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SONDAGGIO SWG MOSTRA CHE LA MAGGIORANZA DEGLI ELETTORI DEL PD (IL 52%) SI DICE ANCORA DISPONIBILE A UN’ALLEANZA CON IL M5S. E CRESCE IL NUMERO DEI GRILLINI CHE VUOLE ALLEARSI CON I DEM: È PASSATO DAL 27% AL 34% NELL’ULTIMO ANNO

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

PIÙ IN GENERALE, TRA L’ELETTORATO DI CENTROSINISTRA IL 37% VUOLE ELLY SCHLEIN COME LEADER DELLA COALIZIONE, IL 33% PREFERISCE CONTE. E IL 40% VUOLE TENERE FUORI DALLO SCHIERAMENTO ITALIA VIVA E AZIONE

Il perimetro dello schieramento che nei prossimi anni dovrà contrapporsi al centrodestra nei diversi appuntamenti elettorali è lontano dall’essere definito, tuttavia gli elettori dei diversi partiti mostrano di essere reciprocamente aperti alle alleanze.
PD e AVS sono ritenuti parte integrante della coalizione da gran parte della base dei partiti di opposizione, mentre su Movimento 5 Stelle, +Europa e PSI c’è qualche riserva in più, ma ad essere chiaramente contrario è solo 1 su 5. Nuovamente le chiusure maggiori si registrano su Azione e Italia Viva, anche se la presenza della formazione di Renzi risulta oggi più accettabile rispetto a sei mesi fa.
Analizzando nello specifico il rapporto tra le due liste maggiori, emerge come la spinta degli elettori del PD ad allearsi con il M5S sia maggiore del contrario. Di fatto, però, in entrambi i campi prevale la disponibilità ad avvallare un accordo, anche se con alcuni distinguo tra elezioni politiche e quelle locali. In particolare, i pentastellati si mostrano più aperti ad alleanze alle regionali e amministrative al confronto del passato, mentre Dem leggermente di meno.
Uno dei temi sui quali le due formazioni hanno assunto posizioni contrapposte è quello delle spese militari. In effetti, i due elettorati tendono a seguire le posizioni dei rispettivi leader (pacifismo intransigente di Conte e difesa europea di Schlein), ma non in maniera omogenea, una parte non trascurabile esprime infatti pareri diversi dalla linea del partito).
Una volta definita la composizione dello schieramento sarà inevitabile decidere chi ne sarà il leader. Allo stato attuale l’elettorato esprime la preferenza per Elly Schlein, ma Conte la segue da vicino.
(da agenzie)

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“IL PROBLEMA È CHE GLI STATI UNITI VIVONO AL DI SOPRA DELLE PROPRIE POSSIBILITÀ DA DECENNI”: IN UN DURISSIMO EDITORIALE, IL “CHINA DAILY”, GIORNALE DEL REGIME CINESE, AZZANNA GLI USA

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

“CONSUMANO PIÙ DI QUANTO PRODUCONO” … IL PIL DI PECHINO VOLA AL +5,4%, MA È IL RISULTATO DELLA CORSA A CONSEGNARE LE MERCI ORDINATE PRIMA DEI DAZI

