Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
NUOVE REGOLE, NUOVE GERARCHIE E NESSUNA RESTAURAZIONE
La notizia arriva sul palco con l’urlo di Beppe Grillo, voce roca che non intacca la potenza scenica: “Ebbene sì, sono rientrato. Avevo fatto un piccolo passo indietro, ma sì, sono rientrato”.
Finalmente, un applauso degno di questo nome sul prato meno pieno, meno entusiasta rispetto al Circo Massimo e Imola, i precedenti meet up. Alle 18, assieme al sole, di fatto, tramonta il direttorio, con le sue faide delle ultime settimane, i suoi rapporti logori e, ormai, umanamente inesistenti.
Grillo rientra, urla, parla, parla ovunque, mette sul palco e nel Movimento il suo carisma e la sua voce fino a perderla, ma non per proporre un ritorno al passato.
Rientra per lanciare la sfida di governo di qui al 2018, e per mettere ordine del Movimento. Nuove regole per andare in TV, nuove gerarchie di fatto. Eccola, quella che chiama “seconda fase”.
In tarda sera già se ne vede l’impostazione. Quando salgono sul palco, in sequenza, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, per esporre la loro “visione del paese”.
Diversamente dagli altri, da Fico a Sibilia ad Airola, confinati in pochi minuti per parlare solo di argomenti specifici, tipo ambiente, informazione, banche ed Equitalia.
Il fondatore, evoca la memoria dell’altro fondatore, Gianroberto Casaleggio e compie col suo linguaggio, almeno ci prova, un’operazione molto classica, anzi da manuale della politica-politica. Si pone come garante dell’unità , come unico capo, ricordando a tutti le origini e i miti fondativi: “Noi – urla sempre più forte – siamo quelli che hanno sperimentato e voglio che voi pensiate a come ci sentivamo dentro! Con i primi vaffanculo, col primo entusiasmo. Era uno spirito straordinario e la seconda generazione che arriva adesso non la sa. Ebbene noi dobbiamo ripristinare quel sentimento lì in quelli che arrivano adesso”.
Difficile non leggere tra le righe gli errori delle ultime settimane (della seconda generazione) come la vicenda di Roma, la frattura profonda nel direttorio, le lotte di potere da partito tradizionale, offuscando la bandiera della “diversità “.
Lontano dal palco, Nicola Morra, esausto dopo una giornata tra i gazebo, sorseggia una birretta: “Beppe è il padre che unisce i suoi figli e ricordando a tutti che si vince come squadra”.
I figli eccoli sul palco ma dopo i Tg dove è comparso solo il fondatore come ai bei tempi. Palco già metafora della riorganizzazione in atto.
Il volto di Di Battista sulla battaglia referendaria, su cui – dopo il tour in moto – ormai ha messo a punto uno spartito collaudato.
Quello di Di Maio sul governo, per interpretare l’alternativa a Renzi. Uno è scamiciato, l’altro l’unico in giacca sul palco.
L’uno più demolitivo, l’altro più propositivo: “Non siamo quelli del no a prescindere, noi stasera iniziamo un percorso per una nuova idea di Italia”.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
LE 100.000 PRESENZE RESTANO UN SOGNO. GRILLO PARLA E STRAPARLA.. IL GIALLO DELLA SCALETTA DEGLI INTERVENTI
Sul prato del Foro italico di Palermo si fa festa per dimenticare le divisioni. 
Gli attivisti 5Stelle lo riempiono abbastanza anche se le 100mila presenze sono un miraggio lontano: “Beh, allo stadio c’è Palermo-Juventus”, osserva uno dei fedelissimi al Movimento.
La partita finisce ma il tutto esaurito alla kermesse non c’è. La scena è comunque di quelle suggestive. C’è il mare che fa da sfondo al palco, ci sono gazebo ovunque, secondo gli organizzatori sono 138, bandiere e striscioni.
Alla terza edizione di Italia 5Stelle c’è spazio per comizi, proposte e idee. Ogni città amministrata dai grillini ha un suo spazio.
