Destra di Popolo.net

SE LA TERRA CONTINUA A SCALDARSI SAREMO PRESTO QUATTRO VOLTE PIU’ POVERI DEL PREVISTO

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

LO STUDIO: SE LA TERRA SI RISCALDERA’ DI OLTRE 3°C ENTRO LA FINE DEL SECOLO LA RICCHEZZA GLOBALE PRO CAPITE SUBIRA’ UN DANNO DEL 40%

Le previsioni sul possibile impatto del cambiamento climatico sull’economia globale condotte finora molto probabilmente sono sbagliate. Secondo una nuova ricerca, infatti, il prodotto interno lordo (PIL) globale sarebbe destinato a ridursi drasticamente entro la fine del secolo se le temperature continueranno ad aumentare, molto più di quanto è stato previsto finora.
Nello specifico, questa nuova analisi ha tenuto conto dei diversi modi in cui gli eventi meteorologici estremi innescati dal cambiamento climatico e, in generale, il riscaldamento globale potrebbero incidere sulla ricchezza media della popolazione. I risultati sono piuttosto allarmanti e, a differenza di quanto emerso nelle previsioni precedenti, sembrano riguardare tutti i Paesi.
Gli effetti sull’economia entro la fine del secolo
I ricercatori della University of New South Wales di Sydney hanno infatti scoperto che se la Terra si riscalderà di oltre 3°C entro la fine del secolo, il danno all’economia globale potrebbe non essere pari all’11% (valore medio dato dai diversi modelli disponibili), ma potrebbe raggiungere il 40%. In sostanza, questo significa che in media le persone potrebbero essere più povere del 40%, quasi quattro volte di più di quanto previsto finora.
Un’altra cosa interessante emersa da questo studio riguarda la dimensione globale d futuri impatti sull’economia: a differenza degli attuali studi, che avevano previsto un possibile effetto benefico del cambiamento climatico sull’economia dei Paesi più freddi, questa proiezione mostra come i mezzi di sussistenza saranno così tanto
danneggiati da causare danni in qualsiasi parte del mondo.
Perché le previsioni precedenti hanno sottovalutato il problema
Finora- spiega su The Conversation il primo autore dello studio Timothy Neal – la maggior parte degli studi che puntavano a prevedere l’impatto della crisi climatica sull’economia potrebbe aver sensibilmente sottovalutato la questione per un motivo. Queste previsioni sarebbero, secondo i ricercatori australiani, viziate da quello che definiscono un “difetto fondamentale”, ovvero pensare che l’economia di un certo Paese sia influenzata soltanto dagli eventi estremi che si verificano all’interno dei suoi confini. Ma l’economia globale non funziona a compartimenti stagni: questo approccio, ad esempio – prosegue Neal – non tiene conto di “eventuali impatti da eventi meteorologici altrove, come il modo in cui le inondazioni in un Paese influenzano l’approvvigionamento alimentare di un altro”.
Se si modifica questo approccio e si immagina il PIL globale pro capite come influenzato dal cambiamento climatico su grande scala, le cose cambiano. L’aumento costante delle temperature – il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre – può influenzare la vita, la salute e la ricchezza della popolazione mondiale in molteplici modi, ma secondo i ricercatori i danni maggiori riguarderebbero l’impatto delle condizioni meteorologiche estreme, come le inondazioni o la siccità.
Agire sul controllo delle emissioni
Per rallentare, o meglio bloccare, questo processo è necessario investire per contenere l’aumento delle temperature. Secondo le ultime stime contenute in questo studio, per bilanciare i costi a breve termine e i benefici a lungo termine nel controllo delle emissioni di gas serra, è necessario contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,7°C, “una cifra ampiamente coerente con l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi”, ma che oggi non sembra affatto un obiettivo della politica internazionale – dato che l’abbiamo già superata – nonostante “l’attuale andamento delle emissioni della Terra stia mettendo a rischio il nostro futuro e quello dei nostri figli”, avvertono i ricercatori.
(da agenzie)

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CORY BOOKER, IL SENATORE AMERICANO CHE HA PARLATO PER OLTRE 25 ORE CONTRO TRUMP

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

IL DISCORSO RECORD: “TRUMP CALPESTA DIRITTI E COSTITUZIONE”