La guerra dei dazi tra Usa e Cina appare agli osservatori internazionali (sbigottiti) scimmiottare le fasi di un matrimonio ormai al capolinea, raccontato sullo schermo con amara ironia nella Guerra dei Roses: dall’amore all’odio con una breve fase intermedia. Vista da Pechino, la responsabilità è tutta nel campo americano.
E, per ora, la Cina si bea di una crescita del Pil pari al 5,4% (su base annua) calcolata nei primi tre mesi dell’anno: un effetto della corsa a consegnare le merci ordinate prima dell’entrata in vigore dei dazi.
Gli esperti si attendono un rallentamento della macchina produttiva entro la fine del 2025. Ma intanto il presidente Xi Jinping prosegue nel suo tour nel Sud-est asiatico per «conquistare i cuori» nei Paesi storicamente intimoriti dall’espansione dell’ingombrante vicino. Dopo il Vietnam, il Nuovo Timoniere è arrivato ieri in Malesia, a Kuala Lumpur, accolto dal premier Anwar Ibrahim.
Al quale Xi ha chiesto di «resistere al disaccoppiamento e alla rottura delle catene di fornitura», ai «piccoli cortili con alte mura» e «ai dazi eccessivi con apertura, inclusività, solidarietà e cooperazione» contro «la legge della giungla».
Il viaggio lampo di Xi prevede ancora una tappa, in Cambogia, Paese che ospita già interessi cinesi (da poco è stata inaugurata la base navale di Ream, ingrandita e rinnovata con l’aiuto di Pechino) e che certo non può permettersi di perdere punti di Pil (comunque misero) per colpa dei dazi americani.
L’offensiva diplomatica del Celeste Impero è partita dall’asean, l’associazione dei Paesi del Sud-est asiatico, ma riguarda il resto del mondo. A Kuala Lumpur Xi Jinping ha sollecitato «la firma il prima possibile del protocollo di aggiornamento dell’area di libero scambio Cina-asean», utile a cementare i legami commerciali bilaterali che hanno raggiunto nel 2024 volumi per 980 miliardi di dollari e con le due parti rimaste reciprocamente i principali partner dal 2020. Ma già guarda al futuro.
Secondo indiscrezioni dell’agenzia Bloomberg, i preparativi per una trattativa diretta con gli Usa sarebbero già in corso, tanto che è stata annunciata la nomina di un nuovo negoziatore: Li Chenggang è stato promosso alla carica di vice ministro del Commercio, con responsabilità sui dossier più spinosi.
Li sostituisce Wang Shouwen che è stato per anni il rappresentante cinese per i negoziati sul commercio internazionale. Il nuovo inviato ha una solida base legale: è laureato in Giurisprudenza all’università di Pechino e ha un master in economia del diritto ottenuto all’università di Amburgo.
In attesa di un futuro vertice, un duro editoriale del China Daily, una delle testate statali di Pechino in lingua inglese, contesta intanto le «lamentele» di Washington sulle questioni commerciali: «Il problema è che gli Stati Uniti vivono al di sopra delle proprie possibilità da decenni e consumano più di quanto producono».
La Cina ha quindi definito «senza senso» l’ultima offensiva tariffaria di Trump con la minaccia di portare i dazi su alcuni prodotti al 245%. Un portavoce del ministero del Commercio cinese ha promesso dure
contromisure nel caso in cui gli interessi del Paese venissero realmente colpiti: «Gli Stati Uniti hanno strumentalizzato e armato i dazi fino a portarli a un livello irrazionale», ha dichiarato.
(da agenzie)

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“LA CINA VINCERÀ LA GUERRA COMMERCIALE SE L’OCCIDENTE SI SUICIDA. È QUELLO CHE TRUMP CI STA ESORTANDO A FARE”: ENNESIMO ATTACCO DEL QUOTIDIANO CONSERVATORE INGLESE “TELEGRAPH” A TRUMP

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

“GRAN PARTE DEL COMMERCIO CINESE DA 500 MILIARDI DI DOLLARI CON GLI STATI UNITI È SACRIFICABILE”… “CHI SOFFRE DI PIÙ DA UN DECOUPLING? LA CINA STRETTAMENTE CONTROLLATA DA XI; O L’AMERICA FEBBRILE E IRREQUIETA DI TRUMP, DOVE 100 MILIONI DI CONSUMATORI VIVONO CON CARTE DI CREDITO AL MASSIMO E SENZA RISPARMI?

