i risultati sono stati sorprendenti: Otto su dieci sono donne, molto di più del 51% della popolazione americana; più della metà ha almeno un diploma universitario (nel resto degli Usa è meno del 30%) e il 40% vive in zone rurali, quasi il doppio della media nazionale.
È un identikit che non si trova in nessun altro mestiere e definisce un gruppo di persone che per decenni è stato ai margini del mercato del lavoro. Anche qui, la tecnologia aiuta.
La forza dei computer di oggi permette a milioni di persone di lavorare da casa, contattare clienti e distributori in maniera veloce ed efficace, fare il proprio marketing, senza tanto sforzo o costo.
È questa la speranza di economisti e politici: attrarre nuove categorie di lavoratori che fino ad ora non avevano contribuito granchè all’economia del Paese. È uno dei pochi obiettivi che unisce sia la democratica Hillary Clinton sia il repubblicano Jeb Bush, i probabili candidati alla Casa Bianca nel 2016.
L’eccezione americana
Ma la domanda, che formuleremo varie volte durante il viaggio, è: si tratta di un modello per altri Paesi o di un’anomalia americana?
L’idea che milioni di persone si possano mettere in proprio e dare il proprio contributo — economico, sociale e fiscale — in maniera non convenzionale, è esportabile o è il prodotto di un milieu e sistema prettamente made in Usa?
Gli imprenditori della Pfizer sono scettici. Olivier Dessyn, lo chef-padrone di Mille-feuille, una mini-catena di pasticcerie, è molto critico del suo Paese natale.
«Non lo avrei mai potuto fare in Francia». Nonostante abbia lavorato alla famosa scuola di cucina del Ritz, nonostante abbia fatto l’apprendistato con il leggendario Camille Lesecq e poi alla pasticceria Pierre Hermè di Parigi, lui è convinto che un dilettante che lavorava nei computer non sarebbe mai stato accettato dall’establishment culinario francese.
«No, no, no, – dice Olivier – devi conoscere qualcuno, lavorare per dieci anni dietro le quinte, fare la gavetta e allora, solo allora, ti permettono di aprire i tuo negozio». E a New York invece? «A New York, è tutta un’altra cosa. Se fai delle buone cose, la gente le compra e ti ama. Punto e basta».
È difficile non amare i croissant e i dolci di Olivier, prodotti tutti a Brooklyn, ma con una vista mozzafiato di Manhattan che ricorda a tutti gli imprenditori perchè sono lì. «Se ce la fai a New York, ce la fai ovunque», dice Olivier, citando, forse inconsciamente, Frank Sinatra.
L’Italia, purtroppo è simile alla Francia, almeno stando a quanto dice Antonella Zangheri. Mi fissa con gli occhi azzurri e racconta come è stato facile aprire un business in America e come è diverso dall’Italia della burocrazia, del governo Azzeccagarbugli e delle pratiche infinite.
Vuole essere speranzosa Antonella e mi dice che quello che fa lei, quello che fanno Olivier e Steve, Mike e Scott potrebbe essere replicato in Europa e in Italia.
Ma poi si ferma e, nel suo inglese perfetto, con l’accento di New York, sussurra: «If it wasn’t so damn difficult».
Se non fosse così maledettamente difficile.
Francesco Guerrera
(da “La Stampa”)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“GLI ITALIANI VIVONO TROPPO BENE PER RENDERSI CONTO DELLA SITUAZIONE ECONOMICA”…”LA MONETA UNICA E’ UNA ZAVORRA PER L’ITALIA”
“La Grande Bellezza non salverà l’Italia come auspica il premier Matteo Renzi, peggio, sarà “un
freno alla crescita. Il vostro stile di vita è fantastico. E’ addirittura troppo bello perchè ci si renda conto dell’emergenza che attraversa il Paese”.
Tyler Cowen, professore della George Mason University autore di La media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del lavoro (Università Bocconi Editore) inserito dalla rivista Foreign Policy tra i Top 100 Global Thinkers, è un fiume in piena: “I prossimi 60 anni saranno duri, ma il futuro sarà brillante. Stiamo vivendo una nuova rivoluzione industriale, come nel 19esimo secolo”.
Visto dagli Stati Uniti, poi, l’euro è stato un fallimento, ma non la causa della crisi: “La moneta unica è stata un fallimento, ma non è questa la causa della crisi. Piuttosto ha acuito i problemi generati da fenomeni ineludibili, come la globalizzazione e la crescita dei computer, delle macchine intelligenti”.
