Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
“PER GIORNI ABBIAMO DETTO AI NOSTRI AMICI PIÙ STRETTI CHE PER NOI NON ERANO DIVERSI DALLA CINA O DALLA RUSSIA. PENSATE CHE QUESTI EX ALLEATI SI FIDERANNO MAI PIÙ DI METTERSI IN TRINCEA CON QUESTA AMMINISTRAZIONE?”
Ho molte reazioni all’aver visto il presidente Trump sostanzialmente cedere sul suo
piano scriteriato di imporre dazi al mondo intero, ma una, in particolare, continua a tornarmi in mente: se assumi dei pagliacci, devi aspettarti un circo. E, miei cari americani, noi abbiamo assunto un gruppo di pagliacci.
Pensate a ciò che Trump, il suo capo buffone Howard Lutnick (il segretario al Commercio), il suo vice buffone Scott Bessent (il segretario al Tesoro) e il suo vice assistente buffone Peter Navarro (il principale consigliere per il commercio) ci hanno ripetuto per settimane:
Trump non avrebbe fatto marcia indietro su questi dazi perché — scegliete voi — gli servono per impedire che il fentanyl uccida i nostri figli, per raccogliere entrate da destinare a futuri tagli fiscali e per fare pressione sul mondo affinché compri più roba
da noi. E non gli importa nulla di ciò che dicono i suoi ricchi amici di Wall Street sulle perdite in borsa.
Dopo aver creato scompiglio nei mercati sostenendo questi “principi” incrollabili Trump ha fatto marcia indietro mercoledì, annunciando una pausa di 90 giorni su alcuni dazi per la maggior parte dei Paesi, tranne la Cina.
Messaggio al mondo — e ai cinesi: “Non ho retto la pressione.” Se fosse un libro, si intitolerebbe L’arte dello strillo.
Ma non pensate neanche per un momento che si sia perso solo del denaro. Anche una grande quantità di fiducia — bene inestimabile — è andata in fumo. Negli ultimi giorni abbiamo detto ai nostri amici più strettiche per noi non erano diversi dalla Cina o dalla Russia. Tutti sarebbero stati colpiti dai dazi secondo la stessa formula, senza sconti per “amici e parenti”.
Pensate che questi ex alleati si fideranno mai più di mettersi in trincea con questa amministrazione?
È stato l’equivalente commerciale del caotico ritiro dall’Afghanistan da parte dell’amministrazione Biden, un errore da cui non si è mai del tutto ripresa. Ma almeno Joe Biden ci ha tirati fuori da una guerra costosa e senza via d’uscita […]. Trump, invece, ci ha appena trascinati dentro una guerra senza via d’uscita.
È vero che abbiamo un disavanzo commerciale con la Cina che va affrontato. Trump ha ragione su questo. La Cina controlla ormai un terzo della manifattura globale e ha gli strumenti industriali per produrre praticamente tutto per tutti, un giorno, se le sarà permesso. Non è positivo né per noi, né per l’Europa, né per molti Paesi in via di sviluppo. E nemmeno per la stessa Cina
Ma quando ti confronti con un Paese grande come la Cina — 1,4 miliardi di persone — con il talento, l’infrastruttura e i risparmi che ha, puoi negoziare solo se hai leva. E il modo migliore per ottenerla sarebbe stato che Trump avesse coinvolto i nostri alleati: Unione Europea, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Brasile, Vietnam, Canada, Messico, India, Australia e Indonesia, in un fronte comune. Trasformare la trattativa in un negoziato del mondo intero contro la Cina.
Allora si dice a Pechino: Tutti noi alzeremo gradualmente i dazi sulle vostre esportazioni nei prossimi due anni per spingervi a passare da un’economia basata sull’export a una più orientata al mercato interno. Ma vi invitiamo anche a costruire fabbriche e catene di fornitura nei nostri Paesi — in joint venture al 50% — per restituirci quel know-how che voi ci avete costretto a trasferirvi. […]
Invece, Trump ha trasformato tutto ciò in un’America contro il mondo industrializzato — e contro la Cina.
Ora Pechino sa che Trump non solo ha battuto in ritirata, ma ha anche alienato i nostri alleati a tal punto, e dimostrato di essere talmente inaffidabile, che molti di loro forse non si schiereranno mai più con noi contro la Cina nello stesso modo. Potrebbero, invece, vedere nella Cina un partner più stabile e affidabile sul lungo termine rispetto a noi.
Che spettacolo patetico e vergognoso. Buona Giornata della Liberazione.
L. Friedman
per il “New York Times”
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL GIORNO DOPO LO STOP AI DAZI ANNUNCIATO DA TRUMP. IL DOLLARO SOTTO PRESSIONE CALA AI MINIMI DALL’OTTOBRE DEL 2024… I LISTINI EUROPEI INVECE VOLANO: MILANO CHIUDE IN FORTE RIALZO, AL 4,73%, BENE ANCHE PARIGI (+3,83%), FRANCOFORTE (+4,53%) E LONDRA (+3,04%)
Wall Street accentua le perdite. Il Dow Jones perde il 4,43% a 38.799,70 punti, il Nasdaq cede il 6,07% a 16.085,71 punti mentre lo S&P 500 lascia sul terreno il 5,20% a 5.172,94 punti.