Il senatore democratico degli Usa Cory Booker ha tenuto un discorso di oltre 25 ore senza interruzioni facendo registrare il nuovo record per l’intervento più lungo mai pronunciato nella storia moderna del Senato degli Stati Uniti.
Il precedente primato apparteneva al senatore Strom Thurmond, che nel 1957 parlò per 24 ore e 18 minuti per opporsi al Civil Rights Act.
Booker, 55 anni, rappresentante del New Jersey, ha iniziato il suo intervento ieri alle 19 in segno di protesta contro l’agenda dell’amministrazione Trump. Nel suo discorso ha citato la figura di John Lewis, icona dei diritti civili e storico membro del Congresso, affermando di voler «occupare» l’aula nello stesso spirito di lotta per la giustizia sociale.
Cos’è la tecnica del filibuster usata da Booker
L’ostruzionismo in Senato, noto come filibuster, è una tattica parlamentare usata per ritardare o bloccare l’approvazione di una legge. Thurmond la utilizzò nel 1957 per cercare di impedire l’adozione della prima legge sui diritti civili dal dopoguerra, mentre Booker ha scelto la stessa strategia per opporsi alle politiche repubblicane, resistendo per 25 ore e 5 minuti. Nel suo discorso, il senatore ha deunciato i tagli alla previdenza sociale voluti dal Dipartimento per l’Efficienza Governativa (Doge) di
Elon Musk. Durante le 25 ore di intervento, Booker ha anche letto alcuni messaggi inviati dagli elettori e parlato di una crisi costituzionale incombente, facendo riferimento alle intenzioni espresse da Trump di annettere Canada e Groenlandia. Nel momento in cui Booker ha superato il record precedente, l’aula del Senato è esplosa in un applauso, mentre il senatore repubblicano si commuoveva sul podio. «Mettiamoci nei guai», ha dichiarato Booker in segno di sfida.
Cory Booker: «Trump e Musk calpestano diritti e costituzione»
«Mi recherò all’aula del Senato perché Donald Trump ed Elon Musk hanno dimostrato un totale disprezzo per lo stato di diritto, la Costituzione e le esigenze del popolo americano», aveva scritto Booker nel pomeriggio di ieri, prima di entrare in aula. «Sono stanco e ho la voce un po’ rauca, ma come ho ripetuto più volte al Senato, questo è un momento in cui non possiamo permetterci di restare in silenzio. Un momento in cui dobbiamo far sentire la nostra voce. Ciò che mi è più chiaro stasera è che questo è solo l’inizio, che gli americani in tutto il Paese, indipendentemente dal loro titolo o partito, sono pronti a farsi sentire. Credo che la storia dimostrerà che ci siamo mossi per affrontare questo momento. Dimostrerà che non abbiamo lasciato che il caos e la divisione restassero senza risposta. Dimostrerà che quando il nostro presidente ha scelto di diffondere bugie e seminare paura, abbiamo scelto di unirci, di lavorare insieme e di sollevarci insieme», ha aggiunto su X il senatore dopo il suo intervento.
(da agenzie)

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UNGHERIA, FOGNA D’EUROPA: ORBAN, DOPO AVER DEMOLITO LO STATO DI DIRITTO NEL SUO PAESE, PASSA ALLO STEP SUCCESSIVO, SFANCULARE I TRATTATI INTERNAZIONALI

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

BUDAPEST È PRONTA A USCIRE DALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE: L’OCCASIONE È LA VISITA DEL PREMIER CRIMINALE ISRAELIANO, BENJAMIN NETANYAHU, IN UNGHERIA… È SOTTO MANDATO DI ARRESTO DALLA CPI, MA ORBAN HA GARANTITO CHE NON LO AMMANETTERÀ (COME SAREBBE TENUTO A FARE)

