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GLI ITALIANI AVEVANO FIDUCIA IN BERGOGLIO, NON NELLA CHIESA, PAPA FRANCESCO AVEVA IL GRADIMENTO DEL 58% DELLA POPOLAZIONE, SUPERATO SOLO DA MATTARELLA E DALLE FORZE DELL’ORDINE

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

ILVO DIAMANTI: “PARALLELAMENTE IL GRADO DI FIDUCIA NELLA CHIESA ERA AL 33%”… LA FIDUCIA IN BERGOGLIO TRA GLI ELETTORI: AL 65% TRA CHI VOTA PD, SOLO AL 52% TRA I LEGHISTI

Papa Francesco se n’è andato, ma il suo esempio rimane vivo. Dopo oltre un decennio durante il quale ha svolto la sua missione in modo condiviso. Dagli italiani e, in particolare, fra i cattolici. Soprattutto, fra coloro che vanno a messa regolarmente, ogni domenica. Come mostra, in modo chiaro, il sondaggio condotto alcuni mesi fa, da LaPolis-Università di Urbino-Carlo Bo, con Demos e Avviso Pubblico.
Un’indagine ancora attuale. Perché ripercorre il sentimento degli italiani nel corso degli anni. Fino a poco tempo fa.
Come mostra una ricerca dell’Istat, la frequenza alla messa, in Italia, riguarda ormai meno di una persona su cinque. E ciò significa circa la metà, rispetto a 20 anni prima. Una tendenza destinata a proseguire, visto che cresce parallelamente al calo dell’età. Fra coloro che hanno meno di 25 anni, infatti, l’indice tocca il livello minimo: 10%. Così non sorprende che, la fiducia nel Papa, per quanto in costante declino, dopo l’arrivo di Bergoglio, sia rimasta molto più elevata, rispetto a quella espressa nei confronti della Chiesa.
Nell’ultima indagine sul rapporto fra “Gli italiani e lo Stato”, pubblicata alla fine dello scorso anno, Papa Francesco otteneva ancora il gradimento di oltre metà degli italiani: il 58%. Superato, fra le istituzioni, solo dal Presidente Mattarella e dalle Forze dell’Ordine. Che, come il Pontefice, rispondevano e rispondono a una generale domanda di sicurezza e rassicurazione.
Negli anni precedenti, peraltro, aveva raggiunto livelli più elevati. Prossimi alla totalità dei cittadini: quasi il 90%. “Parallelamente” il grado di fiducia nella Chiesa si era mantenuto più basso. Non molto superiore alla metà. A conferma di una tendenza più generale. La personalizzazione. Che ha coinvolto tutti i principali soggetti sociali e politici. E le stesse istituzioni. Il consenso condiviso dai cittadini nei confronti del Pontefice e del Presidente risultava, infatti, praticamente doppio rispetto allo Stato e alla Chiesa.
Tra i credenti – coloro che hanno “fede” – la “fiducia” (una variante, anche lessicale, della fede) cresce infatti, in modo sensibile. In misura proporzionale alla frequenza alla messa. Fino a toccare il 75%, quindi 3 persone su 4, fra quanti dichiarano una frequenza costante e regolare. Per scendere al 59% fra
coloro che partecipano saltuariamente. E al 30% presso i “non praticanti”.
Questo orientamento si riflette sul piano dell’età. La pratica religiosa raggiunge, infatti, il livello più elevato fra coloro che hanno 65 anni (e oltre): 87%. Cioè, pressoché tutti. E “cade” quando si scende di sotto i 55 anni: 44%. Fino a scivolare al 38-39% tra i più giovani (o meno anziani). Sotto i 45 anni.
Gli orientamenti politici hanno un impatto meno evidente. Perché la “fede” non ha un colore politico definito e definitivo. L’associazionismo e la partecipazione, infatti, hanno avuto e mantengono un peso significativo anche tra le forze politiche di Centro-Sinistra. Il Pd, in particolare. Erede dei principali partiti di massa della Prima Repubblica, il Pci e la Dc.
Non per caso il Pd sorge nel 2007 dalla confluenza dei Ds e della Margherita. Ma un sostegno altrettanto consistente giunge dal Centro Destra. In particolare, da Forza Italia. Tuttavia, il consenso per Papa Bergoglio appare politicamente “trasversale. Supera il 60% fra chi si dice vicino al Pd, FI, Azione. E tra Fd’I.
Poco più limitato, nella base dell’AVS e del M5s. Infine, appena sopra il 50% è l’appoggio fra chi si pone accanto alla Lega di Salvini. Da sempre in dissenso con alcune posizioni espresse da Papa Francesco, in particolare in merito all’accoglienza dei migranti. Che, da sempre, costituisce una bandiera della politica leghista. Per questo motivo Salvini non ha mai nascosto la sua preferenza per il predecessore: papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger.
Così Papa Francesco ha costituito un punto di unione e divisione fra gli italiani. Ben oltre i motivi religiosi. Per ragioni etiche e di valore. È stato il “Papa di tutti”.
(da La Repubblica)

