Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
ASPETTATEVI DI TUTTO, IL CIRCO BARNUM DEVE ANCORA INIZIARE LO SPETTACOLO
Intervistata da La Stampa, Giorgia Meloni spiega che da tempo lavora al programma
di Fratelli d’Italia, mentre in quello comune ci si dovrà concentrare su quello che si può fare: «Meglio mettere una cosa in meno, che una in più che non si può realizzare».
Sui ministri nessun totonomi, ma se si andasse al governo «si dovrebbe prendere tutto il meglio». Mentre su Palazzo Chigi ufficialmente nessun dubbio: «Questa regola ha sempre funzionato: chi vince governa. Non abbiamo nemmeno il tempo di cambiarla».
E sul famoso discorso al comizio di Vox, «cambierei il tono, non il contenuto, perché quelle sono cose che ho detto molte volte. Quando dici cose decise vanno dette con un altro tono». E questo perché «quando mi sono rivista non mi sono piaciuta. Quando io sono molto stanca, mi capita di non riuscire a modulare un tono appassionato che non sia aggressivo».
L’inghippo della regola e della coalizione
Ma intanto proprio un retroscena de La Stampa a firma di Alessandro Di Matteo dice che su chi andrà a Palazzo Chigi le cose appaiono più complicate, come spiega un parlamentare berlusconiano.
«Del candidato premier parleremo più in là, adesso concentriamoci sulla costruzione della coalizione. Perché dovremmo regalare al Pd la possibilità di fare campagna elettorale contro la “fascista” Meloni? È chiaro che loro useranno questi argomenti…».
Per questo, semmai, la candidatura di Meloni a Palazzo Chigi verrà formalizzata dopo il voto. Ma tra i dubbiosi c’è anche la Lega: un deputato del Carroccio spiega che spetterà a chi prende più voti indicare «il nome o una rosa di nomi».
Perché quello di Giorgia, è il ragionamento, potrebbe provocare una brutta reazione sui mercati e nelle cancellerie straniere. Potrebbe quindi indicare lei il premier che garantirà una navigazione tranquilla al nuovo governo. Infine, c’è anche un’ipotesi che la porterebbe invece lontano dalla premiership: la stessa regola dice che indica il premier chi prende la maggioranza dei voti della coalizione. E se Forza Italia e Lega si presentano insieme, la somma dei voti potrebbe superare quella di Fdi. Con tutte le conseguenze del caso.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
IL PREMIER SI È CONVINTO CHE NON SAREBBE SERVITO A NULLA “UN APPROCCIO PIÙ MELLIFLUO” NEL DISCORSO AL SENATO, “PERCHÉ TUTTO ERA STATO DECISO”… I GRILLINI “NON VOLEVANO RICUCIRE” E SALVINI, CHE SI VEDE A CENA CON L’AMBASCIATORE RUSSO E SENTIVA “LA PORTA SPALANCATA” DELLE URNE, AVEVA GIÀ STRETTO L’ACCORDO CON BERLUSCONI”
«Le cose andavano bene e bisognava farle andare male». L’altro ieri, per commentare la fine del governo, Draghi si è ispirato alle leggi di Murphy e le ha adattate alla sua indole romana. Così, con una battuta, ha smontato la tesi in voga nel Palazzo: l’idea che la crisi sia stata frutto di un divorzio consensuale tra il premier e le forze della maggioranza, che avrebbero tacitamente convenuto di non poter più andare avanti perché l’agenda Draghi non coincideva con l’agenda elettorale dei partiti.
Il presidente del Consiglio – che la crisi l’ha vista da vicino – sostiene invece si sia trattato di un «divorzio unilaterale», deciso dal centrodestra dopo l’«ingenuità» dei Cinque Stelle.
Salvini e Berlusconi (la cui ricostruzione degli eventi avrebbe suscitato «stupore» al Quirinale) hanno subito sfruttato l’occasione offerta da Conte. Altrimenti non avrebbero rotto, timorosi com’ erano della reazione del loro elettorato. È l’imperizia del Movimento, insomma, ad aver compromesso irrimediabilmente l’equilibrio.