La prima giornata della kermesse stenta però a decollare, si scalda solo sul finale.
Il Direttorio non si fa vedere e i militanti arrivano a poco a poco, ma quelli presenti sono i convinti della prima ora, per lo più siciliani: “Andremo al governo, non siamo divisi. Non è vero che nel Direttorio si litiga”.
La voce che si sente tra i gazebo è sempre la stessa. “La Raggi? Diamole il tempo, è ancora giovane. Ha fatto degli errori ma rimedierà “, dice una grillina in maglietta ‘Keep calm and M5S al governo”.
Pochi effetti speciali, Beppe Grillo non sale su una gru come ha fatto due anni fa al Circo Massimo, e neanche arriva a bordo di una mongolfiera come era previsto. Piuttosto da mattina fa avanti e indietro: mercato di Ballarò, Foro Italico, telecamere, palco.
Parla, a volte straparla, a volte dice una cosa per poi dire l’esatto opposto poche ore dopo.
Un esempio? “Gelosie nel Movimento nei confronti Di Maio e Di Battista? Forse sì, ma la tv è immagine e c’è chi funziona e chi no”, osserva il leader. Più tardi sul palco dirà : “Manderemo tutti in tv a parlar di programmi”.
Si vede che nel mezzo c’è chi non l’ha presa bene. Ma nel mezzo della giornata c’è anche il giallo della scaletta della serata.
Sul blog in mattinata appare un elenco di parlamentari, in ordine alfabetico.
Sono tutti coloro che devono intervenire, ma non si conoscono gli argomenti nè in che modalità .
Secondo qualcuno, nel backstage, per tutto il pomeriggio si è discusso su cosa fare. Nel frattempo nelle due agorà , e nei gazebo dei deputati e senatori, e dei parlamentari europei si susseguono i comizi. Parlano in tanti.
Il senatore Airola sfila davanti alle telecamere, Nicola Morra beve una birra e parla con gli attivisti. Ognuno si prende il suo spazio mentre il Direttorio continua ad essere il grande assente. Una scelta strategica per non offuscare, nella prima parte della giornata, chi tra i parlamentari lamenta di non aver abbastanza spazio
Ma poi arriva Alessandro Di Battista, a bordo della sua moto, con altri centauri al seguito, direttamente da Termini Imerese. Le telecamere e gli applausi sono tutti per lui. Luigi Di Maio alle 20 ancora non si è visto, dicono sia nel backstage.
Dibba invece si concede ai cronisti per oltre mezz’ora: “Grillo ha detto che allargherà il Direttorio? Non lo so, non commento ciò che non ho sentito”.
Ma poco prima il leader 5Stelle aveva scaldato la folla, a lungo unico picco di entusiasmo della giornata prima di Di Battista sul palco, dicendo che ormai “è tornato. Ebbene sì. Volevo fare un passo di lato ma in fondo non ci ho mai creduto”.
Poi aggiunge che la prossima settimana farà votare il nuovo regolamento. Gli attivisti applaudono e tirano sul respiro di sollievo per l’exploit di Grillo come capo politico.
In tanti sul palco ricordano il fondatore Gianroberto Casaleggio. C’è il figlio Davide: “Non sono qui per sostituire mio padre. Restiamo uniti per realizzare il nostro sogno”. Grillo aggiunge: “Lo sentivo cinque volte al giorno, è chiaro che mi manca. Ora sono rimasto io e quindi nessun passo di lato. Sono io il capo politico”.
È la garanzia che chiedeva ad esempio Roberto Fico: “Grillo ha detto che c’è al 100%”.
Sul palco il componente del Direttorio lancia poi una frecciatina per buoni intenditori: “Mai più deleghe, mai più leader”. Il Direttorio in effetti è tramontato, ma non in nome dell’uno vale uno. Bensì per dare spazio a Di Maio, il candidato premier in pectore, e a Di Battista, colui che ha girato l’Italia per dire no alla riforma costituzione. il Direttorio nei fatti non esiste più, prima i cinque apparivano insieme e si abbracciavano a favore dei fotografi.