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C’È UN IMBUCATO AL CONCLAVE: EMMANUEL MACRON. HA RICEVUTO I CARDINALI ELETTORI FRANCESI A VILLA BONAPARTE: TRA LORO, IL “FAVORITO” DEL PRESIDENTE SAREBBE JEAN-MARC AVELINE, ARCIVESCOVO DI MARSIGLIA

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

L’ULTIMO PONTEFICE TRANSALPINO FU GREGORIO XI, CHE NEL 1377 RIPORTÒ IL PAPATO DA AVIGNONE A ROMA MA LE AMBIZIONI DI MACRON SONO PIÙ TERRA TERRA: BLOCCARE LA NOMINA DI UN CONSERVATORE GRADITO A TRUMP E ALLA DESTRA AMERICANA

Macron ha approfittato della sua presenza a Roma per mettere mano, in questo caso più discretamente, a un altro dossier importante, quello del conclave. Chi sarà il nuovo Papa? La linea per certi versi progressista di Bergoglio, non sgradita a Macron nonostante le differenze sull’Ucraina, sarà confermata o il successore imprimerà una svolta conservatrice, magari su influenza della chiesa americana?
Il presidente francese sembra volere seguire da vicino non solo l’evoluzione dei negoziati sull’Ucraina ma anche l’elezione del Pontefice.
Appena salutato Zelensky, sabato Macron ha ricevuto a Villa Bonaparte i cardinali francesi che voteranno nel conclave per un pranzo in compagnia dell’ambasciatrice Florence Mangin.
Tra loro, nella ricostruzione del Figaro , Jean-Marc Aveline, l’arcivescovo di Marsiglia che sarebbe il preferito del presidente. Poi il vescovo di Ajaccio, François Bustillo, il nunzio apostolico negli Stati Uniti, Christophe Pierre, e l’arcivescovo emerito di Lione, Philippe Barbarin (accusato anni fa di avere coperto abusi su minori e poi prosciolto, ndr ).
L’altro votante, Dominique Mamberti, era assente dal pranzo perché ha assistito alla sepoltura di Francesco a Santa Maria Maggiore. Nonostante ripetuti inviti, in questi anni Macron non è mai riuscito ad avere Bergoglio in visita a Parigi, neanche nel momento più importante, la riapertura della cattedrale di Notre
Dame (in quell’occasione il Papa preferì andare in Corsica, una settimana dopo).
Un Pontefice di nuovo francese, dopo Gregorio XI che riportò il papato da Avignone a Roma (1377), sarebbe uno straordinario colpo di soft power per Macron, che in qualità di capo di Stato francese è anche «protocanonico d’onore» della basilica di San Giovanni in Laterano.
L’antica tradizione della Francia come «figlia primogenita della Chiesa» (in virtù della conversione di Clodoveo re dei Franchi nel 496) è tornata di attualità in questi giorni, assieme alle polemiche per le bandiere listate a lutto in tutto il Paese.
Pratica abituale per la morte dei Papi, ma ogni volta contestata a sinistra perché poco coerente con la «laicità» dello Stato — la neutralità rispetto alle religioni —, dogma qualche volta intoccabile e altre volte, quando si vuole, adattabile alle circostanze, magari in virtù di qualche acrobazia intellettuale.
La laicità sarà anche il cardine su cui poggia lo Stato francese, ma l’attivismo vaticano di Macron preoccupa non solo a sinistra.
Secondo La Tribune Chrétienne , media vicino agli ambienti del cattolicesimo tradizionalista, l’importante cardinale ungherese Péter Erdö avrebbe sottolineato i contatti recenti tra Macron e i cardinali francesi «per sbarrare la strada alla candidatura di Robert Sarah», il cardinale guineano beniamino dell’estrema destra.
(da Il Corriere della Sera)