E sempre da lì parte ogni qualvolta ripercorre la fine delle larghe intese. E rivede l’atteggiamento sempre più conflittuale del leader della Lega che nemmeno rispondeva alle telefonate, il gioco a specchio del Cavaliere, certe reazioni stizzite di una parte del mondo accademico geloso dei risultati del suo gabinetto.ù
LA SCELTA DEL MOVIMENTO
Senza la «sciocchezza» del Movimento resta convinto che avrebbe proseguito, anche nelle difficoltà prodotte dai partiti che – avvicinandosi la scadenza elettorale – ogni giorno avanzavano nuove richieste. «Siete dei rompiscatole», diceva Draghi al termine delle telefonate: «Tanto lo so che domani vi inventerete un’altra cosa». Sarà stato forse un eccesso di razionalizzazione dei processi, ma era persuaso che la maggioranza gli avrebbe fatto completare il programma e gestire le rogne: dalla Finanziaria al rigassificatore di Piombino, contro cui hanno protestato tutti i partiti della coalizione, insieme al sindaco della città che è di Fratelli d’Italia.
È dopo «l’errore di Conte» che ha cambiato idea. Perciò era salito al Quirinale per rassegnare il mandato: «Ma Mattarella – disse ai suoi collaboratori – mi ha chiesto di andare in Parlamento e io ci vado». Le cinque giornate di Draghi, vissute tra le dimissioni e il dibattito al Senato, sono state la testimonianza che non c’era più nulla da fare. «In quella fase – raccontano a Palazzo Chigi – era un susseguirsi continuo di telefonate con il capo dello Stato: cinque, sei, sette… A un certo punto abbiamo perso il conto».
In Draghi il «tentativo genuino» di provare a rimettere insieme i cocci della maggioranza si scontrava con la percezione che mancasse la volontà dei partiti di collaborare. E che questo fosse «l’epilogo naturale delle elezioni del 2018». Dopo il definitivo commiato dall’incarico, il premier ha ricostruito la sequenza degli eventi e si è convinto che non sarebbe servito a nulla «un approccio più mellifluo» nel discorso al Senato, «perché tutto era stato deciso». I grillini «non volevano ricucire» e Salvini – che vedeva «la porta spalancata» delle urne – aveva già stretto l’accordo con Berlusconi.
Ne ebbe la certezza la sera in cui ricevette a Palazzo Chigi la delegazione del centrodestra, che protestò perché in mattinata Draghi aveva incontrato il segretario del Pd.
«Letta aveva chiesto di vedermi», rispose il premier: «Allora gli ho detto di venire qui. Sarà stato un errore ma…». «Mario», lo interruppe Tajani: «Nessuno di noi ha mai messo in dubbio la tua malafede». E dopo quel lapsus freudiano, iniziò una lunga sequenza di richieste per dar vita a un nuovo governo e andare al voto a marzo. «Fosse per me anche a febbraio», spiegò il capo del governo: «Ma questa decisione spetta a Mattarella, non posso stabilirla io».
Il profilo super-partes Tutti sapevano che Draghi non avrebbe mai accettato di guidare un Draghi-bis, né nella versione proposta dal centrodestra né nella versione poi auspicata dal centrosinistra. Il motivo è chiaro, e non è legato solo al fatto che questo nuovo esecutivo non sarebbe durato «nemmeno un giorno». Il punto è che l’ex capo della Bce, dicendo sì, avrebbe perso il suo profilo super-partes. E non intendeva consegnarsi al gioco dei partiti, nemmeno indirettamente.
Infatti quando alcuni esponenti politici nei giorni scorsi gli hanno chiesto di poter usare il suo nome per la loro lista, il premier li ha dispensati con una battuta, prima di chiedere di «lasciarmi fuori»: «Basta con la politica. Ho altre idee per me in futuro».
Eppure quando entrò al Senato per il suo ultimo intervento, avrebbe proseguito «se i partiti avessero preso coscienza degli errori». Certo, «aveva le tasche piene» dell’andazzo, «ma non ero stanco» come ha sostenuto il Cavaliere. E non voleva i «pieni poteri», anche se «quella frase sugli italiani che ho pronunciato in Aula potevamo migliorarla», ha detto poi ai collaboratori. Ma la richiesta di restare a Palazzo Chigi giunta dal Paese, l’aveva condivisa.
Quanto le parole dei suoi familiari che – dopo aver inizialmente accolto con sollievo le sue dimissioni – gli avevano intimato: «Non puoi star fermo».
Quel discorso a Palazzo Madama parve però a tutto l’emiciclo un’entrata a gamba tesa sulla politica, come se il premier cercasse di farsi «espellere». Nelle intenzioni di Draghi era invece l’unico modo per dire le cose come stavano: «Bisogna ricominciare a trivellare per estrarre il gas. E Piombino, i balneari, i tassisti…». E infine il passaggio su Putin, che non poteva esimersi dal fare e che sapeva avrebbe fatto imbestialire Salvini, intento ancora a coltivare stretti rapporti con l’ambasciatore russo, con cui si vede a cena.