Il dollaro sotto pressione cala ai minimi dall’ottobre del 2024. L’indice che misura il biglietto verde nei confronti di sei valute è in calo del 2,1%, confermando – secondo gli analisti – che il primato del dollaro nel sistema finanziario globale è messo in discussione in seguito ai dazi di Donald Trump. La debolezza del biglietto verde – osservano – riflette infatti l’attesa che i paesi diversificheranno i loro asset di riserva.
Borse europee brillanti in chiusura di seduta. Parigi ha guadagnato il 3,83% a 7.126 punti, Francoforte il 4,53% a 20.562 punti, Madrid il 4,02% a 12.299 punti e Londra il 3,04% a 7.913 punti.
Chiusura in forte rialzo per Piazza Affari. L’indice Ftse Mib ha guadagnato il 4,73% a 34.277 punti
(da agenzie)
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA RISPOSTA DEL NUOVO ASSE TRA EUROPA E CINA E INDIA, È STATA DURA E CHIARISSIMA. È BASTATO IL TRACOLLO GLOBALE DEI MERCATI E L’IMPENNATA DEL RENDIMENTO DEI TITOLI DEL TESORO USA. SE GLI INVESTITORI TROVANO ANCORA LINFA PER LE MATTANE DI TRUMP, PER GLI STATI UNITI IL DISINVESTIMENTO DEL SUO ENORME DEBITO PUBBLICO SAREBBE UNO SCONQUASSO DA FAR IMPALLIDIRE LA CRISI DEL ’29 – CERTO, VISTO LO STATO PSICOLABILE DEL CALIGOLA AMERICANO, CHISSÀ SE FRA 90 GIORNI, QUANDO TERMINERÀ LA MESSA IN PAUSA DEI DAZI, RIUSCIRÀ A RICORDARLO?
L’unica certezza, con Trump, è che non ci si annoia mai. La mattina tuitta una
minchiata, il pomeriggio la smentisce, la sera ne spara un’altra.
Uno psico-demente che ha ormai ha perso qualsiasi facoltà cognitiva, al cui confronto Biden ci appare più scaltro di Kissinger e Andreotti messi insieme.
Così, a una settimana esatta dal reboante annuncio in mondovisione dei ‘’dazi
reciproci’’ contro tutti i Paesi del mondo (San Marino compreso), il Caligola di Mar-a-Lago ha rinculato come un somaro: stop alle tariffe per 90 giorni per tutti, tranne che per la Cina, a cui Washington aumenta ancora le barriere doganali al 125%.
Il presidente americano si è evidentemente cagato sotto di fronte alla reazione dei mercati, che hanno bruciato qualcosa come 10mila miliardi di dollari in pochi giorni.
Persino i suoi più stretti alleati, come Elon Musk, una volta ben mazzolato da miliardi di perdite, gli hanno consigliato di fare un passo indietro. E così è stato.
A essere fatale, e decisiva, è stata la tensione sui titoli di Stato a stelle e strisce. Se l’asta di ieri di 39 miliardi di titoli a 10 anni è “andata bene”, dicono dalla Casa Bianca, pur con rendimenti oltre il 4%, quella a 30 anni di due giorni fa è stata un mezzo fallimento, al punto che il “Wall Street Journal” ha parlato di accoglienza “tiepida”.
E con nuove aste all’orizzonte, se lo scetticismo degli investitori verso i Bond Usa trova ancora linfa per le mattane protezioniste di Trump, per gli Stati Uniti sarebbe stato uno sconquasso economico da far impallidire la crisi del ’29.
Del resto, in Italia, ricordiamo bene come fu fatto sloggiare nel 2011 da Palazzo Chigi l’inaffidabile Silvio Berlusconi.
Bastò che Angela Merkel desse il via libera alla Deutsche Bank di gettare sul mercato 20 miliardi di titoli del Tesoro italiani BTP, per far impennare lo spread come un cavallo imbizzarrito. Quando superò 500 punti, Berlusconi si convinse che era finita e lasciò il governo nelle mani, queste sì affidabili per i poteri forti, di Mario Monti.
Dietro alla tensione sui titoli del Tesoro Usa, come racconta oggi Gianluca Paolucci sulla “Stampa”, c’è un classico schema “basis trade”: “Si tratta di una scommessa fatta da alcuni hedge fund (fondi speculativi) sulle differenze di allineamento tra i futures sul T-bond e il T- bond stesso, differenze che riflettono sbilanciamenti del mercato o limitazioni regolatorie che limitano gli arbitraggi.
Si tratta di differenze molto piccole, che per produrre grandi guadagni hanno bisogno di volumi molto elevati. E qui arriva la parte più divertente e più pericolosa. Perché il basis trade per garantire grandi guadagni viene fatto con una leva molto elevata, fino a 100 volte.
Ma in presenza di choc di esterni al mercato – come le tariffe annunciate da Trump, la scommessa non sta più in piedi e dunque i fondi hedge devono o dare nuove garanzie per coprire la loro esposizione o liquidare bruscamente le posizioni lunghe.