L’Ungheria è pronta a uscire dalla Corte penale internazionale (Cpi). Lo ha annunciato il ministro della giustizia Bence Tuzson in una riunione a porte chiuse con alcuni diplomatici, secondo le informazioni pubblicate dal giornale online Europa libera.
La bozza della risoluzione del Parlamento che autorizza il governo ad avviare la procedura di uscita sarebbe già stata preparata. Stasera il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sotto mandato di arresto dalla Cpi, arriverà a Budapest e domani incontrerà il premier Viktor Orban che lo ha invitato garantendo che non avrebbe dato seguito al mandato della Cpi.
“Il parlamento ungherese dovrebbe emendare la legge sul diritto di riunione, che di fatto vieta eventi come le marce del Pride, e astenersi dall’adottare proposte legislative che minacciano i diritti umani delle persone lgbti”.
A chiederlo è il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, in una lettera inviata al Presidente dell’Assemblea nazionale ungherese, Lazlo Kover.
Il Commissario O’Flaherty avverte che vietare eventi pacifici che promuovono l’uguaglianza lgbti viola il diritto alla libertà di riunione, e che la Cedu ha già pronunciato diverse condanne su questo punto. Inoltre esprime preoccupazione per il potere della polizia di utilizzare il riconoscimento facciale per identificare i partecipanti alle manifestazioni. O’Flaherty è anche “allarmato” da un emendamento che introdurrebbe un divieto di riconoscimento legale del genere nella costituzione.
Secondo lui questo andrebbe contro gli obblighi dell’Ungheria sul rispetto della convenzione europea dei diritti umani e non tiene conto della realtà delle persone intersessuali e della diversità dell’identità di genere. Infine il commissario “deplora la proposta di emendamento che eliminerebbe l’identità di genere dall’elenco esplicito delle caratteristiche protette dalla legge anti discriminazione”.
(da agenzie)

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URSULA PASSA ALLE MANIERE FORTI PER RIBATTERE A TRUMP – COME RISPOSTA AI DAZI, VON DER LEYEN METTE NEL MIRINO LE BIG TECH, LE BANCHE E I SERVIZI FINANZIARI AMERICANI. UN MODO PER FARE MALE AL TYCOON

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

GLI EUROPEI DIVISI TRA “INTRANSIGENTI” (FRANCIA E GERMANIA) E “NEGOZIATORI” (ITALIA, POLONIA, BALTICI). MA SE STASERA TRUMP ANNUNCIASSE DAZI “PESANTI”, LE DIVERGENZE SVANIREBBERO E LA TRUMPIANA MELONI SI TROVEREBBE CON IL CERINO IN MANO

