L’AMERICA SULLA STRADA DELLA RIPRESA: TRA I “NUOVI” ARTIGIANI DI BROOKLYN
IMPIEGHI E IDEE INNOVATIVE PER CREARE LAVORO
Per anni, l’impianto della Pfizer era una fabbrica dei sogni. I sogni sessuali di signori anziani, che compravano il Viagra prodotto nel casermone di mattoni di Brooklyn quasi fosse un elisir d’eterna giovinezza.
Ma quando l’ultima pillola blu uscì dalla catena di montaggio, nel 2008, l’edificio fu abbandonato ai graffiti, all’incuria e allo sfacelo.
Oggi, grazie al lavoro di finanzieri lungimiranti, lo stabilimento è ritornato a fabbricare sogni. Non di vecchi in cerca di un passato che non ritornerà mai più, ma di giovani imprenditori che stanno costruendo un nuovo futuro.
Lo stabilimento, di 54 mila metri quadrati, è uno dei più grandi «incubatori» degli Stati Uniti, un posto dove piccole imprese possono produrre, creare e vendere senza spendere troppo in affitto. E dove i capitani di queste piccole industrie possono condividere l’arduo sentiero dell’imprenditoria con altri compagni di strada.
Il mio viaggio nella ripresa economica degli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria del 2008 incomincia qui, sulla linea «G» della metropolitana che a Manhattan nemmeno ci va.
Parto fuori dalla New York dei turisti, di Wall Street e di Broadway perchè uno dei temi-guida della ripresa americana, e la grande differenza con il ristagno europeo e italiano, è lo spirito camaleontico e rigeneratore dell’economia Usa, la capacità non solo di produrre nuovi posti di lavoro, ma di creare nuovi «tipi» di lavoro quando le industrie tradizionali non funzionano più.
Incontreremo altri mestieri nuovi durante la nostra spedizione nel cuore economico dell’America — dai petrolieri-contadini della Pennsylvania ai venditori di marijuana di Denver, ai guidatori di taxi di Uber —, ma il viaggio sotterraneo sulla «G» ci porta ad un gruppo di lavoratori nato dalle ceneri dell’industria manifatturiera di un tempo: i nuovi artigiani.
Per capire come gli Usa si sono ripresi dalla crisi bisogna analizzare le motivazioni, speranze e paure di gente che non vuole più fare l’impiegato, che preferisce essere il proprio capo e che per fare ciò, rischia molto di suo.
Lawrence Katz, professore di economia a Harvard, ha battezzato questo nuovo fenomeno «l’economia artigiana».
Nessuno sa quanto sia grande ma Etsy, un sito web che facilita la vendita di prodotti artigianali l’anno scorso ha mosso quasi 2 miliardi di dollari di merce per conto di 1,4 milioni di produttori.
Secondo Katz, questo nuovo settore non è solo una ribellione-yuppie alla tirannia dei salari, ma potrebbe salvare le classi medie americane, creando posti di lavoro che rimpiazzano quelli resi obsoleti dalla tecnologia o trasferitisi nei Paesi in via di sviluppo.
Ripartire da zero
Basta passare cinque minuti nei corridoi ampi della fabbrica Pfizer per capire di essere nel mezzo di una rivoluzione sociale. Dove un tempo c’erano formule chimiche, camici bianchi e guanti, ora ci sono forni, pezzi di stoffa e persino vegetali idroponici. Gli odori passano dal fragrante aroma dei croissant, all’attacco del kimchi — il pungente sott’olio amato dai coreani — al profumo Chanel delle modelle, magre muse di stilisti ancora sconosciuti.
La metafora è quella del passaggio delle consegne: gli spazi creati per una delle più grandi multinazionali del mondo sono stati invasi da decine e decine di piccole aziende con grandi ambizioni.
Da fotografa a pasticciere
E all’interno di quelli spazi, tante storie. Storie di emigranti come Antonella Zangheri, nata a Rimini, fondatrice della Krumville Bake Shop, una pasticceria artigianale per celiaci. Antonella mi offre uno dei suoi buonissimi biscotti senza glutine e racconta di come è diventata artigiana.
Faceva la fotografa di moda fino a quando non scoprì di essere celiaca: «Tutto d’un tratto, sono stata costretta a comprare pane congelato. Per gente come me, non c’era niente di fresco».