Questo gioco redditizio ma pericoloso vale fino a 800 miliardi di dollari. Abbastanza da far tremare i mercati. E forse, abbastanza da far cambiare idea a Trump e ai suoi consiglieri”.
Con i dazi in pausa per 90 giorni per tutti ma non per il Dragone, l’Idiota pensava di isolare il suo nemico più intimo dal ritorno di fiamma dell’Unione europea verso Pechino. Ma il pensiero strategico cinese ha chiaro l’orizzonte da perseguire sul lungo periodo (diventare la potenza egemone a livello mondiale) e i metodi per realizzarlo (usando il soft power).
Così non avrà fatto alcun piacere al Caligola americano la notizia di un interminabile colloquio telefonico, avvenuto appena due giorni fa, tra Ursula von der Leyen e il premier cinese Li Qiang disponibilissimo a riaprire il dialogo con l’Ue.
Un avvicinamento confermato dall’incontro di ieri tra la presidente della Bce, Christine Lagarde, e un alto funzionario della Banca centrale cinese.
E non va dimenticata la notizia che due settimane fa Pechino stava valutando l’ipotesi di unirsi alla ‘’coalizione dei volenterosi’’ di Starmer-Macron in vista di una potenziale missione di mantenimento della pace in Ucraina.
Un sorprendente cambio di posizione rispetto a inizio marzo, quando il Dragone aveva bocciato l’idea sottolineando di “non essere parte della crisi” in Ucraina.
Ed è già di per sé un segnale verso Mosca, che finora si è detta contraria a qualunque contingente europeo di pace aprendosi invece soltanto alla possibilità di “osservatori” disarmati per una missione civile. Pechino potrebbe infatti essere il tassello necessario a dare corpo all’iniziativa di peacekeeping delineata dalla “coalizione dei volenterosi.
Dopo l’armageddon economico messo in moto dallo svalvolato Trump, calzato l’elmetto, Ursula ha capito di dover diversificare gli sbocchi commerciali dell’Unione.
A settembre-ottobre del 2025, potrebbe definitivamente andare in porto anche l’accordo di libero scambio tra l’Unione europea e l’India, che ha già ricevuto l’ok del Consiglio europeo.
Destino simile avrà l’accordo Ue-Mercosur, con i paesi dell’America latina, che non avendo bisogno di un voto all’unanimità andrà presto in porto.
Oggi, dopo aver annunciato lo stop ai contro-dazi europei, la Commissione non a caso ha rilanciato proprio l’accordo con il Mercosur, con una postilla significativa: “in un mondo instabile, le partnership con alleati fidati in tutto il mondo siano più preziose che mai. Crediamo che gli Stati saranno molto ricettivi a questa visione, soprattutto data la turbolenza attuale”.
Con queste mosse la presidente della Commissione europea è convinta di potersi gradualmente sganciare dal mercato americano: tra Cina, India e America latina, le imprese europee dovrebbero poter continuare a esportare senza troppi drammi (in
fondo, l’export negli Stati Uniti conta solo il 27% del totale per l’Ue).
Ma l’unico paese che può mettere alle corde l’America di Trump, fino al punto di far saltare in aria, è il Dragone. E non solo perché ha la forza per esercitare una vera “ritorsione” alle minchiate sparata dallo Studio Ovale. Altro che dazi sulle Harley Davidson e la soia.
Pechino, con i suoi 759 miliardi di dollari in bond statunitensi in pancia è il secondo detentore di debito americano dopo il Giappone (Tokyo ha in portafoglio mille miliardi di dollari), e come si è visto con l’ultima asta dei Bond Usa finita in mezzo fallimento, può esercitare una pressione finanziaria ben più rilevante del gioco al rialzo sulle tariffe e contro-tariffe (le barriere doganali impennate da Xi Jinping all’84%, in risposta al 125 trumpiano).
È anche per questo che il regime comunista, in questi giorni, sta mostrando i muscoli a Trump: “No ai ricatti, combatteremo fino alla fine”. Una totale fermezza unita a una inusitata calma, ben confortata da un dato da “non ci posso credere!”: all’annuncio dei dazi da Washington, tutte le borse sono sprofondate, eccetto una: quella di Shanghai. E oggi, la borsa di Shanghai segna a fine seduta +1,16%, mentre il Composite di Shenzhen si attesta al +2,46%.
Come mai, nonostante la conferma dei dazi al 125% da parte di King Donald sull’import cinese negli Stati Uniti, Shangai non è crollata? Secondo analisti e politologi, la Cina possiede, intanto, tutte le capacità industriali per trasformarsi in un’economia autarchica. A differenza dell’Occidente, ha una capacità produttiva smisurata, un mercato interno passato dalla ciotola di riso a un menù completo e il vantaggio di un’opinione pubblica “sotto controllo”.