Nel mirino le “Big tech”, le banche e i servizi finanziari. Perché se quella commerciale sarà davvero una “guerra”, allora tutto vale. L’Ue si prepara ai nuovi dazi di Donald Trump e sul tavolo schiera tutte le armi a disposizione. «Non vogliamo necessariamente vendicarci ma ci faremo valere», ha avvertito ieri la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, parlando a Strasburgo nell’aula del Parlamento europeo senza nascondere che la «rappresaglia» non è più esclusa.
Sebbene l’esecutivo europeo abbia già sondato tutti i 27 prospettando una risposta «durissima», non tutte le decisioni sono state già assunte. Le posizioni tra i partner non sono affatto unanimi. Con almeno due fronti: gli intransigenti (Francia, Germania e la stessa Commissione) e i negoziatori (Italia, Polonia, Baltici).
Ma si tratta di una divergenza destinata a colmarsi, se le scelte di oggi della Casa Bianca si rivelassero «esagerate ». A quel punto nel pacchetto entrerebbero appunto i colossi tecnologici come Google, Amazon, X, le banche, i servizi e la possibilità delle aziende americane di operare in Europa. Anche se per ora viene accantonata l’idea di ricorrere al cosiddetto “Strumento anti-coercizione”, quell’insieme di misure volte a difendere le imprese dell’Ue che sarebbe la molla per una escalation del conflitto.
Al momento, dunque, ci sono tre liste di “contro-dazi”, le prime due immediatamente operative. La prima è quella già approvata nel 2018. Non ha bisogno di ulteriori via libera e può essere semmai “ridotta”. Ad esempio per la parte “alcolica”, su cui in
effetti insistono Italia e Francia per difendere il vino.
Poi c’è già una seconda, sulla quale il Consiglio ha dato il benestare: è quella su alluminio, acciaio e derivati, e auto. I due elenchi di beni possono entrare in vigore immediatamente, e comunque entro il 13 aprile. Su questo, appunto, è già stato espresso il consenso. Il valore di queste tariffe è calcolato intorno ai 26 miliardi di euro.
E poi c’è una terza lista tenuta segretissima, che avrà bisogno di una consultazione formale e che diventerebbe efficace a fine mese. Va, però, tenuto presente che la procedura in questo caso è “invertita” e consegna alla Commissione il coltello dalla parte del manico: per bloccare la proposta dell’esecutivo europeo serve la maggioranza qualificata dei 27, senza la quale passa comunque la scelta di Palazzo Berlaymont.
In questa lista, che rappresenta davvero un’arma fine mondo, ci sono anche i dazi su Big tech (Apple, X, Microsoft, Netflix, eccetera), servizi finanziari, banche e licenze societarie per operare nell’Unione. Nel settore dei servizi, del resto, la bilancia commerciale è ampiamente favorevole agli States.
Il commissario al Commercio, Maroš Šefcovic, d’intesa con von der Leyen, si è fatto dunque già votare le prime due liste per essere pronti a rispondere. Anche oggi. Ma prima di rendere effettiva la reazione, la Commissione intende aspettare e capire cosa Trump farà davvero. Se esagererà – è il concetto illustrato da von der Leyen – allora partono subito tutte le liste.
Ma c’è un “ma”. In realtà i governi sono divisi. Alcuni, come Italia Polonia e Baltici, temono l’escalation. Vogliono rispondere senza provocare una controreazione. Roma protegge la sua relazione con il presidente statunitense, gli altri temono che ci possano essere ripercussioni sulla Nato e quindi sulla difesa del confine orientale. L’ipotesi allora è quella di far scattare le tariffe delle prime due liste, approvare la terza ma senza renderla subito operativa.
E poi trattare. Il refrain è: «Non facciamoci male due volte, evitiamo l’escalation». Ovviamente per l’alimentare (il vino) anche la Francia frena, però solo su questo, e chiede di togliere il whisky dalla prima lista.
Per il resto Parigi spinge per una reazione durissima. In più c’è una preoccupazione che tra gli uffici della Commissione si sta facendo largo: se alla risposta europea gli Usa rilanciano, la Casa Bianca potrebbe trasformare il dollaro in un’arma. Quale? Molte transazioni – ad esempio per gas e petrolio – si pagano con la divisa Usa. Per effettuare questi pagamenti le banche europee aprono un conto presso la Fed.
Se Trump bloccasse o chiudesse quei conti, cosa accadrebbe? E se venissero sospese le transazioni attraverso le carte di credito (Visa, Mastercard, eccetera)? La guerra si trasformerebbe in una catastrofe senza fine.
Alcuni governi poi stanno rimproverando la Commissione di non calcolare bene le conseguenze sulle quotazioni di euro e dollaro. Non ci sono cioè simulazioni su quanto possano crescere o scendere i valori e su quanto questo possa incidere sul commercio “non Usa”. Alcuni Paesi, per esempio, sospettano che Trump stia lavorando per abbassare la quotazione del dollaro e favorire le esportazioni degli States.
(da La Repubblica)

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DELMASTRO ATTACCO’ UN PM, ORA SI FA SCUDO CON L’IMMUNITA’ INVECE DI AFFRONTARE IL PROCESSO

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

LA GIUNTA PER LE AUTORIZZAZIONI A MAGGIORANZA NEGA IL PROCESSO…UNA VOLTA GLI UOMINI DI DESTRA NON SI NASCONDEVANO DIETRO L’IMMUNITA’, AFFRONTAVANO I PROCESSI A TESTA ALTA