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CANADA, L’ECONOMISTA IN GRIGIO CHE HA CONVINTO IL PAESE: «NOI MAI UNO STATO USA»

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

Il Partito che a gennaio pareva ormai agonizzante, spinto alla catastrofe da un
Trudeau invecchiato e sempre meno amato, è oggi risorto dalle ceneri grazie al nuovo condottiero, un ex banchiere e business executive di 60 anni, mai eletto a una carica politica. La quintessenza dell’uomo in grigio, lontano anni luce dal glamour che fece trionfare Trudeau nel 2015.
Unico guizzo noto: un tempo giocava a hockey. Eppure l’economista serio e noioso è riuscito a convincere i canadesi che solo lui ( forse) potrà domare il capriccioso Trump. «Mark è infaticabile, calmo, sempre pronto alle sfide», lo presenta la moglie. Lui, poco carismatico ma convincente, prosegue: «Trump non è solo una minaccia economica ma esistenziale. Sta cercando di distruggerci. Vuole le nostre risorse, la nostra acqua, la nostra terra, il Paese. È una tragedia».
Poi, la stoccata al rivale, che continua a paragonarlo a Trudeau e piace di più ai giovani. «Io non sono un politico di carriera, so negoziare. Poilievre non ha alcun piano per affrontare Trump». D’altronde, solo tre giorni fa Carney ha ammesso che nell’unica telefonata con la Casa Bianca, a marzo, il presidente Usa ha ribadito che il Canada dovrebbe diventare il 51esimo stato Usa.
Se l’ex guru della finanza globale è superfavorito dai bookmakers nel duello con Poilievre deve ringraziare «il fattore Trump». Il Partito liberale è andato sul sicuro per vincere il logorio del potere, scegliendo alle plenarie di marzo un economista, maschio, bianco, con ottimi agganci a Wall Street. Carney ha fama di essere un abile negoziatore, in grado di difendere l’export canadese (l’80% va verso gli Usa) e ha spostato il partito verso il centro, rottamando la carbon tax, la più importante iniziativa ambientale di Trudeau.
Ha confermato i contro-dazi agli Usa e ha subito visitato Londra e Parigi, non Washington. Dietro la massiccia svendita di Bot del Tesoro americano sui mercati globali, che hanno spinto Trump a una frettolosa retromarcia su alcune misure, ci sarebbe proprio la sua mano.
Il tallone d’Achille è Pechino, con cui Carney ha avuto spesso a che fare in qualità di dirigente della Brookfield Asset Management, colosso con importanti investimenti in Cina. Ma i canadesi sembrano pronti a perdonargli il passato da mastino della finanza purché li porti fuori dalla burrasca. Come fece da capo della Banca centrale durante la crisi del 2008. O come quando timonò la Banca d’Inghilterra, primo straniero della storia, nella tempesta della Brexit.

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IL VOTO IN CANADA È UN REFERENDUM CONTRO TRUMP: OGGI LE ELEZIONI LEGISLATIVE PER RINNOVARE I 343 SEGGI DELLA CAMERA CANADESE

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

IN POCHE SETTIMANE, COME EFFETTO DEI DAZI IMPOSTI DA “THE DONALD”, IL CANDIDATO LIBERALE, MARK CARNEY, HA RECUPERATO OLTRE 20 PUNTI DI DISTACCO DAL POPULISTA PIERRE POILIEVRE … CARNEY, EX GOVERNATORE DELLA BANCA DEL CANADA, È UN ECONOMISTA GRIGIO E SENZA ESPERIENZA POLITICA, MA HA SFRUTTATO IL CLIMA ANTI-AMERICANO: “TRUMP NON È SOLO UNA MINACCIA ECONOMICA MA ESISTENZIALE. STA CERCANDO DI DISTRUGGERCI