A Xi Jinping occorrono solo importanti rifornimenti di petrolio e gas, ben garantiti dai suoi alleati Iran e Russia. I gasdotti di Putin, infatti, hanno pompato risorse naturali a basso costo verso la Cina nel corso degli ultimi tre anni di guerra: acquisti realizzati da Xi Jinping che hanno depotenziato le sanzioni occidentali a Mosca
Dall’alto della sua storia (“L’Arte della Guerra” di Sun Tzu, scritto oltre 3.000 anni fa, resta ancora oggi un manuale per capire come Pechino affronta ogni sfida: con pazienza, visione e calcolo), la Cina riesce a interpretare più ruoli in commedia: da una parte rinsalda l’amicizia “senza limiti” con la Russia, dall’altra propone affari, investimenti e partnership in vari campi con l’Unione europea, oltre al suo ruolo dominante tra i cinque paesi che fanno parte del BRICS (India, Brasile, Sudafrica, Cina, Russia) che rappresenta il 40% della popolazione e il 32% del PIL globale.
Anche prima del ritorno alla Casa Bianca di Trump, l’obiettivo dei BRICS è sempre stato quello di rompere il monopolio statunitense, abbandonando il dollaro come
unica valuta di riferimento e andando a definire un nuovo assetto economico e politico mondiale istituendo una nuova moneta, chiamata ‘’R5’’ dalle iniziali delle valute in vigore nei cinque paesi: Real, Rublo, Rupia, Renminbi e Rand.
È probabile che la valuta sarà legata al valore dell’oro e si tratterebbe così di un clamoroso ritorno al Gold Standard. La sfida per una visione alternativa del vecchio ordine mondiale si è rafforzata quando nel 2024, il gruppo dei BRICS si è allargato includendo Iran, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Etiopia. Mentre chiariscono che “BRICS non è anti-occidentale e non siamo neanche contrari al dollaro, aggiungono: ‘’Ciò che combattiamo è il continuo dominio del dollaro in termini di interazioni finanziarie globali”.
Ecco: non siamo davanti solo a una cruenta e globale guerra commerciale per proteggere e riportare in patria le imprese, come blatera il Trumpone. La sua scervellata mossa mirava piuttosto a colpire settori strategici del nemico numero uno degli Usa, la Cina, mettere il guinzaglio ai “parassiti” europei e rallentare lo sviluppo tecnologico di potenze emergenti, come l’India.
La leva dei dazi è stata usata dall’incauto Trump per ribadire in mondovisione che il potere globale è sempre dettato da Washington. E la risposta del nuovo asse geopolitico che si sta formando è stata pronta e chiarissima. E il Caligola a stelle strisce ha sbattuto il culone per terra.
Certo, visto lo stato psicolabile del presidente americano, chissà se fra 90 giorni, quando terminerà la messa in pausa delle tariffe, riuscirà a ricordarlo? Ah, saperlo…
(da Dagoreport)
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL TESTO, APPROVATO LO SCORSO OTTOBRE DAL CONSIGLIO DEI MINISTRI, PREVEDE UN GIUDIZIO IN CAMERA DI CONSIGLIO SENZA L’INTERVENTO DELLE PARTI. MA QUESTO, SECONDO LA CORTE COSTITUZIONALE, VIOLA IL DIRITTO DI DIFESA
La nuova disciplina del processo di Cassazione sulla convalida del
trattenimento dello straniero espulso o richiedente protezione internazionale, introdotta dal decreto-legge 145 del 2024, è costituzionalmente illegittima per violazione del diritto di difesa dove dispone che trovi applicazione la norma, dettata per il processo di legittimità in materia di Mandato d’arresto europeo consensuale, secondo cui la Cassazione giudica in camera di consiglio senza intervento delle parti.
Lo ha deciso la Consulta che ha stabilito che sono invece da applicare le norme sul Mandato di arresto europeo ordinario che assicurano tempi contenuti e garanzie.
(da agenzie)
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
SE L’AVESSE FATTO L’AD DI UN’AZIENDA, SI TRATTEREBBE DI MANIPOLAZIONE DEL MERCATO. DI CERTO, CHI HA ACCOLTO IL SUGGERIMENTO HA ANTICIPATO UN RIMBALZO DA RECORD, CHE HA PORTATO L’S&P 500 A GUADAGNARE 5.400 MILIARDI DI CAPITALIZZAZIONE. E IL TITOLO DI “TRUMP MEDIA & TECHNOLOGY GROUP” A WALL STREET È SALITO DEL 21%
«Adesso è un momento grandioso per comprare!». L’invito di Donald Trump arriva
alle 0re 9,37 di mercoledì 9 aprile, ovviamente, attraverso il suo social Truth. Tre ore e mezzo più tardi il presidente statunitense annuncia il rinvio di 90 giorni dei dazi «reciproci» contro tutto il mondo che hanno sconvolto le Borse globali per cinque sedute, abbattendone il valore di oltre 10 mila miliardi di dollari.
La notizia della sospensione delle tariffe e delle trattative per evitarne l’entrata in vigore è un nuovo choc, ma di segno contrario, per gli investitori che si precipitano ad acquistare azioni a piene mani, spingendo l’S&P 500, il Dow Jones e il Nasdaq a rialzi senza precedenti.
Se si trattasse dell’amministratore delegato di un’azienda si tratterebbe di manipolazione del mercato
Sta di fatto che chi ha accolto il suggerimento di Trump è riuscito ad anticipare un rimbalzo da record che ha portato l’S&P 500 a guadagnare 5400 miliardi d
capitalizzazione nel giro di poche ore.