I RAPPORTI RUVIDI
È finita com’ è finita. Ma dopo le cinque giornate, Draghi ha potuto constatare com’ erano cambiati nel tempo i rapporti in seno al Consiglio dei ministri, anche con le persone con cui nell’anno e mezzo di governo aveva avuto «rapporti ruvidi» e che però nell’ultima fase si erano mostrati «collaborativi».
Per esempio Franceschini. I loro duelli in seno al governo sono noti, ma il premier riconosce che il ministro della Cultura si è «adoperato per ricucire» ed evitare la crisi. Quando arrivò a Palazzo Chigi non si capacitava del fatto che i media venissero a sapere quasi in tempo reale di quanto accadeva durante le riunioni. Tanto che un giorno avvisò i ministri: «Non costringetemi a farvi lasciare i cellulari fuori dal salone».
Ora che sta per congedarsi farà «il possibile» per garantire la transizione con il prossimo esecutivo sui temi in agenda: dal Pnrr alla contabilità di Stato. E non vede scossoni a livello internazionale per l’Italia.
È vero, dai partner occidentali sono arrivati molti appelli pubblici e molte telefonate private perché non mollasse. Ha gestito tutto direttamente, con il suo cellulare, senza mai passare attraverso i canali diplomatici. E quando gli hanno chiesto se anche Biden l’avesse chiamato, ha tergiversato un attimo prima di rispondere «no».
Le cinque giornate sono state molto dure. In quella fase è parso taciturno e guardingo anche con le persone dello staff: «D’altronde – sussurrano a Palazzo Chigi – era la prima volta nella sua lunga esperienza che si trovava con tante persone intorno. Nemmeno alla Bce».
Così si viene a sapere che a Francoforte circolava una definizione sul suo conto: «Draghi è ovunque ma non è qui». Il premier non ne era (ovviamente) al corrente, ma l’ha trovata simile a quella che fece un suo amico negli anni della giovinezza: «Mario è altrove, impegnato».
Le idee per il futuro Adesso sono tornate le battute e si concede a discutere di politica leggendo i sondaggi, che prevedono un risultato elettorale chiaro e che però fanno anche trasparire un desiderio di centro nella pubblica opinione. Perciò si informa sulle dinamiche dei partiti e sui processi di aggregazione che dovrebbero verificarsi in vista del voto. È un modo per prepararsi al distacco, in attesa delle «idee che ho per il mio futuro». E che non prevedono alcun tipo di coinvolgimento nella sfida delle urne.
Semmai è rammaricato per non aver completato la missione, perché – per esempio – sulla politica energetica, dopo essersi speso per garantire un progressivo distacco dalla dipendenza russa, teme che a novembre non parta il rigassificatore di Piombino. Un vero chiodo fisso.
Al pari della Roma. L’acquisto di Dybala l’ha galvanizzato, il fantasista argentino gli piace tanto. E il fatto che abbia segnato il primo gol della squadra in allenamento è per lui una sorta di premonizione. Ma è Mourinho l’uomo che «ha cambiato tutto».
Dopo la vittoria della Conference league, Draghi sostenne che il tecnico portoghese avesse «trasformato un gruppo di abili giocolieri in una squadra». Non c’era alcun riferimento alle vicende politiche.
Francesco Verderami
(da il “Corriere della Sera”)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
CORRETTEZZA VORREBBE CHE INDICASSE DOVE INTENDE PRENDERE I QUATTRINI… SE LI CERCASSE TRA GLI EVASORI FISCALI SAREMMO ANCHE D’ACCORDO, PECCATO CHE SIANO QUELLI CHE LUI E SALVINI VOGLIONO PREMIARE CON I CONDONI
Nessuno può dire che Silvio Berlusconi non sia una persona costante. Il Cavaliere,
entrato da ieri in mood campagna elettorale, ha fatto sapere che il centrodestra ha già pronti i ministri del prossimo governo e che vuole piantare un milione di alberi a settimana.
Ma soprattutto, ha rispolverato un evergreen delle sue corse alle urne. Ha infatti (ri)proposto «l’aumento di tutte le pensioni ad almeno 1.000 euro al mese», tredicesima inclusa, così come «la pensione alle nostre mamme che sono le persone che hanno lavorato di più alla sera, al sabato, alla domenica, nei periodi delle ferie e che hanno diritto di avere una vecchiaia serena e dignitosa». E, come diceva Rossini, nella sua proposta c’è del bello e c’è del nuovo. Solo che quel che è nuovo non è bello e quel che è bello non è nuovo.