La Giunta per le autorizzazioni della Camera ha votato questa mattina a maggioranza per il riconoscimento dell’insindacabilità nei confronti del deputato e sottosegretario di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro Delle Vedove, in relazione a una querela presentata contro di lui dall’allora procuratore regionale della Corte dei Conti del Piemonte, Quirino Lorelli. Lo ha comunicato il presidente della Giunta, Devis Dori, spiegando che il caso passa ora all’esame dell’Aula di Montecitorio.
Al centro della vicenda, un video pubblicato il 16 giugno 2021 sulla pagina Facebook di Delmastro, in cui il parlamentare attaccava duramente Lorelli per aver avviato un’istruttoria contabile nei confronti della Regione Piemonte, in seguito all’annuncio dell’intenzione di acquistare e distribuire nelle scuole un libro sulla tragedia delle Foibe.
Nel video, Delmastro definiva Lorelli “l’eroe dei due mondi della sinistra giudiziaria” e “Capitan Fracassa della sinistra giudiziaria italiana”, accusandolo di voler “infoibare nuovamente questa tragedia per via giudiziaria” e promettendo: “Ti staremo con il fiato sul collo, non ti molleremo mai”. Il filmato è stato diffuso anche attraverso altri canali social e piattaforme online, incluse pagine ufficiali di Fratelli d’Italia.
Il procuratore Lorelli ha denunciato il contenuto come diffamatorio, lamentando l’uso di espressioni ingiuriose e riferimenti denigratori alla sua persona, anche di carattere fisico, ritenuti lesivi della sua reputazione e del prestigio dell’istituzione che rappresenta. La querela sottolinea inoltre la diffusione virale del video e le reazioni ostili generate online.
Sul piano giudiziario, il procedimento ha avuto uno sviluppo complesso. L’8 marzo 2023, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Biella aveva archiviato il caso, ritenendo che sussistessero i presupposti per l’applicazione dell’articolo 68 della Costituzione, che tutela i parlamentari per opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. Tuttavia, la Procura ha impugnato l’archiviazione davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo che fosse stata disposta in modo “abnorme”, senza richiesta del PM e senza avvisare la parte offesa. La Cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’archiviazione e rinviando gli atti al Tribunale di Biella, che il 6 novembre 2023 ha trasmesso formalmente la richiesta di deliberazione alla Camera.
Ora sarà l’Aula a dover decidere se le dichiarazioni del deputato siano effettivamente coperte dalla prerogativa dell’insindacabilità parlamentare. La difesa di Delmastro ha sostenuto che il video rientra in un’attività divulgativa strettamente legata a un’interpellanza urgente presentata dallo stesso deputato in Parlamento il giorno prima della pubblicazione, nella quale esprimeva contenuti pressoché identici.
(da agenzie)

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ELON MUSK PERDE NEL WISCONSIS, ELETTA UNA GIUDICE LIBERALE NONOSTANTE LA CAMPAGNA MILIONARIA

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

IL PATRON DI TESLA HA FINANZIATO CON OLTRE 20 MILIONI DI DOLLARI IL SUO AVVERSARIO USCITO SCONFITTO

È una netta sconfitta quella subita da Elon Musk nel Wisconsin, dove gli elettori hanno fatto registrare un’affluenza record nel voto per eleggere il nuovo giudice della corte suprema dello Stato. Il seggio in palio è andato a Susan Crawford indipendente liberale e dunque più vicina alle posizioni del partito democratico che a quelle del partito repubblicano.
Crawford ha superato ampiamente Brad Schimel il candidato finanziato da Musk con oltre 20 milioni di dollari nell’ambito di una campagna elettorale da 100 milioni: la più cara mai condotta per l’elezione di un giudice federato. La scelta degli elettori consente ai liberali di mantenere il controllo della massima corte statale 4-3. Opposti a Musk, si sono schierati altri finanziatori milionari, che hanno deciso di supportare Crawford. George Soros, Mike Bloomberg, il fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, il governatore dell’Illinois JB Pritzker.
Come riporta la Cnn, il voto per la corte suprema del Wisconsin costituisce il primo test elettorale del secondo mandato di Donald Trump, che nelle ultime settimane aveva appoggiato Schimel. Tuttavia, sotto i riflettori c’è Musk, che ha direttamente finanziato il candidato, mentre – fa notare la testata statunitense-, Trump potrebbe smarcarsi dal risultato. Infatti, l’inquilino della Casa Bianca si gode il successo in Florida, dove i candidati repubblicani hanno conquistato i seggi lasciati vacanti consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e da Matt Gaetz, la prima scelta del presidente degli Stati Uniti per il ruolo di procuratore generale che poi aveva rinunciato all’incarico.
Al first buddy rimane invece la responsabilità della sconfitta. Crawford inizia dunque un mandato di 10 anni che Musk non è riuscito a scongiurare nemmeno indossando il cappello di formaggio che aveva sfoggiato per avvicinarsi agli allevatori del Wisconsin, noto come il cheese state per la sua imponente produzione di formaggio.
(da agenzie)