Aveva sempre avuto la passione per la pasticceria ma allora, per la prima volta, pensò che potesse essere un mestiere. Fondò Krumville tre anni fa con i suoi risparmi e un’impiegata.
Per ora, il fatturato è piccolo — 170 mila dollari nel 2014 — ma in crescita. E il lavoro è duro. Antonella, che ha 44 anni ma ne dimostra 30, fa tutte le consegne a bar e pasticcerie di New York da sola, la mattina presto, con la sua macchina. Sembra contenta.
«Quando fai il fotografo — spiega Antonella — non crei nulla, catturi semplicemente un momento. Non è molto creativo».
È interrotta da un bip sul computer, un ordine via internet da Amazon, esempio di come, nel 2015, anche un artigiano si debba appoggiare alla tecnologia. Antonella passa l’ordine alla cuoca — focaccia al rosmarino – e conclude: «In questo mestiere, la gente apprezza quello che fai».
La pasta di Gonzalez
Essere apprezzati, essere in contatto con i clienti, fare qualcosa di creativo e utile, è un refrain che echeggia nel palazzone della Pfizer.
Non si sente quasi mai parlare di soldi, una novità per chi, come me, di solito frequenta finanzieri e scrive di mercati.
Imprenditori come Steve Gonzalez, il patron dello Sfoglini Pasta Shop, i soldi li vogliono fare ma non è quello il motivo per cui si sono messi in proprio.
Steve, americano di origine messicana, ha scoperto la passione per la pasta in un giro peripatetico per le cucine italiane: Gorizia, Bergamo, le isole.
Quando è tornato negli Usa ha deciso di produrre pasta con farina biologica e ingredienti tutti provenienti dallo Stato di New York.
La Sfoglini costa tanto — dai 7 ai 10 dollari al pacco — ma la gente la compra e tra pochi mesi la venderà anche il gigante Eataly.
Steve sembra un ragazzino, più giovane dei suoi 35 anni, con una faccia che non sembra mai aver avuto un pelo di barba, e una bandana rossa in testa. Ma quando parla del suo business, è serissimo.
«Amo la pasta e la volevo fare per bene. Per un pubblico americano, ma per bene», dice mentre guarda con attenzione i suoi impiegati sfornare un enorme vassoio di conchiglie allo zafferano.
La Sfoglini, come quasi tutte le imprese nella fabbrica Pfizer producono prodotti venduti in negozi — «business-to-business» nel gergo finanziario.
Molti dei nuovi artigiani, però, non «creano» nel senso vero della parola ma utilizzano tecnologie moderne per mettere in contatto produttori e consumatori («business-to-consumer», direbbero gli analisti di Wall Street).
«Il Nostro Raccolto»
Michael «Mike» Winik e Scott Reich fanno parte di questo gruppo. I due hanno fondato OurHarvest — Il Nostro Raccolto — una società che vende cibo prodotto da fattorie dello stato di New York.
A vederli, i due 32enni non sembrano tipici artigiani. Amici d’infanzia — «ci siamo conosciuti sullo scuola-bus delle elementari» dice Scott — laureati alla prestigiosa Wharton Business School, avevano scelto carriere «rispettabili: Scott in un grande studio legale e Mike in una banca d’affari.
«Dopo un po’, ci è venuta voglia di fare qualcosa che avesse più senso», ammette Mike mentre andiamo a prendere della merce nelle fattorie di Long Island. «Non volevamo arrivare a 60 anni e dire che avevamo fatto una carriera senza rischi».
E allora hanno preso dei bei rischi. Hanno deciso che se i newyorchesi non andavano più nelle fattorie, la frutta e la verdura gliela avrebbero portata loro. Hanno preso i soldi guadagnati a Wall Street, e hanno aperto «OurHarvest», un mercato «virtuale» dove i consumatori ordinano su Internet, i due amici vanno a prendere la merce e la consegnano in meno di due giorni.
«Più fresco di così, non si può», dice Scott, che certe notti dorme sul divano dei genitori per risparmiare.