L’America ha già giudicato malamente la Cina in passato. La tracotanza da superpotenza trasformò la guerra di Corea in un conflitto diretto tra truppe statunitensi e cinesi. Il presidente Harry Truman pensava di avere piena licenza di scagliare parte dell’Ottava Armata americana oltre il 38º parallelo nell’ottobre 1950 e ribaltare l’intera Corea del Nord comunista.
I suoi consiglieri gli assicurarono che il regime nascente di Mao Tse-tung era troppo debole per intervenire, e troppo mal equipaggiato per fare una grande differenza anche se avesse osato. Fu il peggior fallimento dell’analisi strategica statunitense in epoca moderna. Le forze guidate dagli Stati Uniti affrontarono una disfatta, un accerchiamento e un’umiliazione totale quando 200.000 soldati cinesi attraversarono il fiume Yalu. Oggi
sappiamo quanto Truman fu vicino a usare armi atomiche.
I cinesi non la chiamano “guerra di Corea”. La chiamano la “guerra contro l’America”. Oggi è conosciuta dai giovani cinesi soprattutto attraverso la battaglia di Triangle Hill – Shangganling – un film degli anni ’50 su un’unità del 15º Corpo che resistette a ondate di assalti per 42 giorni, costringendo gli Stati Uniti alla ritirata
Quel film è stato il grido di battaglia in Cina nell’ultima settimana, celebrato dal blog “Uncle Ming’s Remarks”, popolarissimo su WeChat, e ampiamente diffuso dai netizen cinesi – tutti cresciuti con una ricca dieta di “educazione patriottica”.
Se una Cina povera e arretrata fu disposta ad affrontare l’America all’apice della sua potenza globale nel 1950, difficilmente oggi si tirerà indietro ora che è l’egemone industriale e creditore finanziario del mondo – con circa 6 trilioni di dollari (4,5 trilioni di sterline) di attività in valuta estera, se si includono le opache disponibilità delle banche statali.
“È mai stato possibile nella storia che il più grande creditore del mondo venga sconfitto dal più grande debitore del mondo?”, chiede Uncle Ming.
Già. Il tasso di risparmio degli Stati Uniti è crollato allo 0,6% del PIL. Il Tesoro USA dipende dagli investitori esteri per finanziare un debito nazionale in crescita più che mai, già pari al 122% del PIL, con un disavanzo fiscale strutturale del 6-7% fin dove l’occhio può vedere.
Il Tesoro deve rifinanziare il 33% dei suoi 36 trilioni di dollari di debito federale nei prossimi 12 mesi.
La Cina non ha avuto nulla a che fare con il crollo del mercato dei Treasury della scorsa settimana C’erano molte altre ragioni: un disordinato disfacimento dello “scambio di base” da parte di hedge fund colti alla sprovvista; e soprattutto la resa dei falchi del disavanzo repubblicani al Congresso, disposti ad avallare un trucco di bilancio che permette all’America di tagliare le tasse e spendere trilioni che non può permettersi.
Ma è facile immaginare come la Cina potrebbe creare panico proprio prima delle aste del Tesoro, se lo volesse.
Trump aveva idea di ciò che stava facendo quando ha lanciato la sua guerra tariffaria contro la Cina, chiudendo allegramente il rapporto commerciale cardine del sistema internazionale?
Si potrebbe pensare che la soglia di dolore politico del Partito Comunista Cinese, totalitario e controllore del web, sia infinitamente più alta di quella dell’America Maga che fa spesa da Walmart o dei politici repubblicani che affrontano le elezioni di metà mandato l’anno prossimo. E ugualmente che Xi Jinping abbia molto da guadagnare nel rifiutarsi ostinatamente di “leccare il culo”, per usare le delicate parole di Trump.
Le esportazioni verso gli Stati Uniti sono scese da un picco del 6,7% del PIL cinese nei primi anni 2000 al 2,7% di oggi. Quasi l’86% delle esportazioni cinesi ora va al resto del mondo. La Via della Seta marittima sta trasformando gran parte del Sud globale in un sistema economico cinese.
L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico da sola è un mercato più grande per la Cina rispetto agli Stati Uniti. Gran parte del Medio Oriente è ora classificata come pro-Cina o incline alla Cina sulla mappa geopolitica di Capital Economics.
Non sono tra coloro che pensano che la Cina sia automaticamente destinata alla supremazia economica. Ha investito cronicamente in eccesso di capacità. Affronta deflazione da debiti e l’inizio di una “giapponesizzazione”. È formidabile in interi settori tecnologici ma anche fragile, rigida, fondata sulla paura, e maledetta dalle patologie della dittatura di partito.
Le democrazie liberali hanno tutto da giocarsi. La Cina vince il XXI secolo solo se l’Occidente si suicida, ed è esattamente questo che Trump ci sta esortando a fare.
Tuttavia, gran parte del commercio cinese da 500 miliardi di dollari con gli Stati Uniti è sacrificabile. Spedire giocattoli, mobili, scarpe e vestiti per vendite da discount nei supermercati americani non è redditizio. Né è la nicchia di mercato che la Cina desidera come potenza hi-tech emergente.
“È ora che tutte queste attività a basso valore aggiunto che vendono a Walmart chiudano,” ha detto Andy Xie, ex banchiere di Morgan Stanley.
Come riferisce la mia collega Szu Ping Chan, esiste un’intera scuola di economisti in Cina che sostiene che lo “shock Trump” sia esattamente ciò di cui la Cina ha bisogno per uscire dalla trappola del reddito medio e fare un salto nella catena del valore.
Chi soffre dunque il maggior stress politico da un decoupling economico totale e violento? La Cina strettamente controllata da Xi; o l’America febbrile e irrequieta di Trump, dove 100 milioni di consumatori vivono con carte di credito al massimo e senza risparmi, vulnerabili a un’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità, senza margini di sicurezza se perdono il lavoro?
“L’economia civile americana è totalmente disorganizzata e non ha un piano coerente se la Cina interrompe la fornitura di terre rare,” ha detto Jack Lifton, presidente del Critical Minerals Institute.
La Cina ha già limitato le esportazioni di gallio, germanio, antimonio e grafite negli ultimi due anni, e ora ha ampliato la lista.
Questa stretta non è un incidente del libero mercato o della geografia. La Cina ha perseguito una politica strategica per eliminare i rivali tramite dumping predatorio e ha costretto le proprie fonderie a sovracostruire capacità di raffinazione.
Come ormai è ben noto, ha acquisito il controllo del 90% della catena di fornitura di terre rare necessarie per robotica, semiconduttori, aviazione, magneti, radar, veicoli elettrici, wireless 5G e 6G, elettronica di potenza, e via dicendo.
Il controllo cinese sulle fonti globali di litio, cobalto, nichel è più debole, ma Washington è chiaramente rimasta al volante addormentata. Trump ha ragione su questo.
La politica razionale per gli Stati Uniti è costruire la propria industria di raffinazione nei prossimi dieci anni e stipulare contratti di fornitura a lungo termine con paesi come Canada e Australia. Invece, Trump ha preso a pugni in faccia gli alleati, e ha lanciato la sua guerra con la Cina prima che gli Stati Uniti fossero pronti a subirne le conseguenze. Ha completamente sbagliato la sequenza.
Trump continua a dire al mondo che non farà marcia indietro sulle tariffe e che “nessuno verrà risparmiato”. Ma i mercati stanno scontando pesantemente tutto ciò che dice.
Vedono che ha fatto marcia indietro contro Canada e Messico dopo aver scoperto che i prezzi delle auto statunitensi sarebbero esplosi, e che non ha osato premere il grilletto sulle tariffe complete contro l’Europa, e che ha
immediatamente disinnescato il suo stesso embargo contro la Cina dopo aver scoperto che un iPhone prodotto negli Stati Uniti sarebbe costato 3.000 dollari.
Tutti, tranne una banda in via di estinzione di seguaci trumpiani nel mondo, possono vedere, in breve, che il suo bluff è stato smascherato. La Cina deve solo stringere i denti, come il 15º Corpo a Triangle Hill, e aspettare che anche gli elettori di Trump se ne accorgano.
(da Telegraph