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DA TRUMP A MARINE LE PEN, IL CLUB ANTI-MAGISTRATI

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

I SOVRANISTI ORMAI SI RITENGONO IMPERATORI SOPRA LA LEGGE

Il tema sarebbe: l’Italia di Silvio Berlusconi ha fatto scuola sulla lotta alla giustizia cosiddetta “politicizzata”, quella dominata dalle correnti di sinistra, ritenuta troppo libera di scatenare le sue inchieste contro chi non gli piace. Ma, guardando all’area che da ieri solidarizza con Marine Le Pen, la storia è andata ben oltre quel tipo di contestazione. Il mondo sovranista ormai attacca la giustizia anche quando porta il suo segno, quando è stata strutturata a sua misura, e davanti a una condanna non c’è organizzazione del terzo potere – carriere divise, unite, parallele, pm liberi o soggetti all’esecutivo, azione penale obbligatoria o no – che accontenti i sostenitori della prevalenza assoluta degli “eletti dal popolo” sulla legge.
In Francia la separazione c’è, il pm è un funzionario che risponde direttamente al ministro della Giustizia, e in teoria i nostri dovrebbero adeguarsi alle decisioni di un modello che rispecchia le loro convinzioni e aspirazioni: ovviamente non succede, anzi raddoppiano i sospetti di una gestione politicamente orientata dei verdetti.
Negli Usa la carica del pubblico accusatore è addirittura elettiva nei sistemi statali e di nomina governativa in quello federale, ma anche lì il sovranismo non è contento e si ribella: ogni freno della magistratura alle ordinanze di Donald Trump è contestato come un atto di malevolenza e insubordinazione al legittimo potere. Persino in Ungheria, dove il premier Viktor Orban controlla l’organo che di fatto decide le promozioni dei giudici, “l’attivismo giudiziario” è costantemente additato al popolo come il vero ostacolo da battere per promuovere il cambiamento e fermare l’immigrazione.
Per vent’anni ci siamo accapigliati (e ancora lo facciamo) sulla necessità di una riforma che riequilibri il rapporto tra politica e magistratura, salvo verificare, oggi, che nessuno schema è ritenuto adeguato, nessuna inchiesta accettabile, nessuna condanna condivisibile, qualunque sia il sistema che le produce.
Pure le assoluzioni diventano elemento di polemica perché, come si è detto di Matteo Salvini al termine del processo Open Arms, se uno è assolto vuol dire che si è esagerato a indagarlo e a rinviarlo a giudizio. E anche il popolo sovrano è elemento accessorio: in Israele le piazze si sono riempite contro Benjamin Netanyahu e la sua decisione di trasformare in organo politico l’ente che seleziona i giudici, apprezzata
solo da una minoranza di israeliani, e tuttavia il premier è andato avanti e l’ha portata all’approvazione. Il popolo vale meno quando si mette di traverso.
Magari è vero che il “caso italiano” del conflitto frontale tra giustizia e politica è stato precursore di una tendenza più larga e preoccupante. E tuttavia sarebbe polemica di retroguardia fermarsi lì, al vecchio scontro tra giustizialismo e garantismo o alla ricerca di connessioni di singoli magistrati coi partiti, perché in tutta evidenza in Europa e in Occidente un pezzo della politica contesta il diritto stesso della magistratura ad occuparsi degli affari suoi. Lo fa in modo obliquo, senza dichiarare i suoi intenti, senza – ad esempio – invocare il ripristino di antiche garanzie come l’immunità o le autorizzazioni a procedere, perché non vuole perdere l’allure anti-casta. Vuole mostrarsi popolo tra il popolo, ma risultare pure legibus solutus come gli antichi imperatori. È un programma sconnesso ma di successo: per i suoi amici Marine Le Pen è già una vittima, tra i suoi nemici cresce il timore che il verdetto si trasformi in un boomerang elettorale, il merito della vicenda non interessa quasi nessuno.
(da lastampa.it)