Un cavallo di battaglia
Cominciamo con quello che non è nuovo. Già nel 2001 Berlusconi aveva proposto di alzare le pensioni minime. All’epoca l’importo da raggiungere, secondo il leader di Forza Italia, era di un milione di lire tondo tondo.
Con l’entrata in vigore dell’euro Silvio non ha lasciato, ma raddoppiato. Tanto che la proposta è entrata a pieno titolo nel programma elettorale di Forza Italia. Quello delle elezioni del 25 settembre 2022? No. In quello del 2018.
Come spiegò all’epoca il Cavaliere su Twitter, «avevo alzato a 1 milione di lire le pensioni minime a 1.835.000 pensionati. Poi è arrivato l’euro e con quel cambio sbagliato ha dimezzato il potere di acquisto dei pensionati e degli italiani».
La stessa promessa la fece all’epoca delle elezioni amministrative, nel 2017: «Oggi nessuno anziano può vivere con una pensione minima di 500 euro: oggi è doveroso e indispensabile aumentare almeno a mille euro i minimi pensionistici. Nessun anziano deve essere escluso da questa misura, comprese le nostre mamme che hanno lavorato tutti i giorni a casa e che devono poter avere vecchiaia dignitoso». E poi nel 2019: «Una delle cose che faremo noi col prossimo governo è aumentare a 1000 euro, per tredici mensilità, le pensioni minime».
Quanto ci costa?
E ora veniamo a quello che non è bello. L’agenzia di stampa Askanews ricorda come è finita la promessa elettorale del 2001. L’innalzamento delle pensioni minime a un milione di lire portò una spesa aggiuntiva di due miliardi di euro per le casse dello Stato.
La platea di beneficiari alla fine si ridusse a 1,8 milioni di pensionati rispetto a una platea potenziale di 6 milioni.
E questo perché l’innalzamento fu subordinato a una serie di criteri. Il primo era che il beneficiario dovesse avere più di 70 anni. Poi che avesse un reddito personale non superiore a 6.714 euro l’anno. Nel caso di coniugi l’asticella fu fissata a circa 11 mila euro totali. Ma soprattutto, Askanews ha calcolato quanto sarebbe costato l’intervento. Le pensioni fino a 500 euro ammontano a 1,7 milioni. Sono 4,1 milioni quelle tra 500 e mille euro. L’assegno a mille per tutti costerebbe quindi 10,8 miliardi. Con gli assegni sociali si sommano altri 6 miliardi. L’innalzamento per l’invalidità totale invece costerebbe altri 3,4 miliardi.
Per le casse dello Stato si spenderebbero quindi all’incirca 18 miliardi di euro. Quel che non è bello è non dire con quali coperture si reperirebbero questi soldi.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
IL FUTURO CANDIDATO DELLA MELONI A MINISTRO DELLA GIUSTIZIA ORA SI ACCORGE DELLE INTERFERENZE RUSSE SULLA CRISI ITALIANA
Influenze russe sulla caduta del governo Draghi? A rilanciare l’ipotesi di un intervento di Mosca sulle vicende politiche nazionali è il magistrato Carlo Nordio, candidato di Fratelli d’Italia alla presidenza della Repubblica.
Colui che viene già tirato in ballo da alcuni come potenziale ministro della Giustizia in un governo a guida di Giorgia Meloni, va duro contro gli alleati di Giorgia Meloni: «Sono rimasto inorridito dalle parole di Berlusconi e Salvini che rappresentavano una sorta di endorsement a Putin. L’aggressione russa all’Ucraina è folle, criminale e ingiustificata, e sarebbe inammissibile un governo che non sostenesse, in politica estera, la linea di Draghi, ovvero un sostegno all’Ucraina senza se e senza ma».
Nordio specifica che non ci sono prove, ma ha parlato di «coincidenze che sono diventate indizi gravi, precisi e concordanti».
A fare eco alle parole del magistrato arriva il presidente del Copasir, Adolfo Urso, che nel corso del convegno UpLodi, ha precisato: «Qualora dovesse affermarsi quella che è la prima forza politica del paese secondo i sondaggi se i russi devono temere qualcosa, quelli siamo innanzitutto noi. Fdi – ha spiegato – è stata la forza politica che con più determinazione ha affermato che l’Italia dovesse schierarsi con i partner europei e atlantici, con il popolo ucraino e contro la Russia».