Ho cambiato marca di dentifricio e biscotti, yogurt e shampoo e pure il tipo di mele. Non compro più nulla “Made in Usa”». Alla vigilia del voto Claire Tremblay, 62 anni, si aggira armata di lente d’ingrandimento fra gli scaffali di Farm Boy, il supermercato su Metcalfe Street, nel cuore di Ottawa, a meno di un chilometro dal Parlamento in stile neogotico che i canadesi oggi sono chiamati a rinnovare.
Gira la confezione di cosce di pollo e legge con attenzione l’etichetta: «Non lo avevo mai fatto prima dell’annuncio dei dazi che Trump ci ha imposto e delle sue parole sul Canada come 51esima stella. Consideravo gli americani una sorta di cugini»
Nel supermercato non è la sola.
Il boicottaggio partito a febbraio s’è ormai trasformato nel movimento “Buy canadian”, compra canadese, cui negozianti e supermercati partecipano indicando alternative locali applicando adesivi con la foglia d’acero ai prodotti. Molti hanno rimosso gli alcolici statunitensi. Gli utenti cancellano gli abbonamenti a Netflix e Amazon Prime e le vacanze in America. Mentre le minacce ribadite da Trump pure due giorni fa hanno provocato un nuovo scatto d’orgoglio: lo vedi dalle bandiere bianche e rosse, appese a ogni finestra.
Qui l’ombra di Donald Trump non pesa solo sul carrello della spesa. Lo scorso 23 marzo le minacce hanno convinto il neo-premier Mark Carney, che aveva sostituito il dimissionario Justin Trudeau solo 9 giorni prima, ad anticipare le legislative previste a ottobre
Nell’ultimo anno, in cima ai sondaggi c’era infatti sempre stato il bellicoso leader conservatore Pierre Poilievre: a gennaio in vantaggio addirittura di 24 punti grazie ai duri attacchi contro Trudeau, cui imputava il crescente costo della vita e degli alloggi, l’eccessiva immigrazione, la controversa tassa sulle emissioni.
Poi, le dimissioni del Liberal per 10 anni alla guida del Paese, la sostituzione in corsa con Carney — ex governatore della banca del Canada che ha traghettato pure quella d’Inghilterra in piena Brexit — e le provocazioni di The Donald hanno cambiato le cose. Mettendo in difficoltà i conservatori la cui retorica era tragicamente simile a quella trumpiana su temi come immigrazione e sicurezza.
In breve, il vantaggio di Poilievre è evaporato. Gli indecisi gli hanno voltato le spalle, e l’ultimo sondaggio dà ora i Liberal in (lieve) vantaggio, 42 con tro il 38,5 dei conservatori. «Fino a poche settimana fa la gente pensava a inflazione e costo della vita. Oggi s’interroga sulla futura esistenza del Paese» riflette il politologo André Lecours incontrandoci in un’aula al settimo piano della facoltà di Scienze Politiche della Ottawa University.
«Trump ha fatto l’impossibile, trasformando un contesto ostile al partito di governo in uno in cui i Liberal aspirano alla maggioranza assoluta. Pure gli elettori dei partiti minori sembrano pronti a puntare su un unico candidato forte. La rivoluzione populista ha perso appeal: si cerca un leader capace di parlare la lingua economica che Trump comprende».
In un Paese dove il premier non è scelto dal popolo, il voto si è dunque trasformato in una sorta di referendum su quale dei due leader saprà meglio condurre la trattativa futura. I loro stili sono d’altronde opposti, come i cartelli rosso-Liberal e blu-conservatori che si fronteggiano al crocevia fra Hope Side e Old Richmond Road, confine fra il distretto industriale di Nepean, tutto capannoni e case a schiera, dove Carney (che abita in un’area lussuosa) sfida la poliziotta Barbara Bal. E il rurale Carleton, dove Poilievre vive e ha già vinto sette volte. Ma ora fronteggia Bruce Fanjoy, dotato di volontari molto ben organizzati.
Certo, nonostante un curriculum di tutto rispetto, Carney è politico di primo pelo, e l’inesperienza s’è vista nelle risposte rigide e complesse ai dibattiti. Capace però di trasformare una metafora sportiva in slogan condiviso: «Elbow up», in alto i gomiti, in onore della tecnica di difesa aggressiva del campione di hockey Gordie Howe.
Poilievre, non ha invece reagito con tempismo al cambiamento: continuando a battere sul «decennio liberal perduto» fino a farsi rispondere da Careny: «Io non sono Trudeau». Incapace di prendere nettamente le distanze da Trump, ha finito per scatenare a polemiche all’interno del suo stesso partito: accusato di riservare attacchi più feroci ai progressisti che alla Casa Bianca.
(da agenzie)