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L’ALLARME DELL’UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO SUI DAZI: “PERDITA STIMATA DI CIRCA 68.000 POSTI DI LAVORO”

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

L’AUDIZIONE IN PARLAMENTO DEI TECNICI: “SUL PNRR SIAMO IN RITARDO, SPESO SOLO IL 33% DELLA SOMMA DISPONIBILE”

«I dazi statunitensi impatteranno su quasi tutti i settori dell’economia italiana», con una perdita che potrebbe aggirarsi intorno a «tre decimi di punto percentuale», ovvero lo 0,3%. A lanciare l’allarme è la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), Lilia Cavallari, intervenuta oggi, 17 aprile, nel corso del nuovo ciclo di audizioni dedicato al Documento di finanza pubblica (Dpb) per il 2025, che ha sostituito il vecchio Documento di economia e finanza (Def). Oltre alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, erano presenti anche rappresentanti di Banca d’Italia, Confindustria, Istat, Cnel e Corte dei Conti. Conclusa l’audizione, interverrà il ministro Giancarlo Giorgetti alle ore 13. Subito dopo, inizierà la corsa contro il tempo per approvare il Dpb: prima in Commissione Bilancio e poi alla Camera. Il calendario è serrato, perché il documento deve essere inviato a Bruxelles entro la scadenza del 30 aprile
Perdita di 68mila posti di lavoro
Secondo le stime diffuse oggi dall’Upb – che fa i calcoli ipotizzando dazi del 25% su attività metallurgiche, fabbricazione di metalli e fabbricazione di autoveicoli e altri mezzi di trasporto e del 10% per i restanti settori – i dazi statunitensi potrebbero avere un impatto significativo anche sull’occupazione, con una perdita stimata di circa 68 mila posti di lavoro. I settori più penalizzati, secondo le simulazioni dell’Upb, sarebbero farmaceutico, estrattivo, automotive, chimico, metallurgico e quello della meccanica strumentale. Nel dettaglio, tra i comparti più colpiti figurano la fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, con una contrazione prevista dell’1,49%, seguita dalla produzione di prodotti chimici (-1,23%), dalle attività metallurgiche (-1,09%) e dalla fabbricazione di macchinari e apparecchiature (-1,7%). L’Upb ha sottolineato che, con l’eccezione del settore estrattivo, i comparti maggiormente penalizzati sono quelli più esposti al mercato statunitense o colpiti da dazi particolarmente elevati.
I settori meno colpiti
I settori meno colpiti risulterebbero, invece, quelli legati alla riparazione e installazione di macchine e apparecchiature, la silvicoltura e utilizzo di aree forestali. A questi si aggiungo la pesca e acquicoltura e la raccolta, trattamento e fornitura di acqua, che sono anche i settori con bassa importanza relativa delle esportazioni verso gli Stati Uniti.
Deficit sopra il 3% fino al 2026
L’attivazione della clausola di salvaguardia Ue per la Difesa potrebbe rallentare l’uscita dell’Italia dalla procedura per disavanzo eccessivo. Secondo l’Upb, anche con un uso limitato della flessibilità concessa dall’Unione europea, il deficit rimarrebbe sopra il 3% del Pil fino al 2026, scendendo sotto questa soglia solo nel 2027. Con un utilizzo più marcato, avverte ancora l’Upb, il disavanzo scenderebbe temporaneamente sotto il livello del 3% solo a partire dal 2030, ma solo temporaneamente. Dal 2034, poi, il quadro potrebbe peggiorare: l’esaurimento degli effetti ciclici positivi e l’aumento della spesa legata all’invecchiamento della popolazione porterebbero il deficit a tornare stabilmente sopra la soglia de
3% del Pil.
In ritardo sul Pnrr
Sul Pnrr, Cavallari ha fatto sapere che «Lo stato di attuazione del Pnrr mostra progressi significativi, ma anche ritardi che potrebbero compromettere la piena realizzazione nei tempi previsti».
Secondo i dati aggiornati all’8 aprile 2025 e raccolti sulla piattaforma ReGiS, risulta attivato il 95% delle risorse del Piano. Tuttavia, la spesa effettivamente sostenuta si ferma a 64,1 miliardi di euro, pari al 33% del totale.
Di questa cifra, 27,3 miliardi riguardano il Superbonus e altri crediti d’imposta. La parte più impegnativa – ha spiegato Cavallari – resta davanti: quasi la metà di milestone e target deve ancora essere raggiunta, mentre la spesa da effettuare rappresenta circa due terzi della dotazione complessiva.
(da agenzie)