Ora invece interventi separati. Sibilia, Ruocco e Fico parlano al fianco di altri parlamentari e consiglieri, e rimangono nelle retrovie.
Di Battista e Di Maio invece hanno il palco tutto per loro e parlano di governo e di progetti “per i prossimi 15 anni”. Si danno il cambio e si abbracciano.
(da “La Repubblica“)
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Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
POPOLAZIONE ALLO STREMO, SENZA PIU’ CIBO E MEDICINALI… DEDICATO A CHI SOSTIENE CHE I PROFUGHI NON FUGGONO DA GUERRE E STERMINI
YEMEN Sotto assedio e senza cibo, Il dramma di 370mila bimbi
C’è un luogo al mondo da cui la gente vorrebbe fuggire, ora, subito, senza attendere un istante, senza riempire fagotti o valige. Fuggire, salvarsi, non sentire più il rumore delle bombe, afferrare qualcosa da mangiare e offrirlo ai propri figli denutriti. Vorrebbe. Ma non può. Questo luogo si chiama Nord Yemen.
Volete sapere i motivi che li spingerebbero a abbandonare la loro terra diventata maledetta? Manca il cibo, le madri impotenti ascoltano i figli, che hanno gambine sottili come spago, implorare con il lamento infinito, acuto della pietra sfregata contro la pietra. Non si trovano medicine, gli ospedali e le scuole, affollati di pazienti e di bambini, sono sottoposti a bombardamenti feroci che li trasformano in ciotoli di cemento.
Come ad Aleppo in Siria. Sì. Ma da lì almeno si può imboccare la dura, pericolosa strada del profugo. In Yemen no. Perchè un assedio metodico e spietato da terra e dal cielo ha isolato milioni di persone. Impossibile entrare per testimoniare, impossibile fuggire per sopravvivere.
Ad Aleppo hanno diritto, ogni tanto, quando una immagine ci sottrae alla comoda scusa del non sapere, hanno diritto a un po’ di attenzione.
Chi parla dello Yemen se non gli eroici samaritani di Medici senza Frontiere e di Save the Children?
Questi ultimi hanno diffuso un rapporto agghiacciante, dice che 1,5 milioni di bimbi sono malnutriti, e che 370 mila stanno addirittura peggio, sono alla fame.
Privi di cibo, e medicinali, il loro sistema immunitario è ormai segnato.
C’è qualche governo occidentale che ha il coraggio, politico e umano, di adottare i bambini di Sanaa?
Eppure sappiamo nomi e cognomi di chi li bombarda e li affama, le testimonianze arrivano da testimoni imparziali e incontestabili.
Il crimine qui ha un volto e una storia. Invece andiamo, umili, in pellegrinaggio dagli assassini, stringiamo loro le mani, compriamo il loro petrolio.
Gli ospedali li inviamo, semmai, in luoghi dove un confuso canagliume si contende il bottino petrolifero.
Da un lato una ribellione zaydita, una confessione della eresia sciita, con antiche velleità secessioniste e alle spalle l’Iran, dall’altra i sauditi, capofila dell’ortodossia sunnita.
Una guerra che con andamento di epidemia, di alluvione scuote le fondamenta dell’Islam. In mezzo un popolo in ostaggio.
Non c’è niente da aggiungere per capire questo dramma, ogni distinguo è un servizio reso agli assassini. Al Qaeda, l’internazionale terrorista, è presente, anche qui, e attivissima nel caos. Ma non è alleata con gli sciiti di Sanaa.
Tutti possiamo immaginare la guerra, questa guerra, non c’è niente di misterioso nel denominatore comune della sofferenza.
La guerra accade alle persone, alle singole persone. L’azione si basa sulla fame, sulla mancanza di un tetto, sulla paura, il dolore e la morte. I bambini agonizzanti e denutriti di Guernica e di Sanaa sono gli stessi, la gente rannicchiata che ascolta le bombe che ti fischiano incontro a una velocità inimmaginabile, come se tu fossi il bersaglio, e sembra che piangano fino a quando diventano un urlo vicinissimo e poi un tuono di granito, sono un unico popolo di tutto il mondo. La guerra è una orribile ripetizione.