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L’UFFICIO STAMPA DI GIORGIA MELONI HA TENTATO DI SPINGERE I GIORNALISTI A DARE SPAZIO ALLA VERSIONE CHE VUOLE MACRON RIMBALZATO DAL VERTICE TRUMP-ZELENSKY, IN VATICANO, UNA VERSIONE CHE FA A PUGNI CON IL VIDEO DELL’INCONTRO TRA I PRESIDENTI NELLA BASILICA DI SAN PIETRO

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

LA FAMIGERATA “TERZA SEDIA” (CHE I MELONIANI SOSTENGONO FOSSE PER MACRON MENTRE ALTRI AFFERMANO FOSSE L’INTERPRETE) SPARISCE BEN PRIMA CHE TRUMP POSSA DIRE “NO” AL TOYBOY DELL’ELISEO…COSA NON FANNO I SERVI PER NASCONDERE CHE MACRON HA FREGATO LA LORO AMATA PREMIER

La verità non esiste: è sempre solo un punto di vista. Più spesso una questione di tifoserie. Si prenda per esempio il caso del “giallo delle sedie” al Vaticano: nel vertice improvvisato tra Zelensky e Trump, prima del funerale di Papa Francesco, ne erano state preparate tre, una per il presidente ucraino, una per quello americano e la terza?
Alcuni sostengono fosse per un eventuale interprete, altri malignano che fosse per il Toyboy dell’Eliseo, smanioso di imbucarsi.
Una versione, questa, che è stata molto “spinta” ai giornalisti dagli spin doctor di palazzo Chigi.
Si mormora, infatti, che dall’ufficio stampa di Giorgia Meloni siano partiti molti messaggini a giornalisti e cronisti “d’area” per dare spazio alla “figuraccia” rimediata dal presidente francese. Il tutto, ovviamente, per coprire la rosicata cosmica della Ducetta, rimasta fuori da ogni foto e video dall’interno della Basilica di San Pietro.
I meloniani ci tenevano a far passare Macron come uno sfigatello rimbalzato dal Caligola di Mar-a-Lago in un maldestro tentativo di partecipare al faccia a faccia. A dare man forte alla linea dei trombettieri del governo, sono scesi in campo alcuni troll melonian-trumpiani sempre pronti a scudisciare l’odiatissimo “Mounsier arrogance”.
L’altra versione dei fatti, invece, mette in risalto il ruolo di cerimoniere di Macron, che va a salutare Zelensky e Trump (a cui abilmente evita di stringere la mano), riuscito a fare gli onori di casa persino in Vaticano.
Il “mistero” della terza sedia, apparsa e poi molto rapidamente sparita, sembra meno oscuro di quanto inizialmente evocato.
Quando Macron parlotta con Trump e Zelensky, infatti, la poltroncina viene messa via in tempo reale. Ben prima che gli addetti vaticani potessero ascoltare il discorso tra i presidenti, compreso l’eventuale “no” di Trump a Macron.
(da Dagoreport)

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NORDIO NE HA COMBINATA UN’ALTRA: IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA SOSTIENE CHE SULLA MANCATA TRASMISSIONE DEL MANDATO DI CATTURA DI PUTIN ALLA PROCURA GENERALE DI ROMA “NON C’È STATA NESSUNA ANOMALIA

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

MA I TECNICI DEL SUO MINISTERO, IN NUMEROSE LETTERE, AVEVANO SPIEGATO AL GUARDASIGILLI COME FOSSE “NECESSARIO” PROCEDERE PER EVITARE DI RICEVERE UNA SANZIONE, LA STESSA CHE TRA L’ITALIA RISCHIA PER IL CASO ALMASRI