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L’UE VARA LA SUA LISTA DI PAESI SICURI, INCLUDENDO EGITTO, BANGLADESH E TUNISIA, DA CUI PROVIENE LA GRAN PARTE DI CHI SBARCA IN ITALIA E A CUI POTRANNO ESSERE APPLICATE LE PROCEDURE ACCELERATE DI FRONTIERA – MELONI ESULTA, MA LE NUOVE PROCEDURE EUROPEE PREVEDONO PIÙ GARANZIE PER I MIGRANTI RISPETTO A QUELLE PREVISTE DAL GOVERNO ITALIANO

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

NON SOLO: LA UE INDICA SOLO SETTE “PAESI SICURI” E NON 19 COME L’ITALIA, LA POSSIBILITA’ DI FARE RICORSO, IL VAGLIO DEI MAGISTRATI E L’ESCLUSIONE DI PARCHEGGIO IN ALBANIA

La Ue vara la sua lista di Paesi sicuri includendo Bangladesh ed Egitto, da cui provienela gran parte di chi sbarca in Italia e a cui potranno essere applicate le procedure accelerate di frontiera. E prevede la possibilità di designare come sicuri Paesi con eccezioni territoriali e per precise categorie di persone.
«Avevamo ragione, siamo sulla buona strada che ci consente di attivare le procedure accelerate di frontiera ai migranti che arrivano da determinate nazioni, come previsto dal protocollo Italia-Albania», dice soddisfatta Giorgia Meloni.
Ma le nuove procedure europee prevedono molte più garanzie per i migranti: risposta alla richiesta di asilo in tre mesi, diritto a proporre ricorso in tribunale contro il prevedibile diniego e, nel frattempo, permanenza nei centri di accoglienza in territorio europeo.
Assai diverso dalle procedure accelerate pensate dal governo italiano, con i migranti trattenuti in un Paese terzo come l’Albania, diniego immediato del permesso di soggiorno, appena una settimana per proporre ricorso e rimpatrio entro 28 giorni.
Paletti importanti che, dunque, escludono la possibilità di bypassare il vaglio dei giudici che in Italia hanno di fatto costretto il governo a cambiare l’utilizzo dei centri albanesi, destinandovi non i richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri ma gli irregolari già presenti su territorio italiano da rimpatriare.
La proposta legislativa adottata ieri dalla Commissione europea, per quanto rapido possa essere l’esame di Parlamento e Consiglio ( si parte già il 24 aprile) difficilmente potrà entrare in vigore prima di diversi mesi, ma cambia il contesto in cui andrà ad inserirsi il verdetto della Corte di giustizia europea sui ricorsi italiani atteso entro giugno.
I giudici non potranno non tenere conto della nuova norma che consentirà di definire sicuro anche un Paese con eccezioni territoriali e per categorie
di persone e del varo di una lista che, oltre agli otto candidati ad entrare in Europa, include altri sette Paesi sicuri: Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia.
Molti meno rispetto alla lista del governo italiano, che ne prevede ben 19, tra cui Paesi dell’Africa subsahariana che l’Europa invece esclude. Gli

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SCAPPA DA BIMBO CON I GENITORI VITTIME DELLA MAFIA ARMENA: “DOPO ANNI IN ITALIA MI CONTESTANO LO STATUS DI RIFUGIATO”

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

L’AVVOCATO: “LO HANNO FATTO PER DARSI UNA POSSIBILITA’ DI VITA”