Pochi, del resto, scommettevano su un svolta a 360 gradi tanto repentina dopo che per giorni il presidente Usa e gli altri rappresentanti dell’amministrazione avevano detto e ribadito che non vi era alcuna possibilità di rinvio dei dazi
Il presidente aveva sottolineato anzi la necessità che gli Stati Uniti assumessero un’amara medicina per curare la malattia del deficit, mentre – pur provenendo dal settore finanziario come altri esponenti dell’amministrazione Usa – il segretario al Tesoro, Scott Bessent, aveva rimarcato la priorità assegnata dalla Casa Bianca al sostegno di Main Street, l’economia reale «dell’uomo della strada», anche a costo di sacrificare Wall Street, la finanza.
Lunedì la Casa Bianca aveva persino smentito la notizia di una moratoria di 90 giorni dei dazi che, diffusa sui social da un tal Walter Bloomberg, aveva dato il la a un violento ma breve rialzo di Wall Street. E invece l’indiscrezione dell’account anonimo di Bloomberg (niente a che vedere con l’agenzia di stampa) era corretta nella sostanza, anche se non nei tempi dell’annuncio. Quelli li poteva conoscere soltanto la persona con il potere di decidere il rinvio, il presidente degli Stati Uniti. Che nel messaggio via social ha concluso il consiglio per gli acquisti con una sigla criptica: DJT.
L’acronimo individua le azioni di Trump Media & Technology Group, l’azienda proprietaria della piattaforma Truth e controllata al 53% proprio dalla trust del presidente degli Stati Uniti. Ieri la società ha guadagnato il 21% a Wall Street dopo il rinvio dei dazi, arrivando a 4,5 miliardi di capitalizzazione.
Pochi giorni prima, l’1 Aprile, in un documento l’azienda ha comunicato al mercato che Trump e la sua famiglia potranno in futuro vendere gradualmente sul mercato gli oltre 114 milioni di azioni in loro possesso. Un tesoretto che dopo il boom di Wall Street di ieri vale oltre 2,2 miliardi di dollari.
(da agenzie)
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
“CI SONO TRE COSE CHE LA PREMIER PUÒ FARE SUBITO, PRIMA DI VOLARE IN AMERICA E INVENTARSI UN’ALTRA ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA: “SBLOCCARE L’ACCORDO SUL MERCOSUR, DARE UNA STRIGLIATA A QUEL GENIO DI ADOLFO URSO SPIEGANDOGLI CHE TRANSIZIONE 5.0 NON FUNZIONA E REINTRODURRE LA LEGGE SUL RIENTRO DEI CERVELLI ”
E dunque Donald Trump ha cambiato idea. Contrordine, i dazi sono rinviati. Anzi sospesi. Forse annullati. Nel frattempo, chi doveva speculare ha speculato. Chi poteva mangiare, ha mangiato. E ha mangiato molto. Famiglie, risparmiatori, imprenditori contano i danni di questa tempesta e sperano che torni un po’ di calma. Un po’ di sereno.
In Italia la propaganda a reti unificate e il provincialismo dei fratelli della Garbatella hanno costruito la solita narrazione. Palazzo Chigi ha raccontato che Giorgia Meloni avrebbe trattato direttamente – anche a nome dell’UE – con Trump. Media e politici hanno abboccato come già era avvenuto per Mar-a-Lago e per l’invito in ultima fila al giuramento. Chi sta leggendo L’Influencer sa che non c’è nulla di nuovo: è il solito metodo con cui la nostra Premier impone un racconto mirabolante utile solo a racimolare like e cuoricini.
Ora che i dazi sono sospesi, però, rimane il problema di un’economia bloccata. E di una crescita che il Governo ha previsto essere dimezzata. Parole di Giorgetti, eh. Bisogna darsi una smossa, comunque. Anzi: a maggior ragione. Noi siamo tra i pochi che fanno opposizione davvero. Ma siamo tra i pochissimi che fanno anche proposte.
Ci sono tre cose che Giorgia Meloni può fare subito, prima di volare in America, prima di inventarsi un’altra arma di distrazione di massa.
1 Dare una strigliata a quel genio di Adolfo Urso. Spiegargli che Transizione 5.0 non funziona. E copiare le stesse regole che avevano funzionato con noi per Industria 4.0. Migliaia di aziende hanno usato questo strumento perché con noi era semplice. Ora ci sono miliardi di euro bloccati dalla burocrazia che si sbloccano in un istante se Meloni ci ascolta. E soprattutto se lo spiega a Urso. Copiate Industria 4.0 e gli imprenditori tornano a investire.