“È necessario procedere alla trasmissione alla procura generale di Roma della documentazione ricevuta dall’Aja” sui mandati di cattura per Vladimir Putin e gli altri cittadini russi accusati di crimini contro l’umanità
A scriverlo sono i tecnici di via Arenula in diverse note inviate al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ieri si è arrampicato in una difesa goffa per spiegare che non c’era nulla di anomalo nel non aver trasmesso gli atti ricevuti dalla Corte penale su Putin e gli altri dirigenti russi del Cremlino.
“Notizie totalmente destituite di fondamento, non c’è stata nessun anomalia” ha detto il ministro sostenendo che la procedura scatta soltanto quando la persona arriva nel territorio italiano.
I tecnici del ministero della Giustizia non la pensano però come Nordio. Tanto che la questione – come Repubblica è in grado di documentare – è oggetto di un lungo carteggio con gli uffici.
In diverse lettere i tecnici spiegavano come le carte ricevute dall’Aia dovessero essere subito trasmesse alla procura generale per evitare di ricevere una sanzione, la stessa che tra l’altro l’Italia ora rischia in una vicenda per molti tratti simile, quella cioè del criminale libico Almasri, rispedito a casa nonostante un ordine di cattura all’Aia.
Repubblica ha potuto visionare diverse note interne nelle quali non si lascia spazio al dubbio sulla posizione dei tecnici di via Arenula. “In ottemperanza all’obbligo di cooperazione con la corte penale internazionale derivante dallo Statuto di Roma” si legge, “è necessario procedere alla trasmissione alla
procura generale di Roma”.
Lo si deve fare sulla base “della legge numero 237” che al “comma terzo dell’articolo 2” spiega come “il ministero della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale trasmettendole al procuratore generale presso la corte di appello” in “tempi rapidi”.
Gli atti documentano inoltre come vi siano stati diversi solleciti proprio per il mandato emesso il 17 marzo dalla corte penale nei confronti di Vladimir Putin inizialmente si era anche proceduto alla trasmissione degli atti per poi, però, ritornare sulla decisione perché l’articolo 2 della legge 237 prevede che il “ministero della Giustizia concordi la propria azione con altri ministri interessati e con altri organi dello Stato”. Perché quindi Nordio non ha proceduto e si è fermato? E’ stato qualche collega del governo a chiederglielo o Chigi?
Quelli su Putin e Llova-Belova sono soltanto due dei documenti fermi in via Arenula. Non sono stati trasmessi nemmeno i provvedimenti contro il tenente generale Sergei Ivanovich Kobylash, già comandante dell’aviazione delle Forze aeree, e l’ammiraglio della Marina Viktor Sokolov. Mentre a giugno 2024 altri due mandati contro il ministro della Difesa Serghei Shoigu e il viceministro Valery Gerasimov sono arrivati al ministero e mai mandati al tribunale per poter poi procedere.
Sono tutti atti che Nordio e il suo gabinetto hanno deciso di bloccare. Mentre i suoi tecnici gli dicevano che avrebbero dovuto essere trasmessi alla Corte. Per inciso sono gli stessi tecnici che sul caso Almasri sostenevano che dovesse essere emesso un nuovo mandato di cattura, per evitare la scarcerazione. E che non sono stati ascoltati.
(da La Repubblica)

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DA QUESTA MATTINA CALTAGIRONE HA I SUDORI FREDDI: SE L’OPERAZIONE DI ALBERTO NAGEL ANDRÀ IN PORTO (SBARAZZARSI DEL “TESORETTO” DI MEDIOBANCA ACQUISENDO BANCA GENERALI DAL LEONE DI TRIESTE), L’82ENNE IMPRENDITORE ROMANO AVRÀ BUTTATO UN PACCO DI MILIARDI PER RESTARE SEMPRE FUORI DAL “FORZIERE D’ITALIA’’

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

UN FALLIMENTO CHE SAREBBE PIÙ CLAMOROSO DEI PRECEDENTI PERCHÉ ESPLICITAMENTE SOSTENUTO DAL GOVERNO MELONI… A DONNET NON RESTAVA ALTRA VIA DI SALVEZZA: DARE UNA MANO A NAGEL (IL CEO DI GENERALI SBARRÒ I TENTATIVI DI MEDIOBANCA DI ACQUISIRE LA BANCA CONTROLLATA DALLA COMPAGNIA) – L’ULTIMA SPERANZA DI CALTARICCONE: ESSENDO MEDIOBANCA SOTTO OPS DI MPS, A DECIDERE LA DEROGA DAL ‘’PASSIVITY RULE’’ SARÀ L’ASSEMBLEA: SE IN FORMA ORDINARIA (A MAGGIORANZA), CALTAPERDE; SE STRAORDINARIA (CON I DUE TERZI DEL CAPITALE PRESENTE), CALTAVINCE