“Sono scappati dall’Armenia in coppia, un figlio per uno. Aram, 12 anni,
con la mamma, Tadevos di 15 con il papà. Lo hanno fatto per darsi una possibilità di vita in più”. A parlare è l’avvocato Stefano Afrune che racconta a Fanpage.it la storia di Aram al quale, dopo più di dieci anni trascorsi in Italia, a giugno 2023, la Questura di Bergamo ha contestato il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo politico, la cui mancanza, però, lo esporrebbe ai rischi dai quali era scappato. Per questo Aram, insieme all’avvocato Afrune, ha impugnato la decisione della Questura che, alla fine, gli ha dato ragione confermando il suo diritto a restare.
“La famiglia ha deciso di fuggire dal proprio Paese dopo essere riuscita a scampare a un attentato della criminalità organizzata per via dell’attività lavorativa del padre che era nei servizi anticrimine della polizia armena”, ha continuato a raccontare Afrune a Fanpage.it. Così sono partiti e per nove mesi c’è stato silenzio, senza notizie l’uno dell’altro proprio perché giunti in Italia in momenti e destinazioni diverse. È per opera della Questura di Matera che, alla fine, nel 2011, il papà senza parlare l’italiano, ma con una foto della moglie e un biglietto che chiede di aiutarlo a ritrovare la sua famiglia, è riuscito a ritrovarli.
“Lì, con il Modulo C3 per richiedenti protezione internazionale, la famiglia è stata riunita. I genitori hanno ottenuto lo status di rifugiati e la Commissione lo ha riconosciuto nell’interezza a tutto il nucleo familiare, estendendolo anche ai figli, in ragione della gravità dei motivi che li avevano condotti alla fuga e per il fatto che i minori fossero essi stessi esposti al rischio vitale”, ha spiegato l’avvocato.
Qualche tempo dopo, la famiglia ha deciso di trasferirsi a Bergamo per motivi di lavoro e, con il passare degli anni, Aram e Tadevos sono diventati maggiorenni. “I due figli hanno sempre rinnovato lo status di rifugiati politici. In particolare, Aram ha ottenuto il rinnovo come rifugiato anche da maggiorenne”, ha detto ancora Afrune a Fanpage.it. “Il problema è sorto al suo secondo rinnovo quando la Questura di Bergamo gli ha contestato che la domanda di asilo politico l’avessero fatta i genitori e non lui in prima persona”.
Per questo motivo la Questura gli preavvisa il rigetto della domanda di
rinnovo del permesso di soggiorno per asilo politico e lo invita, invece, a chiedere il rilascio del permesso di soggiorno per motivi lavorativi. “Qual è il problema della questione? Qualsiasi altra tipologia di richiesta obbligherebbe Aram a confrontarsi con la propria ambasciata, ad avere rapporti con il proprio Paese d’origine, e questo potrebbe però esporlo ai rischi dai quali era scappato. Per questo motivo abbiamo impugnato la decisione della Questura di Bergamo dinanzi al tribunale di Brescia”, ha ribadito l’avvocato. “Abbiamo contestato la totale arbitrarietà dell’azione posta in essere dalla Questura di Bergamo che in maniera illegittima si è arrogata il diritto di fare delle valutazioni che per legge le sono vietate. Avrebbe potuto farle la Commissione con un provvedimento che, però, non c’è stato. E, infatti, la Corte d’appello di Brescia ha poi riconosciuto che il ragazzo già da maggiorenne avesse avuto un primo permesso di asilo politico e che in fase di rinnovo la Questura non avesse potere di valutazione nel rinnovare o meno il suo status di rifugiato”.
“Infine, non bisogna dimenticare che oltre agli elementi fattuali c’è anche l’aspetto dei diritti”, ha concluso Afrune a Fanpage.it. “Dalle carte della protezione internazionale del nucleo familiare è emerso con chiarezza che lo status di rifugiato fosse stato riconosciuto all’intero nucleo familiare e che i minori fossero vittime e potenziali vittime di una vendetta legata alle vicende paterne. Per questo, una qualsiasi decisione diversa da quella del rinnovo del permesso di soggiorno per asilo politico avrebbe avuto conseguenze dirette sull’incolumità fisica di Aram, perché anch’egli era stato vittima di attentato e potrebbe esserlo nuovamente”.
(da Fanpage)

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IL CORTOCIRCUITO, SE L’UE NON TROVASSE UN ACCORDO CON TRUMP SUI DAZI, ENTRO TRE MESI, PARTIREBBE UNA GUERRA COMMERCIALE SENZA TREGUA: LE TARIFFE “RECIPROCHE” AMERICANE SALIRANNO DAL 10 AL 20% SU TUTTI I BENI

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

L’UE REAGIREBBE CON CONTRO-DAZI IL 14 LUGLIO – SE NON CI FOSSE UN ACCORDO TRA USA E CINA, L’UE AVREBBE UN ALTRO PROBLEMA: GESTIRE I 439 MILIARDI DI DOLLARI DI EXPORT CINESE RESPINTI DAGLI STATI UNITI – NEL CASO IN CUI LE MERCI A BASSO COSTO CINESI INVADESSERO I MERCATI EUROPEI, L’UE SAREBBE COSTRETTA AD ALZARE A SUA VOLTA LE BARRIERE ALLA DOGANA