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SALVINI CHE NON RISPONDE AL TELEFONO E IL LAPSUS DI UN ESPONENTE DEL CENTRODESTRA
La caduta del governo Draghi è frutto di un «divorzio unilaterale». In cui il
centrodestra (ovvero: Salvini e Berlusconi) ha sfruttato l’occasione offerta da Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle. Per anticipare la corsa alle urne a cui puntava dall’inizio.
Questo pensa Mario Draghi sulle sue dimissioni secondo un retroscena del Corriere della Sera. In cui si riepilogano le tante difficoltà degli ultimi mesi, con il leader della Lega accusato di non rispondere nemmeno alle telefonate e il Cavaliere pronto a giocare a specchio. «Siete dei rompiscatole», diceva Draghi al termine dei colloqui con alcuni settori della maggioranza: «Tanto lo so che domani vi inventerete un’altra cosa».
Per questo, spiega SuperMario, non sarebbe servito a nulla un atteggiamento più accomodante in Senato. «Perché tutto era stato già deciso», conclude il premier in carica ormai solo per gli “affari correnti“.
La ricostruzione del premier
Anche ieri Draghi aveva fatto trapelare alcune delle sue verità sulle dimissioni. In una serie di retroscena circolati dopo l’intervista in cui Berlusconi lo definiva «stanco» aveva fatto sapere di sentirsi «mandato via». Il che è un modo elegante per dire “cacciato“. Il presidente del Consiglio ha fatto anche trapelare la sua «irritazione» per come sono andate le cose. Dicendosi convinto che l’offerta del centrodestra di un nuovo governo senza M5s fosse una trappola. E che il nuovo esecutivo sarebbe durato «un giorno».
Nel retroscena a firma di Francesco Verderami si fa un passo in più. La storia comincia dall’«errore di Conte», che spinge Draghi a salire al Quirinale. Lì Sergio Mattarella lo convince invece a presentarsi in Parlamento: «Mi ha detto di andare e io ci vado», avrebbe spiegato ai collaboratori. Ma il «tentativo genuino» di provare a rimettere insieme i cocci della maggioranza si scontrava con la percezione che mancasse la volontà dei partiti di collaborare. Come se questo fosse «l’epilogo naturale delle elezioni del 2018».
Una resa dei conti con lui protagonista involontario. E un aneddoto che si riferisce all’incontro serale di martedì, con il centrodestra, convocato in fretta e furia dopo quello con Letta che aveva provocato le lamentele di Salvini e Berlusconi. «Letta aveva chiesto di vedermi», risponde il premier all’obiezione. «Allora gli ho detto di venire qui. Sarà stato un errore ma…». «Mario», lo interrompe Tajani: «Nessuno di noi ha mai messo in dubbio la tua malafede». Soltanto un lapsus, certo. Ma indicativo del clima costruito intorno a lui.
Subito dopo arriva la richiesta di elezioni a marzo in cambio dell’appoggio al governo. «Fosse per me si potrebbe votare anche a febbraio», risponde Draghi, «ma non sono io a decidere la data delle elezioni». Così come la richiesta di tenere fuori il M5s da un nuovo esecutivo avrebbe comunque rotto qualcosa. Perché Draghi si è sempre sentito un premier super partes grazie all’appoggio di gran parte del Parlamento. Così sarebbe cambiato tutto.
«Basta con la politica»
Draghi fa anche sapere che alcune forze politiche – e non è difficile indovinare quali – gli avevano chiesto il permesso di usare la sua immagine per la campagna elettorale. Ponendosi come una continuazione dell’esperienza del suo esecutivo. «Lasciatemi fuori», è stata la prima reazione. La seconda è stata ancora più convinta: «Basta con la politica. Ho altre idee per me in futuro».
Le altre ricostruzioni, come quella di Renzi su Franceschini e Speranza che cercano di convincere Conte a votare la fiducia, sembrano stare più sullo sfondo. Anzi, il premier riconosce che il ministro della Cultura si è «adoperato per ricucire» ed evitare la crisi. Ora ha intenzione di completare il lavoro fatto – il Decreto Aiuti Bis è il primo punto all’ordine del giorno – e poi lasciare al nuovo governo le incombenze più politiche. «D’altronde – dicono i suoi collaboratori – era la prima volta nella sua lunga esperienza che si trovava con tante persone intorno. Nemmeno alla Bce».
Il pranzo da Berlusconi per decidere su Draghi
Intanto Politico.eu pubblica un retroscena in cui dà conto di un grande pranzo organizzato da Berlusconi per decidere le sorti di Draghi. A Villa Grande martedì 19 luglio c’era anche Salvini oltre a Giorgia Meloni. «Nel giro di 24 ore, il destino di Draghi era segnato. I complottisti avevano ritirato il loro appoggio alla sua grande coalizione e al primo ministro non restava altro che andare al Quirinale, dove giovedì mattina ha rassegnato le dimissioni», si legge nell’articolo firmato dal corrispondente a Roma.