Da questa mattina Caltagirone ha i sudori freddi: se la mossa di Nagel andrà a dama, i suoi tentativi di scalare Generali rischiano il terzo flop (questo sarebbe il più clamoroso perché esplicitamente sostenuto dal Governo Meloni).
Infatti, una volta conquistata una Mediobanca deprivata del suo “tesoretto” di Generali, che ci fa, la birra? L’82enne imprenditore-editore romano avrà buttato un pacco di miliardi per restare sempre fuori dal “Forziere d’Italia’’.
Cedendo la propria partecipazione nel Leone di Trieste (13,04%), valutata 6,3 miliardi, in cambio della controllata della compagnia assicurativa, Banca Generali, Philippe Donnet ha finalmente capito che doveva dare una mano ad Alberto Nagel. (In passato, il Ceo di Generali sbarrò i tentativi di Mediobanca di acquisire la banca. E stamattina l’ha ricordato in conferenza stampa lo stesso Nagel).
Del resto, a Donnet non restava altra via di salvezza: una volta espugnato l’istituto di Piazzetta Cuccia da parte dei “caltagironesi” di Palazzo Chigi, con il cavallo di Troia di Mps, la vittoria di venerdì 24 aprile all’assembra di Generali potrebbe trasformarsi in polvere nel giro di pochi mesi.
L’operazione Nagel-Donnet, tecnicamente impeccabile, pone però due interrogativi. Primo: essendo Mediobanca sotto Ops di Mps, l’operazione Banca Generali è subordinata all’approvazione dell’assemblea per l’autorizzazione alla deroga del ‘’passivity rule’’, la regola che impedisce “iniziative difensive” per ostacolare scalate esterne.
A decidere la deroga sarà l’assemblea di Piazzetta Cuccia in forma ordinaria (a maggioranza) o straordinaria (che richiede i due terzi del capitale presente)?
Con la straordinaria, per Calta & Milleri sarebbe un gioco aggiungere un 3% al loro “pacchetto” del 27% e bloccare la mossa di Nagel.
Indiscrezioni milanesi sostengono che sarà sufficiente un’assemblea ordinaria poiché non ci troviamo di fronte a un aumento di capitale o modifiche allo statuto.
L’altro interrogativo non preoccupa Nagel&Donnet più di tanto: l’Ivass, l’istituto che vigila sul mercato assicurativo, non avrà nulla da eccepire al fatto che Generali aumenti considerevolmente le azioni proprie detenute?
Ed oggi è un giorno importante per il risikone bancario anche perchè vede la conferma di Carlo Messina a supremo capoccione di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana minacciata dal diabolico Andrea Orcel di Unicredit. Il risiko continua…
( da Dagoreport)

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OLTRE 200 GIURISTI BOCCIANO IL DECRETO SICUREZZA: “E’ PERICOLOSO, VIOLA LA COSTITUZIONE”

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

“COMPRIME NUMEROSI DIRITTI FONDAMENTALI”