C’è un luogo al mondo in cui sperimentiamo ogni giorno che realtà politica e moralità politica non hanno nulla in comune.
Perchè gli aerei che bombardano, gli uomini che stringono i bulloni di questo assedio spietato di un popolo intero hanno contrassegni divise e nome: è l’esercito della Arabia Saudita e di suoi nove alleati-clienti, dagli Emirati al Qatar, le monarchie del petrolio.
Il silenzio volontario con cui l’Occidente avvolge il massacro lo conosciamo bene: è la realpolitik con cui gli Stati Uniti e l’Europa rendono omaggio ai signori del petrolio, a questi «ottimi alleati» seminatori di spietate sharie, finanziatori, da quaranta anni, di tutti i fanatismi islamisti, fino al sanguinario califfato nella Terra tra i due fiumi.
Sulla pelle degli yemeniti la giovane generazione dei corrotti dinasti di Riad, Mohamed Ibn Salman, figlio del re e ministro della Difesa, e Mohamed Ibn Nayef, potente ministro degli Interni, fanno le prove di governo, ossessionati dal rischio di accerchiamento sciita. Pericolosa temerarietà quella di piegare gente fiera e bellicosa, capace di ingolfare in queste ambe massicce anche gli eserciti più lussuosi e moderni.
Nello Yemen del Nord, un luogo pieno di palpiti e di ombre, non è difficile scegliere con chi schierarsi. Non resta altro da fare che allearsi, con il cuore e con la mente, agli innocenti, i vari sconosciuti che pagano per quel conflitto con tutto ciò che di amato hanno da perdere.
Domenico Quirico
SIRIA Nell’inferno di Aleppo bevono l’acqua infetta
Il bimbo di un paio d’anni al massimo, estratto con la forza delle mani e della caparbietà dalle macerie, tutto bianco per i calcinacci, è l’immagine della speranza, perchè, nonostante tutto, è vivo.
Ma molti altri sono morti e altre foto mostrano una mamma sepolta dal soffitto crollato assieme ai due figli, il profilo scolpito dalla polvere e il sangue.
La guerra ad Aleppo è tornata a essere la guerra dei bambini. Uccisi dalle bombe, affamati e ora anche costretti a bere acqua infetta, dopo che gli acquedotti sono stati danneggiati dai raid, terribili, di venerdì, o sabotati per vendetta dagli insorti per tagliare le forniture anche alla parte occidentale della città in mano ai governativi.
La battaglia finale è entrata nella fase cruciale, con la prima avanzata delle truppe di Assad che stringono i quartieri ribelli in una tenaglia.
Dopo il convoglio umanitario distrutto lunedì scorso in un raid di cui nessuno vuole prendersi la responsabilità , ora è la volta dei beni primari, vitali. Una guerra totale dove i civili sono solo un ostacolo, o uno scudo, e non c’è pietà per nessuno.
I bambini che vivono ad Aleppo Est, come quelli di Aleppo Ovest, sono le prime vittime. E a due mesi dell’ultima grande battaglia, a luglio, tornano a essere senza elettricità e acqua corrente.
«Da metà luglio la situazione è insostenibile — denuncia Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef -. Ad Aleppo Est non entra più nulla.
Nel convoglio distrutto lunedì c’erano prodotti per l’igiene, pasticche per la potabilizzazione dell’acqua, integratori alimentari, vitamine, kit salvavita. Dovevano servire a 78 mila abitanti in condizioni estreme. Tutto distrutto.
Nei quartieri orientali ci sono centomila bambini in pericolo. I casi di malnutrizione, diarrea, stanno esplodendo». Alcuni bevono dalla pozzanghere. Se in passato i tecnici dell’Onu erano stati fatti passare per riparare gli acquedotti ora «neanche loro possono entrare, siamo molto preoccupati».