E gli effetti, per Politico.eu, sono chiari. «L’Italia si trova ora ad affrontare mesi di agitazione. Probabilmente ci vorranno diverse settimane dopo le elezioni del 25 settembre prima che si possa mettere insieme una nuova coalizione».
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
I DISASTRI DI ROMA E VERONA NON HANNO INSEGNATO NULLA: UNITI SOLO A PAROLE, POI E’ CACCIA ALLA POLTRONA
La coalizione di centrodestra formata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, capace di produrre disastri politici come la candidatura congiunta a sindaco di Roma di Enrico Michetti, apparso subito inadeguato e battuto dal dem Gualtieri, oppure la spaccatura Sboarina-Tosi che ha consegnato le chiavi di Verona a Damiano Tommasi, o ancora il semplice fatto di chiamarsi “coalizione” stando però per due terzi al governo e per un terzo all’opposizione, ora è chiamata all’unità in vista delle elezioni del 25 settembre. Le ha invocate per mesi Giorgia Meloni, le hanno scelte strategicamente Salvini e Berlusconi negando la fiducia al governo Draghi.
A chi spetta la leadership nella coalizione di centrodestra? Non si sa
Un accordo tra i tre leader – che si vedranno in un vertice istituzionale all’inizio della prossima settimana – stabilisce che la leadership (e quindi l’indicazione del prossimo presidente del Consiglio) sarà decisa dagli italiani: chi alle urne raccoglie più voti avrà l’onere di scegliere chi mettere a Palazzo Chigi. E stando agli ultimi sondaggi la decisione sarà in capo a Meloni, che punta ad essere la prima donna premier in Italia. Per Salvini sembra non ci siano problemi in merito, come ribadito ieri in un tweet, mentre da Forza Italia il coordinatore nazionale Antonio Tajani frena in un’intervista a Repubblica: “Per ora è importante rafforzare la coalizione, avere un progetto per gli italiani, poi si vedranno quali saranno le regole. Prima bisogna vincere, avere una squadra forte e un buon allenamento. Poi chi alzerà la coppa, si vedrà”.
Secondo il Messaggero gli azzurri non vorrebbero porre alcun veto, ma avrebbero espresso scetticismo verso l’ipotesi Meloni premier, perché farebbe oscurerebbe la parte moderata della coalizione, rappresentata appunto da Forza Italia. Sull’argomento la leader di Fratelli d’Italia però taglia corto: “Questa regola ha sempre funzionato: chi vince governa. Non abbiamo nemmeno il tempo di cambiarla”, dice in un’intervista a La Stampa.
Il nodo sui collegi uninominali
Parla immaginando già di essere incoronata vincitrice delle prossime elezioni, ma in vista della chiamata alle urne c’è già un primo problema da affrontare con gli “alleati”: l’assegnazione dei collegi, che Forza Italia vorrebbe tripartita perfettamente al 33% dei posti negli uninominali. La posizione di Fratelli d’Italia è chiara: oggi il partito vale da solo circa il 50% della coalizione, e quindi chiede più spazio. Nel centrodestra si litiga già, e la campagna elettorale è iniziata da appena due giorni.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SONO PREVISTI FONDI PER PIANTARNE MOLTI DI PIU’
Poteva mancare una spolverata di greenwashing sulla campagna elettorale di Forza
Italia? Dopo aver annunciato un aumento delle pensioni a “minimo mille euro”, tredicesima inclusa, riciclando slogan elettorali già proposti nel 2001 (c’era ancora la Lira) e nel 2006, Silvio Berlusconi rilancia mostrandosi preoccupato per l’ambiente a promette che verranno piantati “un milione di alberi l’anno” in Italia.
I numeri tondi fanno sempre effetto, peccato però che questa volta il leader azzurro abbia proposto un passo indietro rispetto a quanto già sancito negli impegni del G20 e nel Pnrr.
Come fa notare la sottosegretaria al ministero della Transizione ecologica nell’ormai ex governo Draghi Ilaria Fontana (M5S), “Nel PNRR sono già previsti 330 milioni di euro di stanziamento per piantare un totale di 6,6 milioni di alberi per le 14 città metropolitane: 1.65 milioni di piante entro la fine dell’anno e la parte restante entro il dicembre 2024”.