2. Sbloccare l’accordo sul Mercosur. Il sovranismo fa danni all’Italia, la globalizzazione fa bene all’Italia. C’è un accordo con il Sud America pronto: è bloccato dal sovranismo di Meloni e Salvini. Che dite: continuiamo a pensare che i dazi siano un’opportunità o diamo una chance alla libertà nel commercio e nelle relazioni internazionali? E sbloccaci sto Mercosur, Giorgia, dai…
3 Reintrodurre il nostro regime della legge sul rientro dei cervelli che Giorgetti e Meloni hanno cambiato lo scorso anno. E se possibile fare di più: un piano di
incentivi perché non solo i giovani talenti tornino a casa ma soprattutto perché non lascino l’Italia. Altro che i soldi buttati via in Albania: quelle risorse servono a trattenere i ragazzi in Italia, specie laureati. Se i giovani se ne vanno, l’Italia è finita, dazi o non dazi.
Sono tre cose che non dipendono da Trump o dalla Commissione Europea. Dipendono da Palazzo Chigi. Se Giorgia Meloni vuol fare qualcosa di utile, prenda queste tre proposte. Sono facili, sono gratis, sono frutto di buon senso. Perché noi siamo patrioti e lavoriamo per l’Italia. Noi facciamo politica, non siamo populisti.
Dal profilo social di Matteo Renzi
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALL’ECONOMISTA MARCO SANFILIPPO, PROFESSORE ORDINARIO ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO: “QUELLI NON SONO DAZI, SONO MISURE A SOSTEGNO DELLE IMPRESE”
Diventa sempre più complessa la questione dei dazi statunitensi. Ieri l’Unione europea
ha dato ufficialmente il via libera ai primi controdazi, che entreranno in vigore il 15 aprile (con una seconda tranche a maggio e una terza a dicembre). Si tratta di tariffe che rispondono ai dazi Usa sull’acciaio e l’alluminio, e non a quelli che il presidente americano ha sospeso ieri sera.
Dopo la sospensione, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto che l’Ue “resta impegnata a condurre negoziati costruttivi”. Nel frattempo, l’escalation con la Cina continua, con dazi al 125%.
In Italia, il governo Meloni ha annunciato alcune misure per le imprese e invita alla calma. Negli ultimi giorni però molti, soprattutto nella Lega e in Fratelli d’Italia, hanno iniziato a parlare di presunti “dazi autoimposti” in Europa, che sarebbero una questione anche più urgente da affrontare rispetto alle tariffe statunitensi.
Per fare chiarezza, Fanpage.it ha fatto alcune domande a Marco Sanfilippo, professore ordinario di Economia all’Università di Torino. L’economista ha spiegato quali saranno le conseguenze delle contromisure europee, e ha smentito il governo Meloni per quanto riguarda i “dazi autoimposti”.
Giorgia Meloni e Matteo Salvini, come altri esponenti del governo, hanno detto che i dazi di Trump sono dannosi ma la vera minaccia sono i “dazi autoimposti” nell’Unione europea: le norme sul clima come il Green New Deal, le regolamentazioni… Hanno ragione, sul piano economico, o è solo un modo per rovesciare la questione e dare la colpa all’Europa?
No, non hanno ragione. Quelli non sono dazi, sono risultati di una politica industriale ragionata a livello europeo che ha un obiettivo di lungo periodo, ovvero trasformare la struttura produttiva dei Paesi Ue e indirizzarla verso tecnologie più sostenibili. Sono misure di supporto alle imprese, di cui l’Unione europea si fa carico, per
incentivare le aziende che altrimenti non avrebbero potuto o voluto fare alcuni tipi di investimenti di conversione. Non c’è evidenza che le misure del Green New Deal o del Pnrr abbiano portato una distorsione dei prezzi per i consumatori, oppure un aggravio dei costi per i produttori, e anzi lo scopo è proprio supportare i costi di transizione. Una volta completato il piano di investimento del Green New Deal, sia le imprese che la collettività avranno dei benefici. Quindi non lo equiparerei in nessun modo a dei dazi, che invece sono delle tasse vere e proprie. Non faccio valutazioni politiche, ma è chiaro che questa associazione viene usata per mostrare anche a Trump che in certe parti politiche resta una posizione critica nei confronti dell’Europa. Il ragionamento, però, dal punto di vista economico non regge.
L’espressione “dazi autoimposti” è presa da Mario Draghi, che però si riferiva alle barriere fiscali tra Paesi e alla mancanza di una politica fiscale e industriale più condivisa nell’Ue. La Lega in una recente mozione ha invece inserito tra i “dazi impliciti alle nostre imprese”anche la messa al bando dei motori Euro 5.
Anche in quel caso vale lo stesso discorso. Lì il problema è che noi come sistema produttivo siamo arrivati tardi su alcune rivoluzioni tecnologiche, quella più evidente è quella dei motori a scoppio contro quelli elettrici. Quindi non siamo competitivi, ma rispetto alla Cina, non agli Usa, quindi peraltro si parla di un setting del tutto diverso.
Immaginare di estendere i tempi e tenere in vita i motori termici per qualche anno non risolve il problema. Potrà aiutare a sostenere il settore per pochi anni, ma non per molto, visto l’orientamento del mercato verso produzioni a impatto zero. Anche quello è un ragionamento che difficilmente sta in piedi.
Passando ai dazi veri e propri: l’Unione europea ha risposto agli Stati Uniti con i primi controdazi. Cosa succederà ora?