La situazione è migliore a Ovest, dove comunque «ci sono 35 mila minori sfollati, in condizioni difficili». Gli attacchi di giovedì notte e venerdì sono stati devastanti.
Hanno danneggiato la centrale di pompaggio dell’acqua di Bab al-Nayrab che fornisce acqua alle 300 mila persone intrappolate nella parte orientale della città . Per ritorsione, la centrale di Suleiman al-Halabi, che si trova ad Est, è stata bloccata dai ribelli e così anche un milione e mezzo di civili nella parte occidentale della città sono senz’acqua.
Per Kieran Dwyer, rappresentante dell’Unicef in Siria, gli esiti possono essere «catastrofici». Anche perchè i raid sono continuati anche ieri e il soccorso umanitario «è diventato impossibile». Ieri le vittime sono state almeno 56, dice l’Osservatorio siriano per i diritti umani.
Dalla fine della tregua, secondo gli Elmetti bianchi, i volontari vicini ai ribelli, i bombardamenti sono costati la vita a 323 civili. «Nuove armi russe sono state usate per la prima volta – denunciano – puntate su donne, bambini, le case dei civili, scuole, moschee, chiese e ospedali».
L’opposizione in esilio ha chiesto all’Onu una «nuova strategia per la protezione dei civili: le tregue non servono più».
Ma Damasco va avanti, sente la vittoria vicina. Ieri truppe governative hanno cominciato le prime operazioni di terra, hanno occupato la zona residenziale di Al-Hamdaniyah, a Sud della zona ribelle, e l’ex campo profughi di Handarat, a Nord.
E il ministro degli Esteri Walid al-Moualem, all’assemblea Generale dell’Onu, ha parlato di «grandi successi grazie agli amici veri», i russi.
Giordano Stabile
NIGERIA Ragazzini e donne usati come kamikaze dai Boko Haram
Attentati, suicidi, saccheggi, sequestri di massa. Dal 2009 la Nigeria è insanguinata dalla ferocia dei fondamentalisti di Boko Haram.
Almeno 20.000 le persone uccise in sette anni e due milioni e mezzo i civili costretti a fuggire in altre zone del Paese e negli Stati limitrofi: Niger, Chad e Camerun.
A pagare il prezzo più alto della violenza jihadista sono donne e bambini. Il caso delle 219 studentesse rapite nel 2014 ha suscitato sdegno internazionale, ma altrettanto scioccanti sono i dati sui minori usati per seminare morte.
Dal 2014, il totale degli attentati kamikaze compiuti impiegando bambini è di ben 86: un quarto del totale. E nell’ultimo report l’Unicef denuncia che nello Stato di Borno, roccaforte dei terroristi, 244.000 bambini sono in grave stato di malnutrizione: un drastico peggioramento rispetto ai 175.000 che si registravano a inizio 2016.
Lidia Catalano
CENTRAFRICA Gli scontri etnici spingono 10mila minori a fare i guerriglieri
Metà della popolazione della Repubblica Centrafricana è ridotta alla fame. La Fao denuncia che circa 2,5 milioni di persone non hanno accesso a mezzi di sostentamento, una cifra più che raddoppiata nell’ultimo anni.
Il conflitto esploso nel 2013 tra i ribelli musulmani del Saleka e i cristiani ha stremato il Paese e a farne le spese sono soprattutto i bambini: senza cibo, acqua, educazione, cure mediche.
L’alternativa è spesso imbracciare un kalashnikov ed entrare nel sempre più vasto esercito di bimbi soldato, che secondo le stime dell’Unicef ha superato le 10mila unità .
Dopo un periodo di relativa quiete seguito all’elezione a febbraio del presidente Touadera, da luglio il Paese è ripiombato in una spirale di violenza. Gli sfollati sono oltre un milione e nell’ultimo report l’Onu parla di «situazione inquietante» e di «pericolosa instabilità ».
Lidia Catalano
SUD SUDAN Nel Paese più giovane oltre quattro milioni non hanno da mangiare
È lo Stato più giovane del mondo – nato cinque anni fa con la dichiarazione d’indipendenza dal Sudan – ma la sua infanzia è tutt’altro che serena.