D’altra parte l’incipit del libro di Cowen lascia poco spazio alle interpretazioni: “Nel nostro futuro ci saranno più ricchi di quanti ce ne siano mai stati e più poveri e non sapremo come a tutto questo si possa porre fine”.
Quindi, che fare?
“Seguire – suggerisce l’economista – la cosiddetta opzione Donner, campione di scacchi cui fu chiesto quale strategia seguire in una partita contro un computer, che rispose: porterei un martello”.
Una provocazione certo, ma l’analisi è lucida: “Sono sempre meno i lavoratori con la formazione necessaria a stare al passo con i tempi. Capaci di fronteggiare l’evoluzione tecnologica e la spinta competitiva in arrivo da Est, probabilmente si tratta solo del 50% della forza lavoro, ma è un dato che varia a seconda dei paesi e delle regioni”.
Una visione che non lascia molte speranze ai giovani in cerca di lavoro.
La situazione non è semplice, ma sarà molto stimolante. Per essere competitivi serviranno eccellenze fuori dal comune. Capacità che molti oggi non hanno. Anche per questo la riforma più urgente da portare avanti è quella dei sistemi educativi. I ragazzi oggi vanno a scuola e imparano cose che importano sempre meno nel mondo del lavoro. Per aver un futuro bisogna fare qualcosa che le macchine non siano in grado di fare. Purtroppo questo non è possibile ovunque.
L’Italia come si posiziona?
E’ un paese molto diverso, ma non vedo grandi condizioni di crescita. E senza una forte accelerazione, con l’enorme debito pubblico, l’Italia è condannata alla bancarotta. E’ un grande paese per pensionati e per turisti, ma come fa a crescere? Servono più riforme strutturali, quelle fatte negli ultimi anni non bastano. Quanta gente lavora ancora nella pubblica amministrazione senza essere davvero produttiva? Mi rendo conto che spesso si tratta di dipendenti che faticherebbero a trovare un altro impiego, ma è una situazione che zavorra la ripresa.
Le eccellenze del Paese, però, sono molte.
Probabilmente sono anche il limite alla crescita. Il vostro stile di vita è incredibile, ma tutta questa bellezza in qualche modo allontana le preoccupazioni e il senso dell’emergenza. Se l’Italia fosse un sobborgo americano sarebbe tutto diverso. E’ come se mancassero quella fame e quella follia necessaria per cambiare passo. Penso anche a quelle piccole e medie imprese fiore all’occhiello del made in Italy: le adoriamo tutti, ma quante sono sono davvero in grado di aumentare di 10 volte le loro dimensioni nei prossimi anni? Forse nessuna. Se guardiamo la Cina, invece, le cose sono diverse. I grandi cambiamenti sono nel mondo e l’Italia resta in grave difficoltà .
In questo senso l’euro è un’ancora di salvataggio o un freno?
La moneta unica è un errore. La cosa migliora sarebbe tornare indietro. Il caso della Grecia è emblematico e Atene uscirà dall’Eurozona, resta solo da definire il come e il quando: nessuno però si fida più dal Paese, così come i greci non credono più all’Europa. D’altra parte restare agganciati alla moneta unica è un costo per alcuni Paesi insostenibile e gli interessi sono sempre più divergenti. Quello che potrebbe funzionare per la Spagna o l’Italia non andrebbe bene a Germania e Slovacchia e così via. Per l’Italia l’ideale sarebbe avere più inflazione, ma una ricetta genere è fumo negli occhi per i tedeschi. E comunque tra i Paesi problematici metto anche la Francia, che maschera bene, ma è più in difficoltà di come sembri.
Una battuta d’arresto dell’Eurozona metterebbe in difficoltà anche gli Usa. Altrimenti perchè il presidente Obama si sarebbe speso così per la Grecia?
La Casa Bianca voleva evitare il contagio del sistema bancario, ma gli Stati Uniti possono crescere bene anche senza l’euro. I nostri mercati di riferimento sono il Canada e l’Oriente. In Europa la preoccupazione degli americani era rivolta soprattutto all’Ucraina. I problemi fiscali dell’Eurozona interessano meno.
Insomma lo scenario che dipinge per i prossimi anni è piuttosto fosco.