Dare spazio a proposte ambientaliste in campagna elettorale è sicuramente una nota di merito, a patto che siano coerenti con l’approccio collettivo che si intende avere una volta al governo e soprattutto tenendo conto che si tratta di temi da affrontate molto seriamente. Programmi per ripopolare di piante il territorio proliferano un po’ ovunque, fa notare il sito Esg News.
La Cina ha ad esempio recentemente preso un impegno a piantare e conservare 70 miliardi di alberi entro il 2030, la stessa Unione europea si è impegnata a piantarne 3 miliardi, il Canada 2 miliardi e il Regno Unito 1 miliardo.
L’ex segretario di Stato americano Henry Paulson, in un intervento al Financial Times, ha fatto notare come questi programmi possano essere utilizzati come scusa per non intervenire sulla decarbonizzazione. “Troppo spesso tali programmi vengono utilizzati dai governi che cercano compensazioni di carbonio quando non sono disposti a intraprendere misure più difficili per proteggere gli ecosistemi esistenti o per fornire gli incentivi finanziari o il quadro normativo necessari. Di conseguenza, i benefici sperati potrebbero rivelarsi illusori”.
(da NextQuotidiano)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
IL PREMIO STREGA NEL 2019 NON LESINA CRITICHE AI POLITICI
Con la sua penna ha sempre raccontato storie e romanzi che hanno fatto la storia della letteratura italiana contemporanea. Ma Antonio Scurati non si è mai tirato indietro quando gli è stato chiesto di dare un suo giudizio, una sua visione, sullo stato di salute del nostro Paese. A livello sociale, economico e anche politico.
E oggi lo scrittore ha un parere molto severo nei confronti di quegli attori della politica nostrana che hanno prima provocato la crisi di governo e poi hanno affossato l’esecutivo prima della fine della legislatura e del completamento di provvedimenti necessari (per esempio quelli legati al PNRR).
Intervistato dal quotidiano La Repubblica, Antonio Scurati ha analizzato quanto accaduto nelle ultime settimane. Il suo parere attorno a questa ragnatela di mosse e decisione prese dai vari leader politici è molto negativo, per usare un eufemismo: “Abbiamo assistito a una ricerca del tornaconto personale, a un calcolo partitico miserabile a discapito dell’interesse generale. Una sciagurata manifestazione di irresponsabilità”.
Non fa nomi e cognomi, non indica i partiti. Perché tanto la storia recente ha già messo in mostra l’identità di chi ha messo in scena la crisi di governo e l’ha cavalcata, fino alla morte di questa legislatura. Lo scrittore è un grande ammiratore di Mario Draghi. Del suo ruolo, della sua storia e della sua autorevolezza (nazionale e internazionale). Per questo quella ferita inferta all’uomo (Draghi) ha lasciato e lascerà una cicatrice sulla pelle del tessuto civile.
A settembre, poi, si andrà al voto. Secondo Scurati il risultato non è scontato (nonostante i sondaggi) e la destra (Fratelli d’Italia, Lega e quel che resterà di Forza Italia) non può essere equiparata a quella del passato. Insomma, nessun rigurgito fascista, ma sicuramente si parla di partiti basati sul quel mix tra populismo e sovranismo. Il reale problema, infatti, riguarderebbe la fine di processi consolidati (e diventati sempre più forti grazie a Mario Draghi): “Un arresto del processo storico di formazione di un’unità politica europea e di una sua indipendenza militare, che la guerra in Ucraina ha dimostrato necessaria. Credo che i grandi problemi epocali di questi giorni possano essere affrontati solo da un’Europa politicamente unita”.
Le premesse, quelle che arrivano da Fratelli d’Italia e Lega, vanno nell’esatta direzione opposta.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
RONCONE: “FANNO CALCOLI E RAGIONAMENTI MISERABILI: PER LA MAGGIOR PARTE DI LORO SARÀ IMPOSSIBILE ESSERE RIELETTI”… “TORNATE TRA NOI, ONOREVOLI. RISALITE NEI VOSTRI CONDOMINI. CHI CE L’HA, RIPRENDA IL VECCHIO MESTIERE”
Hanno smesso di ridere. Hanno improvvisamente capito di non aver organizzato un
funerale politico a Mario Draghi (perché quello – appunto – anche lontano da Palazzo Chigi era e resta comunque Mario Draghi): ma a loro stessi. Panico grillino. Terrore puro.
Guarda un po’: il senatore Danilo Toninelli non sghignazza più. Com’ è grigio, com’ è mogio. Senatore, cos’ è che canticchiava l’altro giorno a Palazzo Madama? “Eh eh Il governo/ viene giù/ viene giùùù!”.