Il decreto Sicurezza “viola le prerogative costituzionali garantite al Parlamento, punta a reprimere il dissenso e comprime alcuni diritti fondamentali , tassello fondamentale in qualunque democrazia”. Lo scrivono 237 giuspubblicisti di tutte le Università italiane che hanno lanciato un appello pubblico contro il provvedimento varato dal governo Meloni.
Sin dai suoi primi passi, il dl Sicurezza è stato al centro di critiche e polemiche. Inizialmente redatto nella forma di un disegno di legge, il testo è stato poi trasformato in un decreto legge dall’esecutivo per superare l’empasse del Parlamento ed essere approvato subito. Le norme, che riguardano diversi ambiti (dal carcere alle manifestazioni, fino alla cannabis light e ai servizi), sono già entrate in vigore, ma il Parlamento ha ancora poco meno di due mesi di tempo per convertire il decreto in legge.
Tuttavia, i giuristi hanno evidenziato l’incostituzionalità del provvedimento e invitato gli organi di garanzia a tenere alta l’attenzione. Per i firmatari, “si tratta di un disegno estremamente pericoloso” ed è motivo “di ulteriore preoccupazione il fatto che questo disegno si realizzi attraverso un irragionevole aumento qualitativo e quantitativo delle sanzioni penali che – in quanto tali – sconsiglierebbero il ricorso alla decretazione d’urgenza”, che è stata utilizzata per adottarlo. “Numerosi sono i principi costituzionali che appaiono compromessi”, hanno dichiarato i giuspubblicisti che citano “il principio di uguaglianza che non consente in alcun modo di equiparare i centri di trattenimento per stranieri extracomunitari al carcere o la resistenza passiva a condotte attive di rivolta”.
E ancora sarebbe in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione e la tutela della libertà personale “il cosiddetto daspo urbano disposto dal questore che equipara condannati e denunciati; non meno preoccupante è la previsione con cui si autorizza la polizia a portare armi, anche diverse da quelle di ordinanza e
fuori dal servizio”. Una serie di disposizioni del decreto inoltre, “aggravano gli elementi di repressione penale degli illeciti addebitati alla responsabilità di singoli o di gruppi solo per il fatto che l’illecito avvenga “in occasione” di pubbliche manifestazioni, disposizione che per la sua vaghezza contrasta con il principio di tipicità delle condotte penalmente rilevanti, violando per giunta la specifica protezione costituzionale accordata alla libertà di riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico”, hanno rilevato . “Torsione securitaria, ordine pubblico, limitazione del dissenso, accento posto prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e sui diritti rappresentano le costanti di questi interventi”.
Non si tratta del primo grido d’allarme da parte del mondo giuridico nei confronti del decreto Sicurezza. Qualche settimana fa l’Associazione nazionale magistrati aveva riscontrato “profili di incostituzionalità” e criticato alcune delle misure previste. Oggi i giuristi sono tornati a denunciarne l’illegittimità.
“Il “Decreto Sicurezza” viola la nostra Costituzione. Non c’era né la necessità né l’urgenza di trasformare questo disegno di legge in un decreto, l’ennesimo dl di un governo che continua impunemente a calpestare la democrazia parlamentare e le prerogative delle Camere”, ha commentato il segretario di +Europa, Riccardo Magi. “Una forzatura giustificata solo dall’urgenza di Giorgia Meloni di comprimere diritti e libertà dei cittadini. Come +Europa lo avevamo detto fin dall’inizio: questo provvedimento è incostituzionale. Abbiamo presentato una pregiudiziale di costituzionalità in sede di conversione del decreto, ovviamente bocciata da questa maggioranza. Non ci fermeremo e siamo pronti a ogni azione nonviolenta, dai ricorsi al referendum abrogativo, per bloccare la torsione autoritaria che questo provvedimento imprime”.
(da agenzie)

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OGNI ANNO IN ITALIA CI SONO 7 MILA MORTI PER COLPA DELL’AMIANTO E DELLE MALATTIE CORRELATE (200 MILA NEL MONDO)

Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile

“IL BANDO GLOBALE DELL’AMIANTO CHE SEMINA MORTE È ANCORA UNA UTOPIA. CI SONO FAMIGLIE SPEZZATE OGGI. TROPPI SONO STATI SACRIFICATI NEL NOME DEL PROFITTO. NON È PIÙ AMMISSIBILE CHE CI GOVERNI LA LOBBY DEI PRODUTTORI DEL MINERALE KILLER E CHE LE BONIFICHE VADANO A RILENTO”

Domani è la Giornata mondiale in memoria delle vittime dell’amianto, e la strage continua. Più di 200 mila mila decessi per malattie amianto correlate nel mondo, dati rilevati con preoccupazione dall’Onu che riteniamo siano sottostimati perché non considerano gli Stati ‘canaglia’ che omettono di segnalare e registrare i casi di malattia e morte per amianto, e dei decessi per esposizione ambientali”.
Lo sottolinea Ezio Bonanni, Presidente Osservatorio Nazionale Amianto, che riferisce di “7 mila morti solo nel nostro paese nell’ultimo anno, e il bando globale dell’amianto che semina morte è ancora una utopia. Sono numeri che non appartengono al passato. Sono volti, storie, famiglie spezzate oggi. Molti non sapevano, altri sono stati ignorati. Troppi sono stati sacrificati nel nome del profitto. Non è più ammissibile che ci governi la lobby dei produttori del minerale killer e che le bonifiche vadano a rilento, nonostante la chiara presa d’atto di tutte le Istituzioni”. L’Italia ha messo al bando l’amianto nel 1992.
“Ma l’amianto non ha ancora messo al bando l’Italia – aggiunge Bonanni -. Questa giornata nazionale non è solo memoria. È un grido. Un richiamo alla responsabilità, alla bonifica, alla giustizia per le vittime e alla tutela di chi oggi vive, lavora, studia in luoghi contaminati. In questa giornata, ricordiamo i caduti invisibili dell’amianto. E riaffermiamo un impegno: mai più profitto sulla pelle delle persone. Mai più silenzio. Mai più vittime”.
(da agenzie)

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