Nel momento in cui l’Europa inizia ad applicare dazi nei confronti delle importazioni negli Stati Uniti succedono due cose. La prima è che i prodotti americani che consumiamo inizieranno a costarci di più. Avremo un effetto diretto anche sui consumatori europei, che fino a oggi erano stati quasi immuni, dato che il carico dei dazi degli Usa verso l’Europa colpiva perlopiù i produttori. Certo, politicamente i controdazi sono un segnale che l’Unione Europea non è debole e ha la capacità di rispondere. Ma dal punto di vista economico non è ideale.
I controdazi decisi ieri sono la risposta alle tariffe americane su alluminio e acciaio, già annunciate a marzo. Invece sui dazi Usa cosiddetti “reciproci” (la domanda è stata fatta prima dell’annuncio della sospensione, ndr), non c’è ancora una linea chiara: come dovrebbe muoversi l’Europa, che ha proposto un regime di “zero per zero”, cancellando tutti i rispettivi dazi?
Idealmente, l’approccio “zero per zero” è il migliore: ci porterebbe allo status quo precedente a Trump. Anzi, un po’ meglio, visto che prima esistevano delle tariffe bilaterali tra Stati Uniti e l’Europa, anche se erano molto basse, tra il 3% e il 4% considerando tutti i prodotti (con alcune eccezioni come le auto, dove l’imposta europea era più alta).
Se questa ipotesi viene bocciata dall’amministrazione Usa, l’Europa ha diverse opzioni. La prima è continuare a mettere ulteriori tariffe sulle importazioni dagli Stati Uniti – anche se i primi due prodotti che l’Italia importa dagli Usa sono petrolio e gas liquido naturale, che avrebbero un effetto immediato sul costo della vita di famiglie e imprese nel nostro Paese. La seconda è fare l’opposto, quello che vorrebbe Trump: fare ammenda e prendere un impegno formale ad acquistare più beni americani, riducendo questo famoso ‘deficit commerciale’. Ricordando sempre, però, che la questione del deficit è vera solo in parte.
Trump ha lamentato che gli Usa importano dall’Europa più di quanto l’Ue importa dagli Stati Uniti, cioè appunto che hanno un “deficit commerciale”. Perché è vero solo in parte?
Perché riguarda soltanto i beni. Se guardiamo ai servizi è il contrario: l’Europa ha un deficit commerciale ampio nei confronti degli Stati Uniti. È ovvio se pensiamo a tutti i servizi che consumiamo, dalla PayTv ad Amazon, a molti dei programmi che abbiamo sul computer. Dove hanno sede le imprese che li producono? Sono per lo più americane.
L’Europa quindi potrebbe colpire questo settore, quello dei servizi, per danneggiare gli Usa?
Non è così facile applicare tariffe ai servizi perché, a differenza dei beni, non devono necessariamente attraversare delle dogane. Le aziende che li producono sono facilmente spostabili da un Paese all’altro. Ma ci sono altre misure per arrivare al risultato: la famosa digital tax, qualcosa che colpisca la proprietà intellettuale; oppure una riforma per far pagare le tasse alle aziende in base ai Paesi in cui vengono consumati i loro servizi, e non a dove l’impresa ha la sede legale. In sostanza, far pagare di più alle grandi multinazionali del settore tecnologico.
(da Fanpage))
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
SUL TAVOLO ALTRI DUE NODI DA SCIOGLIERE: LA PROROGA PER CONSENTIRE A ZAIA DI INAUGURARE LE OLIMPIADI DI MILANO-CORTINA (MA CI SONO CONTRASTI NORMATIVI) E IL FUTURO DEL “DOGE” CHE SEMBRA IL CANDIDATO IDEALE A SINDACO DI VENEZIA… MA PERCHE’ NON TORNA A FARE IL DJ IN DISCOTECA?
Al rientro a casa dai bagni di folla e dai selfie del Vinitaly Luca Zaia si ritrova a bere l’amaro calice della sentenza della Corte costituzionale che, bocciando un terzo mandato al collega campano Vincenzo De Luca, pare mettere davvero una pietra tombale sull’ipotesi di continuare a governare il Veneto (per quella che, in realtà, sarebbe la quarta esperienza).
Non è stata una sorpresa. «Me lo aspettavo» confida a chi gli sta vicino. Fosse per scaramanzia o per il malcelato sospetto di una decisione ad hoc dei giudici, il presidente leghista da tempo andava dicendo che non si aspettava buone notizie da Roma. Perché lo stop, in fondo, faceva comodo ad entrambi gli schieramenti alle prese con governatori «ingombranti».
Ma subito, a scanso di equivoci, il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari mette le mani avanti: «Per noi resta la questione politica: il Veneto deve rimanere alla Lega». E chissà cosa ne penseranno gli alleati.
A caldo, invece, Zaia evita dichiarazioni volanti e preferisce affidare il suo pensiero ad una nota più meditata. Ma le parole che usa sono appuntite. Per il Doge «è evidente che dietro certe posizioni, e dietro la normativa in vigore, si celano motivazioni politiche. Appare come l’unico strumento per impedire ad alcuni candidati di ripresentarsi».