Nel lungo periodo però il futuro sarà radioso. I cambiamenti saranno verso l’alto. Siamo nel mezzo del guado, dovremo superare la nuova rivoluzione industriale. L’avanzamento della tecnologia, come è successo nel 19esimo secolo, stravolgerà il mondo del lavoro, forse dovremo passare anche attraverso un periodo in cui i tassi di disoccupazione saliranno ancora. Poi arriverà il nuovo boom economico.
Giuliano Balestreri
(da “La Repubblica“)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
LA RICETTA: “TRE GIORNI DI GALERA PER CHI AGGREDISCE”
Torna il bigliettaio sul bus.
L’assessore Esposito farà partire la sperimentazione durante il Giubileo: verranno individuate 15 linee di collegamento tra periferia e centro.
Ancora, i mezzi in periferia a rischio aggressioni saranno presidiati dai vigili urbani e, se occorre, anche dal servizio privato.
Intanto il sindaco Marino ha chiesto al prefetto di precettare i macchinisti il 7 agosto, giorno dello sciopero proclamato dall’Usb.
«Riporterò i bigliettai a bordo per risolvere insieme due problemi: l’evasione e le aggressioni ai controllori ».
L’assessore ai Trasporti Stefano Esposito prende subito di petto l’sos lanciato dal direttore generale dell’Atac Francesco Micheli, sulle linee periferie senza controllo perchè gli agenti accertatori hanno paura delle aggressioni. «Bisogna fare una scelta», dice.
I bigliettai comporteranno costi ulteriori per Atac?
«Neanche per sogno. Prendiamo le persone dietro le scrivanie e gli facciamo un bel corso di formazione. Cominciamo dagli assunti senza concorso di Parentopoli. Mi sembra una buona pratica »
Quali saranno le linee con il bigliettaio a bordo?
«Ne ho già parlato con il sindaco Marino. Individueremo 15 linee e faremo una sperimentazione per il Giubileo. Saranno le grandi linee di collegamento tra centro e periferia. E poi bisogna investire risorse».
In che modo?
«Portando i vigili urbani sui bus e se non bastano i vigili garantire la sicurezza con il servizio privato. Ho chiesto che il Git, il gruppo intervento traffico dei vigili, torni sotto di me, per disporre del gruppo direttamente. In questo modo cominceremo a dare un segnale. Se qualcuno aggredisce sul bus noi lo ingiacchiamo ».
Ingiacchiamo?
«Voce del verbo ingiaccare. Lo teniamo agli arresti per tre giorni, così gli passa la voglia».
L’unione sindacale di base ha proclamato sciopero per il 7 agosto. Saranno precettati?
«Il sindaco Marino ha già inviato la richiesta al prefetto Gabrielli e io sono d’accordo. Voglio dialogare con tutti ma ad un certo punto ci vogliono le maniere forti».
Ci spieghi.
«Ai sindacati va riconosciuto un gran merito: hanno reso possibile una scelta storica con la riorganizzazione dei turni. Ora però bisogna vigilare sui finti sindacati che vogliono difendere privilegi arcaici usando i cittadini. Non possiamo battere in ritirata. Questo lo fa una politica debole, clientelare. Quei sindacati non hanno diritto di cittadinanza. Se, una volta stabilita una linea comune, loro continueranno ad opporsi, cominceremo a licenziare un po’ dei macchinisti infedeli. Siamo noi che dobbiamo aiutare i sindacati veri, che hanno fatto una scelta coraggiosa».
A settembre l’Atac preparerà un bando europeo per cercare un partner industriale come ha indicato il sindaco.
«Prima di procedere con il partner industriale io voglio verificare fino in fondo la proposta di Cgil, Cisl e Uil di un’azienda unica regionale del trasporto, con Atac, Cotral e Fs. Anche se ho fatto presente ai sindacati che anche le Ferrovie dello Stato sono un partner privato, non sono la mammella a cui attingere. Qualsiasi partner per entrare deve vedere che nell’Atac c’è reddittività . In ogni caso, sul tema dell’azienda unica la settimana prossima vedrò il presidente della Regione Zingaretti ed insieme verificheremo se il progetto è praticabile».