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NELLA GUERRA DEI DAZI GIORGIA RISCHIA DI RIMANERE IMPALLINATA: STASERA ALLE 22 TRUMP ANNUNCERA’ LE NUOVE TARIFFE DOGANALI. E LA KAISER VON DER LEYEN MINACCIA: “SIAMO PRONTI A VENDICARCI”. UNA POSIZIONE CHE HA GETTATO NEL PANICO MELONI

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

LA STATISTA (SI FA PER DIRE) DELLA GARBATELLA, CHE ANCORA SI ILLUDE DI POTER MEDIARE IN UNA TRATTATIVA TRA LE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO, HA TELEFONATO ALLA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE E HA CHIESTO UNA REAZIONE PIÙ “MORBIDA” … PALAZZO CHIGI PREPARA IL “PIANO B”: TRATTARE IN SOLITARIA CON LA CASA BIANCA PER OTTENERE UNO “SCONTO” SUI DAZI.
SOLUZIONE CHE ISOLEREBBE ANCORA DI PIÙ MELONI IN EUROPA

Nessuno, sostiene Giorgia Meloni, sa davvero dove intenda arrivare Donald Trump nella sua sfida all’Europa. O almeno, questa è la speranza fragile e un po’ tattica che ancora coltiva la leader. Di certo c’è che nelle ultime ore la premier è entrata in contatto con Ursula von der Leyen.
Non le è piaciuta quella formula, «vendetta», che la presidente della Commissione ha poi limato. La presidente del Consiglio ha chiesto dunque alla politica tedesca un surplus di riflessione. Pregandola di frenare rispetto a un’eventuale reazione immediata contro Washington.
Sulla carta, infatti, già il 3 aprile – o nei giorni immediatamente successivi – von der Leyen potrebbe scatenare la “contraerea commerciale” del continente. Per Meloni si ridurrebbero ancora i margini di dialogo con l’amministrazione repubblicana. Ecco perché suggerisce invece di posticipare addirittura la scadenza del 15 aprile, fissata da Bruxelles come termine ultimo per la ritorsione contro la Casa Bianca.
È un tentativo in salita, al momento tra l’altro poco condiviso dai principali alleati europei, che le tornerebbe però utile soprattutto per una ragione: tra il 18 e il 20 aprile è in agenda una visita in Italia del vicepresidente Usa in Italia J.D. Vance.
C’è però un’altra conseguenza, che deriva dal viaggio italiano di Vance: il viaggio della premier alla Casa Bianca potrebbe slittare ancora.
Ma torniamo alla Commissione. E all’opzione di una reazione immediata. È un’ipotesi che Meloni considera un errore. Perché un’escalation, sostiene, potrebbe innescare una sequenza di rappresaglie incrociate. La presidente del Consiglio schiera dunque Roma su una posizione di prudenza, cercando sponde tra i Ventisette. Ed è pronta a portare questa linea nella capitale belga, se von der Leyen dovesse decidere di convocare una riunione d’emergenza per costruire una risposta a Trump.
Chiede dunque di non smarrire la volontà di mediare, anche se per il momento sono gli Stati Uniti ad accanirsi contro l’Europa. Frenare non significa, almeno per il momento, rompere l’unità europea: è un lusso che la presidente del Consiglio non potrebbe comunque permettersi, considerando il grado di interconnessione tra le economie dell’Unione. Semmai, emerge la speranza di ritagliarsi un ruolo in una ipotetica trattativa tra le due sponde dell’Atlantico. Un’operazione accarezzata da
mesi, ma a dire il vero finora mai decollata.
Quello che al momento nessuno dice apertamente, è che esiste pure un piano d’emergenza a cui lavora Roma. Passa da una successiva trattativa bilaterale con gli americani. L’Italia sosterrà infatti la ritorsione europea, ma in un secondo momento potrebbe muoversi per ottenere una qualche forma di “sconto” da Washington.
La tesi prevalente, a dire il vero, è che i dazi non possono essere ammortizzati, perché colpiranno l’Unione nel suo complesso. In realtà, spiegano fonti qualificate, i tecnici di Palazzo Chigi e dei ministeri interessati al dossier starebbero studiando i dettagli delle barriere doganali, identificando alcuni punti su cui intervenire per rendere in qualche modo meno dolorosi i balzelli imposti da Trump all’Italia. Cavilli su cui far leva per ottenere una “clemenza” mirata e bilaterale, in modo da ridurre l’impatto su alcune filiere preziose per l’economia italiana.
(da La Repubblica)