Fanno calcoli e ragionamenti miserabili: per la maggior parte di loro sarà impossibile partecipare, o anche sperare di essere rieletti, alle elezioni che hanno provocato. Sono quasi tutti stretti in una morsa micidiale. Adesso che ci pensano, gonfi di amarezza: «Porcaccia miseria: pure la morsa ce la siamo costruita da soli».
Da un lato, c’è il risultato di una loro grande battaglia: la contrazione del numero dei parlamentari (in totale, con la nuova legge, saranno 600: 400 alla Camera e 200 al Senato); e, quindi, visto che nei sondaggi il Movimento viene dato in una forbice che sta tra il 5 e il 10%, i grillini rieletti saranno da un minimo di 30 a una massimo di 60. E poi c’è la leggendaria questione del doppio mandato.
Un limite che Gianroberto Casaleggio stabilì tra un Vaffa e l’altro, immaginando quello che poi si è puntualmente verificato: i suoi onorevoli sono rimasti prigionieri del potere che avevano promesso di combattere; hanno trovato soffici le poltrone e irrinunciabile lo stipendio (e ti credo); adorano i sedili in pelle delle auto blu; e poi c’è quel brivido di eccitazione, una lunga vertigine quando vedono i commessi scattare in piedi al loro passaggio, tra i velluti rossi e i lampadari sempre accesi. E adesso? Dovremo mica cercarci un lavoro fuori dal Parlamento?
Santo Cielo, un po’ di dignità. Però, forse, sì. Tornate tra noi, onorevoli. Risalite nei vostri condomini. Chi ce l’ha, riprenda il vecchio mestiere. Una buona notizia per Barbara Lezzi: è ancora aperta la fabbrica che produce pezzi di ricambio per orologiai dove era impiegata prima di diventare ministro per il Mezzogiorno (e spiegarci che il Pil dell’Italia aumentava grazie all’uso smodato dei condizionatori d’aria). E la mitica Paola Taverna? Anche lei, due mandati esauriti. Il tempo vola. Sembra ieri che urlava: «A bbellooooo! Nun so’ mica ‘na politica de professione, io» (traduzione: amico mio, non penserai mica che io sia una professionista della politica).
Poi la scoperta delle borse Louis Vuitton, la vicepresidenza del Senato, le ospitate in tv, le forchette giuste per il pesce, sempre però curando l’immagine di grillina dura e pura con la quale, in queste ore di possibile ritorno al precariato, cerca di mettere pressione dentro al Movimento. «Aho’, famo a capisse: io me ricandido, nun ce piove» (traduzione: cerchiamo di capirci, la mia ricandidatura appare certa).
Tremano, meno spavaldi, molti altri senatori che pure si sono battuti contro il governo: Airola, Castaldi, Crimi, Cioffi («Io però sono l’ultimo che ha visto in vita Casaleggio: non so, fate voi»). Teme di non farcela persino Carlo Sibilia, sottosegretario all’Interno negli ultimi tre governi (nonostante la convinzione che l’uomo non sia mai atterrato sulla Luna, e che Tito Stagno, quella notte, fece la telecronaca di una gigantesca messinscena organizzata dagli Stati Uniti).
Angosciato Alfonso Bonafede, dimenticabile ministro della Giustizia, noto anche con il soprannome di Dj Fofò (perché lui alla consolle ci ha lavorato sul serio, non come Salvini, solo per un pomeriggio al Papeete Beach): Luigi Di Maio gliel’aveva detto, «Fofò, qui è finita», ma lui niente, convinto di poter contare sull’indulgenza di Conte (fu Bonafede a introdurlo nel mondo dei 5 Stelle).
Macerie calcinate, osservano divertiti quelli che sono già saltati sul carrozzone di Giggino (come Carla Ruocco: «Ci siamo evoluti», e sì, certo, vabbé; o Sergio Battelli, uno che non voleva tornare a fare il commesso nel negozio di animali dove aveva lavorato per dieci anni).
E lei, Buffagni? (Stefano Buffagni, consigliere regionale in Lombardia, poi sottosegretario nel Conte 1 e viceministro allo Sviluppo economico nel Conte 2). «Sono commercialista: tornerò nel mio studio. L’ipotesi di lasciare il Parlamento non mi spaventa».
L’altro giorno, mentre veniva giù tutto, lei ha detto: la gente ci impala. «La politica deve dare risposte. Ho sofferto umanamente. E poi non voglio che mio figlio, un giorno, pensi che il padre aveva perso la testa per una poltrona».
Fabrizio Roncone
(da il “Corriere della Sera”)
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