No deal: nessun accordo con gli Stati Uniti. Dopo la fumata nerissima della visita del commissario Sefcovic negli Stati Uniti, dove la proposta europea di “dazi zero” è stata liquidata e in due ore di dialogo non si è neppure capito cosa Trump voglia, a Bruxelles ci si sta preparando per lo scenario peggiore. […] No deal, appunto, nessun accordo nei prossimi tre mesi. A quel punto le tariffe “reciproche” americane entrerebbero in vigore, salendo dal 10 al 20% su tutti i beni ed affiancandosi a quelle settoriali metalli, auto e probabilmente anche su chip e farmaci.
I tecnici di Bruxelles si stanno attrezzando per reagire subito e in modo proporzionale a questa eventualità. Verrebbe riattivato il pacchetto di ritorsioni contro i dazi su acciaio e alluminio già predisposto e votato dai 27, ora sospeso. E se ne prepara un secondo, molto più corposo, per rispondere ai dazi reciproci. Scatterebbero tutti insieme il 14 luglio, è la linea della Commissione, senza più concedere pause a Trump.
Si negozia insomma con l’arma delle ritorsioni – carica – sul tavolo, anche per proiettare forza verso chi sembra riconoscere solo quella. Sullo sfondo anche il bazooka evocato da Ursula von der Leyen, cioè la possibilità di tassare i servizi digitali colpendo i colossi di Big Tech. Nel frattempo però c’è un secondo no deal, altrettanto pericoloso, a cui l’Europa si sta preparando.
È quello tra Stati Uniti e Cina, che farebbe divorziare le due economie con barriere invalicabili e come detto ieri dal Wto – potrebbe spingere l’impressionante flusso di esportazioni della Repubblica Popolare a prezzi ancora più scontati verso altri mercati. Il rischio è da tempo nel mirino della Commissione, che ha attivato un sistema di allerta precoce per identificare eventuali flussi anomali. E spiega anche in parte il riavvicinamento con Pechino.
Ursula von der Leyen ha sollevato il tema in una telefonata con il premier cinese Li Qiang, ottenendo da quest’ultimo una rassicurazione: la Cina assorbirà eventuali impatti di un blocco del mercato americano, sua prima destinazione di export, attraverso uno stimolo della domanda interna.
Da parte di Bruxelles c’è stata un’apertura di credito nei confronti dell’offensiva diplomatica che Pechino ha lanciato nelle ultime settimane. La si legge nella disponibilità a riaprire il tavolo sui dazi imposti alle auto cinesi, che potrebbero essere trasformati in un meno pesante prezzo minimo. […] L’Europa vedrebbe con favore maggiori investimenti dei campioni cinesi sul suo territorio, se questi accettassero di allearsi con aziende europee e trasferire le loro tecnologie, come del resto raccomandato anche dal rapporto Draghi
Ma come tutti gli impegni di Pechino, spesso disattesi, anche quello di contenere il suo strabordante eccesso di capacità produttiva va preso con sano scetticismo, e verificato nei fatti. Se è vero che le autorità comuniste hanno già lanciato un programma di stimolo della domanda interna, è difficile che questo basti a bilanciare i 439 miliardi di dollari di export potenzialmente respinti dagli Stati Uniti. Senza contare che nel frattempo le aziende cinesi, favorite da sussidi diretti e indiretti, continuano ad investire in nuovi impianti. […] Nel caso in cui l’ondata di merci cinesi arrivasse, ennesimo scenario da no deal, l’Europa e gli altri Paesi avrebbero poche alternative se non alzare a loro volta delle barriere protettive alla dogana.

(da agenzie)

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L’ECONOMISTA THOMAS PIKETTY: “IL TRUMPISMO È UNA REAZIONE AL FALLIMENTO DEL REAGANISMO”

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

“REAGAN AVEVA PROMESSO CHE LA LIBERALIZZAZIONE GLOBALE AVREBBE ARRICCHITO TUTTI. QUARANT’ANNI DOPO, LA CLASSE MEDIA AMERICANA NON HA VISTO ALCUN BENEFICIO”

“Gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo del mondo». L’economista francese Thomas Piketty analizza le derive del trumpismo, la fragilità dell’egemonia americana e le esitazioni dell’ Unione europea di fronte a una nuova fase di instabilità globale
Emerge una contraddizione tra la potenza americana e il suo livello di indebitamento
«Sì, ed è un punto centrale. Il debito verso l’estero degli Stati Uniti è enorme e finora è costato poco, grazie a tassi d’interesse storicamente bassi. Ma ora le cose stanno cambiando. Con tassi al 4 o 5%, gli Stati Uniti dovranno cominciare a pagare pesantemente il resto del mondo. È una situazione inedita per una potenza dominante».
Vede una logica neocolonialista?
«Trump sogna di tornare a quella logica, appropriandosi in modo brutale di risorse strategiche. Non è fondamentalmente peggiore delle potenze coloniali europee prima del 1914. Semplicemente, sbaglia epoca. Vorrebbe che quella che lui considera la pax americana […] fosse finalmente retribuita. Pensa che questo debba permettere agli Stati Uniti di finanziare i propri deficit eternamente. Si è già cominciato a vedere con le sue posizioni su Groenlandia, Panama o sulle terre rare in Ucraina».
È solo una reazione alla perdita di potenza al livello economico e finanziario?
Il trumpismo è prima di tutto una reazione al fallimento del reaganismo. Reagan aveva promesso che la liberalizzazione globale avrebbe arricchito tutti. Quarant’anni dopo, la classe media americana non ha visto alcun beneficio. Da qui, la fuga in avanti verso il nazionalismo, una postura classica a destra. Ma il discorso protezionista è anche contraddittorio: oggi gli Stati Uniti sono in piena occupazione. Dicono di aver perso posti di lavoro, ma se davvero volessero crearne dieci milioni in più, dovrebbero far arrivare lavoratori messicani e molti più immigrati. Ciò che motiva davvero Trump, J.D.Vance e i miliardari che li sostengono non è tanto la difesa dell’occupazione quanto la perpetuazione di un modello inegualitario e autoritario»
L’Europa negozia sui dazi. Quale potrebbe essere l’esito?
«L’Europa può diventare un polo di stabilità nella globalizzazione. […] Bisogna riequilibrare le istituzioni internazionali — Fmi, Banca mondiale, Wto — dando più peso a paesi come Brasile, India, Sudafrica[…] Se l’Europa non prende l’iniziativa, i Brics continueranno a costruire una propria architettura, come stanno già facendo con la New Develop
Cosa dovrebbe fare l’Ue?
«L’Europa deve quindi uscire dalla sua postura attendista e malthusiana, ovvero restrittiva. Deve investire di più sul continente, invece di accumulare surplus commerciali che sono il segno di un sottoinvestimento cronico. Ci sono poi decisioni assurde, come comprare armi per compiacere Trump, come se fosse nel nostro interesse».
(da agenzie)

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IN VENETO GIA’ VOLANO GLI STRACCI NEL CENTRODESTRA: LA CAMPAGNA ACQUISTI DI FRATELLI D’ITALIA FA INCAZZARE ZAIA

Aprile 17th, 2025 Riccardo Fucile

DUE CONSIGLIERI REGIONALI DELLA LEGA PASSANO AL PARTITO DI MELONI E ALTRI POTREBBERO SEGUIRLI … IL “DOGE” S’INCAZZA: “SENZA DI NOI NON SAREBBERO MAI STATI ELETTI. ALLE PROSSIME ELEZIONI MANCANO ANCORA DEI MESI, E MIO NONNO DICEVA SEMPRE CHE È SBAGLIATO FARE I CONTI SENZA L’OSTE”… MA SE L’OSTE E’ UN PAVIDO, SI ACCONTENTI DI TENERE LO STRASCICO AL CAPITONE

Due consiglieri regionali del Veneto – di più: due dei cinque presidenti delle commissioni assegnate a membri del centrodestra – passati, con uno
scarto di 24 ore l’uno dall’altro, a Fratelli d’Italia. E il fortino veneto della Lega che inizia a perdere i pezzi: Marco Andreoli e Silvia Rizzotto.
«Un cambio di casacca proprio all’indomani della sentenza che sbarra la strada a un nuovo mandato per Luca Zaia. Difficile pensare al caso», congettura il capogruppo Alberto Villanova, fedelissimo del presidente. Mentre Zaia stesso tuona: «Se Andreoli e Rizzotto si fossero candidati con FdI nel 2020, non sarebbero nemmeno entrati in Consiglio regionale. Alle prossime elezioni mancano ancora dei mesi, e mio nonno diceva sempre che è sbagliato fare i conti senza l’oste…»
Ma intanto lo “Zaiastan” inizia a sgretolarsi. Sotto le picconate di un partito, Fratelli d’Italia, che proprio nel Veneto terra di secessione ha registrato il risultato più importante, alle urne. «Non riesco più a stare in un partito il cui segretario federale vede un idolo in Trump o in Putin. Salvini è un estremista, che troppe volte ha trasformato le sue opinioni personali in linee programmatiche del partito. Non sopporto il suo dileggiare chi usa l’auto elettrica, come il sottoscritto, né il suo negare il cambiamento climatico», diceva Andreoli, ancora un mese fa, in un’intervista al Mattino di Padova.
E sabato è arrivata la formalizzazione delle dimissioni, accompagnata dal passaggio in Fratelli d’Italia. «Ho atteso, per rispetto, che terminasse il Congresso federale. Ma oggi, dopo molti anni, annuncio che lascio la Lega. Un partito che è cambiato molto e nel quale non mi riconoscevo più. Mentre mi riconosco in Fratelli d’Italia, in Giorgia Meloni e nel suo governo, l’unico ad avere portato avanti seriamente la riforma per l’Autonomia».
(da agenzie)

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