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TRA GLI EFFETTI DELLA GUERRA COMMERCIALE SCATENATA DAL TYCOON C’È UN CROLLO DELLE PREVISIONI DI CRESCITA PER L’ITALIA

Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile

IL +1,2% STIMATO FIN QUI DA TESORO NON È PIÙ CREDIBILE: I PIÙ OTTIMISTI DICONO CHE QUEST’ANNO CRESCEREMO DELLO 0,9%, MA C’È CHI PRONOSTICA UN PIL DIMEZZATO ALLO 0,6% … SALE IL COSTO DEL DEBITO PUBBLICO: I BUONI DEL TESORO DECENNALI SONO GIÀ RISALITI FINO A TOCCARE IL 4% – L’AMICO DONALD INGUAIA GIORGIA MELONI ANCHE NEI SONDAGGI: I CONSENSI DI FRATELLI D’ITALIA SONO IN CALO

Lo scontro in Parlamento si sta consumando su come verrà scritto: l’opposizione dice che il governo presenterà un documento privo di dettagli su come affrontare la tempesta Trump.
La questione rilevante del nuovo Documento di finanza pubblica (si dovrebbe chiamare così in ossequio alle nuove regole europee) è un’altra: il crollo delle previsioni di crescita. Fonti del Tesoro dicono che una decisione non è stata presa, e però il +1,2 per cento immaginato fin qui non regge più.
Più delle tariffe in sé, il danno peggiore della Casa Bianca all’economia mondiale è nell’incertezza che le uscite umorali di Trump creano sulle aspettative dei mercati.
Più aumenta la confusione, più sale la prudenza di chi consuma e investe. I più ottimisti dicono che quest’anno cresceremo dello 0,9 per cento, chi ha rifatto i conti nell’ultima settimana pronostica un Pil dimezzato allo 0,6.
Per Giorgia Meloni sarà un passaggio politico delicato in uno scenario che ha i tratti di un incubo a occhi aperti. In ossequio alla special relationship con il presidente e al tentativo di mediare a nome dell’Unione, la premier ha evitato fin qui di attaccare
scelte che stanno già danneggiando il made in Italy. Come testimoniano i sondaggi e il calo dei consensi di Fratelli d’Italia, colui che per Meloni avrebbe dovuto essere un’opportunità si sta rivelando un problema.
C’è di più: l’incauta politica economica di Trump – che nel medio termine spera di recuperare quote di manifattura sul suolo americano – sta aumentando i timori di una ripresa dell’inflazione e spingendo le banche centrali alla prudenza. Lunedì mattina il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, da sempre un sostenitore di un taglio rapido dei tassi, ha fatto capire che lo scenario è già cambiato, e non solo per lui: la pensano così la gran parte dei venti governatori della zona euro.
Fino a poche settimane fa ai piani di Francoforte erano programmati due, se non tre, riduzioni ulteriori dei tassi entro la fine del 2025. Ora è tutto in discussione, e il taglio previsto per questo mese è finito nel cassetto. Non c’è giorno nel quale Meloni non debba affrontare messaggi preoccupati del mondo delle imprese. L’ipotesi di rinvio del voto in Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia e l’accorpamento alle amministrative del 2026 serve anche a prendere tempo nella speranza che la tempesta passi.
Lo scenario per Meloni è aggravato da altri due fattori: la decisione dell’Unione di derogare al patto di Stabilità per aumentare le spese militari e quella immediatamente successiva della Germania di rivedere la regola sul debito. Se da un lato l’aumento della spesa pubblica tedesca può dare un po’ di ossigeno alla crescita – anche quella italiana – dall’altra gli investitori sono stati costretti a dare un prezzo al maggior rischio indotto dalle previsioni di aumento del debito tedesco.
Se aumenta il costo per finanziare il debito tedesco, sale quello di tutti gli altri Paesi dell’area della moneta unica. I Buoni del tesoro decennali sono già risaliti fino a toccare il quattro per cento, e il Tesoro stima un aumento strutturale della spesa per interessi di almeno tre miliardi di euro l’anno. Stessa sorte è toccata ai titolo francesi e spagnoli.
(da agenzie)

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