In Sud Sudan il conflitto interetnico tra le truppe del presidente Salva Kiir (etnia Dinka) e i ribelli del vicepresidente deposto Riek Machar (etnia Nuer) si protrae senza tregua dal dicembre 2013 e ha già lasciato sul terreno oltre 10.000 vittime.
I violenti scontri dell’8 e 9 luglio nella capitale Juba hanno aggravato a dismisura la crisi alimentare nel Paese, costringendo decine di migliaia di civili a lasciare le proprie abitazioni per cercare rifugio nel confinante Uganda.
A quasi tre anni dall’inizio della guerra civile gli sfollati sono quasi due milioni.
L’Unhcr denuncia che la pressione sui confini ugandesi si sta facendo sempre più forte e i centri di accoglienza sono al collasso, mentre nel Paese più di 4 milioni di persone «fanno la fame».
Lidia Catalano
(da “La Stampa”)
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Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
MA LA DISOCCUPAZIONE E’ SOLO AL 3,1% E LE LEGGI SUL LAVORO SONO DI COMPETENZA DEL GOVERNO
Sono attesi nel pomeriggio i risultati del referendum con il quale il Canton Ticino chiede di limitare
l’accesso degli italiani al mercato del lavoro svizzero.
«Prima i nostri» è l’eloquente titolo della consultazione promossa dalla destra nazionalista dell’Udc e dalla Lega dei Ticinesi.
Il responso delle urne non dovrebbe riservare sorprese, anche sulla scorta di votazioni analoghe nel recente passato: prevarranno i sì, anche se gli effetti pratici sono tutti da vedere.
Leggi sul lavoro
In Svizzera, infatti, le leggi in materia di lavoro sono di competenza del governo centrale, non dei Cantoni; dunque dal Ticino partirà al massimo un messaggio di natura politica rivolto a Berna.
Qui in settimana, tra l’altro, è stato votato un provvedimento piuttosto vago che prova a concedere una corsia preferenziale ai cittadini elvetici nell’assegnazione dei posti di lavoro, senza tuttavia suscitare le ire della Ue, con la quale gli elvetici hanno sottoscritto un accordo di libera circolazione.
L’altro fattore che svuota di senso il referendum sono i dati economici: anche ad agosto il tasso di disoccupazione in Ticino si è attestato al 3,1%; dunque che gli italiani «rubino il lavoro» ai residenti appare una tesi non facile da sostenere.
Come quella che gli immigrati nel nostro Paese rubino il posto agli Italiani, sostenuta dagli stessi leghisti nostrani.
(da agenzie)
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Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
UN LIBERISTA NON SARA’ MAI D’ACCORDO, UN LIBERALE SI’
Diversi autori, fra i quali Nicola Porro con il suo ultimo libro difendono l’aumento della differenza di ricchezza Ma la vera questione riguarda le pari condizioni di partenza
Il liberismo è sotto schiaffo. Padre legittimo della globalizzazione, deve rispondere delle sue promesse mancate, dei suoi disastri annunciati.
La crisi economica, che infuria dal 2008. La crisi migratoria. La crisi identitaria, che alimenta populismi e terrorismi. La crisi degli Stati, antiche sentinelle dei diritti. E la diseguaglianza, sorgente e motore di tutte queste crisi globali
Perchè il mondo non è mai stato così profondamente diseguale come adesso, all’alba del terzo millennio.
Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del nostro pianeta c’era uno scarto di 3 a 1; nel 2006 il divario è diventato 90 a 1.
Nel frattempo lo Stato più ricco (il Qatar) surclassa di 428 volte il più povero (lo Zimbabwe).
In Europa, in Australia, in Giappone la vita dura il doppio rispetto a chi ha avuto la disgrazia di nascere in Nigeria.
E l’1% della popolazione mondiale possiede più risorse del 99% rimanente (Oxfam 2016).
Tuttavia l’imputato si difende, anzi passa al contrattacco. Ne è prova una nutrita pubblicistica che negli ultimi tempi tracima in libreria, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico.