Cecilia Gentile
(da “La Repubblica”)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
FACEVA I SUOI BISOGNI TRA I RUDERI DELL’ANTICO ANFITEATRO
L’area archeologica del Colosseo utilizzata come un bagno a cielo aperto: è accaduto ieri mattina
intorno alle 11 quando un turista francese è stato sorpreso a fare i suoi bisogni corporali tra i ruderi che circondano l’antica arena dei gladiatori.
Ad allertare una pattuglia di vigili in servizio in quel momento a piazza del Colosseo sono stati altri turisti infastiditi e increduli davanti a quella scena.
Gli agenti del I gruppo Trevi sono quindi arrivati sul posto, hanno invitato l’uomo a ricomporsi e l’hanno accompagnato al comando di via della Greca, dove è stato denunciato per atti osceni in luogo pubblico.
È F. G., 38 anni residente a Parigi, in visita nella capitale dallo scorso lunedì insieme alla moglie.
La donna ha tentato di giustificare il marito: “Stavamo camminando ma non si sentiva bene” ha detto agli agenti: “Pensavamo che nessuno lo avrebbe notato, non credevamo fosse un gesto tanto grave”.
L’uomo è rimasto in silenzio e non ha dato alcuna risposta ai caschi bianchi che chiedevano spiegazioni: “Dopo la denuncia abbiamo inviato una squadra dell’Ama a ripulire l’area dove il visitatore è stato sorpreso a defecare” ha detto uno dei vigili che si è occupato del caso: “In tanti anni di servizio al Colosseo non avevo mai visto nulla di simile”.
Quanto successo ieri è solo l’ultimo episodio di sfregio al Colosseo.
Era il 16 luglio quando il calciatore bulgaro Blagoy Georgiev (che milita nella squadra russa del Rubin Kazan) fu denunciato per aver inciso le proprie iniziali sulle mura dell’Anfiteatro aperto nell’80 dopo Cristo.
E non era stato il primo a farlo.
Flaminia Savelli
(da “La Repubblica”)
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Agosto 2nd, 2015 Riccardo Fucile
A RIGNANO SULL’ARNO LA PISCINA CHE INGUAIA IL SUCCESSORE DI TIZIANO RENZI, PADRE DI MATTEO
“Se non è turbativa d’asta questa”. Franco Bonciani lo scrive chiudendo la mail con la quale ha appena illustrato a Gianni Gross il “sistema” per mettere le mani sull’appalto del Comune di Firenze del polo sportivo Arrigo Paganelli.
Il messaggio di risposta di Gross, all’epoca dirigente della Fin, è altrettanto chiaro: “L’idea mi pare volpina, ma bisogna mettersi d’accordo che le buste si chiudono sullo stesso tavolo e si portano insieme al protocollo”.
Lo scambio risale all’agosto 2010.
E il “sistema”, nel frattempo, è andato a buon fine: il polo è stato affidato all’Ati capitanata dalla società Acquatica guidata da Bonciani.
E come previsto è scattata l’inchiesta della procura di Firenze: indagati con l’accusa di turbativa d’asta Bonciani ed Elena Toppino, presidente della commissione giudicatrice e dirigente del servizio sport di Palazzo Vecchio.
La Guardia di Finanza ha perquisito gli uffici del Comune e sequestrato numeroso materiale .
La vicenda preoccupa non poco il sindaco Dario Nardella perchè all’epoca dei fatti lui era assessore allo Sport e fu uno dei maggiori sostenitori dell’affidamento all’Ati, schierandosi pubblicamente anche contro il vice di Matteo Renzi, Stefania Saccardi (oggi vicepresidente della Regione Toscana) e altri uomini di primo piano del giglio magico .
Nardella la spuntò. Bonciani, del resto, non è un imprenditore qualsiasi.
Oltre a essere di Rignano sull’Arno è anche amico di famiglia del premier. Del padre, in particolare.
Tanto che quando nel settembre 2014 Tiziano Renzi finì indagato per bancarotta fraudolenta a Genova e decise di lasciare la guida del Pd di Rignano, il testimone finì nelle mani di Bonciani. Incarico che, come Renzi senior, anche lui ha lasciato perchè indagato. Ieri si è autosospeso.
Dopo la pubblicazione dell’indagine che lo riguarda su LaNazione. Ma il Pd di Rignano non l’ha presa bene. E ha accusato la stampa.
“Constatiamo che Rignano è particolarmente attenzionata dai media” e “rifiutiamo di prendere la verità giornalistica come verità fattuale”.
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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