«Lavorate moltissimo?» chiedo prima di ricordarmi che come apprendista-avvocato e apprendista-banchiere questi due si sono ammazzati di lavoro nelle loro vite precedenti. Mike capisce e sorride. «È più divertente. Qui vediamo subito l’impatto del nostro lavoro. Gli stimoli cambiano di secondo in secondo».
Osservando questi due giovani ex-rampanti toccare i pomodori e assaggiare le albicocche a Wickham’s Fruit Farm, una fattoria che ha iniziato a coltivare nel 1600, mi chiedo se questo sia solo il primo passo per Scott e Mike. Se vogliano fare «gli imprenditori seriali» stile-Silicon Valley che creano aziende, le vendono per poi crearne altre e così via. Scott scuote la testa. «Se non facciamo errori, non ce ne sarà bisogno», dice, con la fiducia e l’ottimismo che sono proprie di tanti nuovi artigiani. La riscossa delle donne
Il bello di questo nuovo settore è che è molto diverso dalle industrie del passato. Quando Etsy ha chiesto a quattromila venditori di identificarsi, i risultati sono stati sorprendenti: Otto su dieci sono donne, molto di più del 51% della popolazione americana; più della metà ha almeno un diploma universitario (nel resto degli Usa è meno del 30%) e il 40% vive in zone rurali, quasi il doppio della media nazionale.
È un identikit che non si trova in nessun altro mestiere e definisce un gruppo di persone che per decenni è stato ai margini del mercato del lavoro. Anche qui, la tecnologia aiuta.
La forza dei computer di oggi permette a milioni di persone di lavorare da casa, contattare clienti e distributori in maniera veloce ed efficace, fare il proprio marketing, senza tanto sforzo o costo.
È questa la speranza di economisti e politici: attrarre nuove categorie di lavoratori che fino ad ora non avevano contribuito granchè all’economia del Paese. È uno dei pochi obiettivi che unisce sia la democratica Hillary Clinton sia il repubblicano Jeb Bush, i probabili candidati alla Casa Bianca nel 2016.
L’eccezione americana
Ma la domanda, che formuleremo varie volte durante il viaggio, è: si tratta di un modello per altri Paesi o di un’anomalia americana?
L’idea che milioni di persone si possano mettere in proprio e dare il proprio contributo — economico, sociale e fiscale — in maniera non convenzionale, è esportabile o è il prodotto di un milieu e sistema prettamente made in Usa?
Gli imprenditori della Pfizer sono scettici. Olivier Dessyn, lo chef-padrone di Mille-feuille, una mini-catena di pasticcerie, è molto critico del suo Paese natale.
«Non lo avrei mai potuto fare in Francia». Nonostante abbia lavorato alla famosa scuola di cucina del Ritz, nonostante abbia fatto l’apprendistato con il leggendario Camille Lesecq e poi alla pasticceria Pierre Hermè di Parigi, lui è convinto che un dilettante che lavorava nei computer non sarebbe mai stato accettato dall’establishment culinario francese.
«No, no, no, – dice Olivier – devi conoscere qualcuno, lavorare per dieci anni dietro le quinte, fare la gavetta e allora, solo allora, ti permettono di aprire i tuo negozio». E a New York invece? «A New York, è tutta un’altra cosa. Se fai delle buone cose, la gente le compra e ti ama. Punto e basta».
È difficile non amare i croissant e i dolci di Olivier, prodotti tutti a Brooklyn, ma con una vista mozzafiato di Manhattan che ricorda a tutti gli imprenditori perchè sono lì. «Se ce la fai a New York, ce la fai ovunque», dice Olivier, citando, forse inconsciamente, Frank Sinatra.
L’Italia, purtroppo è simile alla Francia, almeno stando a quanto dice Antonella Zangheri. Mi fissa con gli occhi azzurri e racconta come è stato facile aprire un business in America e come è diverso dall’Italia della burocrazia, del governo Azzeccagarbugli e delle pratiche infinite.
Vuole essere speranzosa Antonella e mi dice che quello che fa lei, quello che fanno Olivier e Steve, Mike e Scott potrebbe essere replicato in Europa e in Italia.
Ma poi si ferma e, nel suo inglese perfetto, con l’accento di New York, sussurra: «If it wasn’t so damn difficult».
Se non fosse così maledettamente difficile.
Francesco Guerrera
(da “La Stampa”)
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