Eccone infatti qualche esempio, circoscritto agli italiani o agli autori tradotti in italiano. Idee di libertà , a cura di Iannello e Infantino (Rubbettino, 2015), contro i «luoghi comuni» che accusano la globalizzazione.
Sulla disuguaglianza di Frankfurt (Guanda, 2015), filosofo americano: i governi dovrebbero combattere la povertà , non le differenze di reddito fra i propri cittadini.
Il volume di Butler, La scuola austriaca di economia (Istituto Bruno Leoni, 2014), dove si magnificano le idee dei suoi esponenti principali, da Menger a Rothbard.
La Storia del pensiero liberale di Bedeschi (Rubbettino, 2015), secondo cui il liberalismo è la quintessenza della democrazia.
Il libello di Mingardi, L’invenzione del neoliberismo (in Nuova storia contemporanea, 2016), che si scaglia senza mezzi termini contro la «leggenda nera», contro la vulgata che imputa ogni male del mondo alle politiche neoliberiste inaugurate da Reagan e Thatcher.
In ultimo, dal 15 settembre i lettori possono disporre d’una summa di tutte queste posizioni: La disuguaglianza fa bene, libro scritto da Nicola Porro per i tipi della Nave di Teseo.
Il titolo è eloquente, l’autore pure. Senza mai cadere nell’epiteto volgare, Porro espone la sua verve polemica in pagine puntute e spesso appassionate. Contesta che la diseguaglianza sia cresciuta, che la globalizzazione abbia affamato interi popoli («lo sviluppo economico negli ultimi trent’anni ha prodotto più benessere di quanto ne sia stato creato negli ultimi cinque secoli»).
Denuncia la perdurante invadenza dello Stato, specie attraverso il suo sistema di «polizia fiscale». Auspica la flat tax (un’aliquota bassa e uguale per tutti, intorno al 20%), che a suo tempo già propose Milton Friedman.
E in conclusione rilancia la sentenza di von Hayek: se i governi livellassero le disparità sociali, se intervenissero per colmare qualsiasi differenza tra una persona e l’altra, allora finirebbero per pianificare le nostre stesse vite, trasformando lo Stato in «un incubo»
Sennonchè l’eguaglianza è questione di misure, di grandezze.
Troppa eguaglianza significa nessuna libertà , significa un egualitarismo alla cinese, quando il presidente Mao imponeva a tutti lo stesso stipendio, lo stesso appartamento, la stessa casacca verde. Troppo poca implica, di nuovo, una schiavitù di fatto, l’asservimento del più debole al più forte.
Oltre a minacciare la crescita economica, che sta a cuore a tutti, non solo ai liberali doc.
Come mostra un’indagine sui Paesi europei (Eurostat 2012), gli Stati più egualitari nel 2005 hanno raggiunto le performance migliori nel 2010, incrementando sia il Pil sia l’occupazione.
E infatti al G20 tenuto ai primi di settembre in Cina, i leader del mondo hanno usato una parola sola: ridurre le diseguaglianze, altrimenti l’economia continuerà la sua corsa verso il peggio.
Ma per riuscirci occorrerà più Stato, non meno Stato.
Servirà un’azione correttiva rispetto alle storture del mercato globale, recuperando la lezione di Adriano Olivetti, secondo cui nessun manager dovrebbe guadagnare 10 volte in più rispetto ai propri dipendenti (oggi il rapporto, in Europa così come negli Usa, è di 500 a 1)
E bisognerà infine dare corpo e gambe al principio custodito nell’articolo 3 della nostra Costituzione: l’eguaglianza sostanziale fra gli individui e i gruppi, rimuovendo gli «ostacoli» che ne intralciano il cammino.
È questa l’eguaglianza più desiderabile, quella nei punti di partenza.
L’eguale libertà di diventare diseguali, però partendo eguali.
Un liberista non sarà d’accordo. Un liberale, sì.
Michele Ainis
costituzionalista
(da “La Repubblica“)
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