Secondo Zaia non si capisce perché certe cariche (parlamentari e ministri) non prevedano limiti mentre altre sì (governatori e sindaci). E questo sarebbe, parole sue, «un insulto all’intelligenza dei cittadini» perché in qualche caso amministratori incapaci o non amati sono stati bocciati ai seggi anche dopo un solo mandato.
«È la prova che il tema del potere non ha nulla a che vedere con il limite dei mandati – spiega la nota diffusa in serata – Utilizzarlo come giustificazione è strumentale e, francamente, inaccettabile. La verità è che siamo davanti a un sistema ipocrita che caratterizza questo Paese». Al di là del comunicato emesso dalla Corte, bisognerà attendere il dispositivo per capire la reale portata della sentenza. Ma da quel che si capisce in un passaggio specifico, i giudici avrebbero implicitamente stabilito che anche la legge del Veneto del 2012 era incostituzionale e che quindi Zaia non avrebbe potuto candidarsi già nel 2020.
Se davvero la questione nuovo mandato è chiusa, sul tavolo restano due nodi da sciogliere. Il primo è quello di quando terminerà l’esperienza in corso. Salvini ha auspicato una proroga alla primavera prossima per consentire a Zaia di inaugurare le Olimpiadi di Milano-Cortina (ma pare ci siano contrasti normativi). Il secondo è il futuro del Doge. Con quell’appellativo, sembrerebbe il candidato ideale a sindaco di Venezia. Ma se la Lega rivendica la Regione, è difficile che FdI conceda anche il
capoluogo ad un leghista.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 10th, 2025 Riccardo Fucile
UNA MOSSA CHE COSTRINGERA’ ELLY E CONTE A TRATTARE (IL M5S PUNTA A CANDIDARE ROBERTO FICO) – L’IPOTESI DI UN RITORNO DI “DON VICIENZO” A SALERNO COME SINDACO… CHE TRISTEZZA QUESTI SOGGETTI ATTACCATI AL POTERE, QUANDO POTREBBERO ACCOMPAGNARE I NIPOTI AI GIARDINETTI
«Tanto sempre di qui devono passare»: con i suoi fedelissimi Enzo De Luca è esplicito.
Il presidente della giunta regionale della Campania ha fatto mostra di essere nervoso il giorno prima della sentenza della Corte costituzionale, ma, essendo un abile politico di lungo corso, non si può proprio dire che la decisione della Consulta lo abbia spiazzato.
Il «governatorissimo» sa bene che comunque il centrosinistra dovrà fare i conti con lui in Campania. Basta che decida di presentare una sua lista (l’ipotetico nome c’è già: «A testa alta») e sponsorizzare un altro candidato a presidente per mettere in difficoltà Elly Schlein e Giuseppe Conte. Ma potrebbe anche mettere quella lista
«personale» al servizio del centrosinistra.
Dunque, Elly Schlein, più nolente che volente, sarà costretta a fare quello che finora non ha fatto: trattare con De Luca. Antonio Misiani, commissario del Pd campano, ne è convinto: «Ora abbiamo la responsabilità di aprire tutti insieme, anche con chi ha guidato la Regione Campania, una pagina nuova».
Del resto, raccontano che Giuseppe Conte, che punta a candidare Roberto Fico, abbia già avuto modo di entrare in contatto con il presidente della Campania e ai dem non è sfuggito l’endorsement di De Luca alla piazza M5S.
La segretaria per ora prende tempo perché l’idea di scendere a patti con De Luca, cioè con quello che per lei è il simbolo dei cacicchi, non le aggrada. Ma trattare per interposta persona con il governatore non le sarà facile: finora il «governatore» non ha mai perso occasione per ironizzare su Misiani («il valoroso statista», lo chiama). Una carta spendibile potrebbe essere la mediazione di Gaetano Manfredi.De Luca, quindi, è convinto che l’ «ingiusta» sentenza della Corte lo indebolisca, ma fino a un certo punto nella trattativa. «Ora si apre un nuovo scenario», dice a qualche amico. Ma la verità è che quello scenario lui lo aveva già valutato. Sa già quello che chiederà, che cosa e chi proporrà.
Improbabile, se il centrosinistra riuscirà a mantenere la Campania alle prossime regionali, che nella nuova squadra non ci sia posto per un assessore di peso del presidente. E già ha ripreso a circolare la voce secondo cui De Luca potrebbe ricandidarsi a sindaco di Salerno. «Ma se lo volesse veramente fare non avrebbe di certo bisogno di chiedere il permesso al Pd», dicono i suoi.
Perciò al Partito democratico, in serata, dopo la sentenza della Corte costituzionale, tirano un sospiro di sollievo, ma fino a un certo punto. Adesso si apre una nuova partita e Schlein non può fallire perché non fa mistero di puntare alla vittoria in quattro delle sei regioni in cui si andrà a votare in autunno.
In Campania, appunto, dove propugna il «modello Manfredi». Senza un civico candidato alla guida della regione, però, anche se è girato il nome del rettore della Federico II Matteo Lotito, perché la leader dem sa che Conte vuole Fico (mentre De Luca preferirebbe un altro M5S, Sergio Costa).
(da agenzie)
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