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VANCE SCAPPA: LE SUE VACANZE ROMANE SONO STATE ROVINATE DAGLI INSULTI DEI TURISTI, INFEROCITI PER LA CHIUSURA ANTICIPATA DEL COLOSSEO, DECISA PER PERMETTERE ALLA FAMIGLIA VANCE DI VISITARE L’ANFITEATRO IN SICUREZZA

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

QUEL BURINO RIPULITO DEL VICE DI TRUMP, SCORTATO NELLA CAPITALE DA QUARANTA AUTO E CINQUANTA UOMINI, QUANDO HA SENTITO I FISCHI SE L’È FILATA IN AMBASCIATA E HA LASCIATO AL COLOSSEO LA MOGLIE USHA CON I TRE FIGLI

Si lascia alle spalle le mura vaticane e guarda il cielo. Il meteo sta mantenendo le promesse, raggi di sole e poche nuvole velate. James David Vance freme per togliersi di dosso il completo blu d’ordinanza, vuole il suo cappellino da baseball, vuole fare il turista, chissà per quanto tempo ha fantasticato sui libri di storia immaginando i monumenti della città eterna. Non era mai stato a Roma, il vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Sua moglie Usha a marzo era stata a Torino per gli Special Olimpics, accolta dalla folla con un misto di applausi e fischi.
Fischi sonori li avrebbe sentiti anche lui, ieri, nel tardo pomeriggio. Meglio:
vere e proprie urla dei turisti indiavolati al Colosseo che alle cinque viene chiuso per la visita esclusiva di tutta la famiglia Vance. C’è chi ha prenotato da mesi, anche venendo da lontano. Inutilmente. «Vergognatevi», urlano dalla folla.
JD Vance preferisce non sentirle quelle urla. Dai Fori Imperiali decide di tornare dritto a Villa Taverna, la residenza dell’ambasciatore che in queste ore è la residenza sua e della sua famiglia. Al Colosseo rimane la moglie e al seguito Evan, Vivek e Mirabel, i tre bimbi che in questa giornata romana sembrano non conoscere stanchezza.
È evidente che il vicepresidente non vuole rischiare, in questo suo tour ha una protezione speciale, quaranta auto di scorta, cinquanta uomini a proteggerlo, le minacce lo preoccupano. Una protezione imponente per il numero due dell’amministrazione americana. Eppure era andato tutto bene, fino a quel momento.
Nessuno a fargli presente quello che Matteo Renzi gli ricorda proprio mentre i turisti stanno urlando davanti al Colosseo: «Magari Vance si scusi con gli europei che ha definito parassiti».
Alle due del pomeriggio si è lasciato alle spalle le mura vaticane JD Vance, e non aveva indugiato nella scelta del ristorante per pranzare, i bimbi erano affamati e le poche ore libere a disposizione voleva usarle tutte, questa volta per fare il pieno delle bellezze della città. Dopo pranzo è tornato a Villa Taverna e si è fermato il tempo di indossare il cappellino, i jeans, la felpa aperta sulla camicia bianca, un semplice turista americano, se non fosse per la scorta da imperatore.
La città è blindata, per lui. Il quartiere Parioli, lì dove c’è Villa Taverna, è ostaggio del corteo di auto blu, di van, di macchine dell’intelligence. Ma uscendo dalla residenza dell’ambasciatore il vice di Trump non resiste al pistacchio della Sicilia, una coppetta per lui, panna e fragola per i bambini, e poi la corsa del corteo, un fuori programma, su verso il Gianicolo. È Usha che chiede aria, e verde, uno spazio dedicato ai bambini che di Roma fino a quel momento hanno visto soltanto le mura di palazzi.
Dalla culla del cattolicesimo alla culla della Roma antica. Nel suo programma Vance aveva messo al primo posto l’Anfiteatro Flavio come testimonianza della Roma Antica.
Una visita all’Orto botanico a Trastevere l’aveva voluta sempre per i bimbi e per Usha e alla fine si sono trattenuti a lungo in mezzo a quei fiori e quelle piante, lo zaino in spalla lui e, ironia della sorte, l’armatura da gladiatore il figlio più grande.
Al Colosseo non aveva voluto nessuno. Non il ministro della Cultura Alessandro Giuli, non il sopraintendente, nessuna istituzione. A un certo punto si era pensato di fare un punto stampa, sei giornalisti italiani, sei americani, proprio davanti al Colosseo, in mezzo ai gladiatori. Ma il vice di Trump non aveva voluto neanche questo. Sabato di vacanza. Sabato di visite. Dall’Orto botanico era arrivato ai Fori Imperiali. E lì erano arrivate anche le informazioni sulla protesta dei turisti: «Vergogna». Il sogno di JD Vance di vedere il simbolo della città eterna sfuma tra le urla.
(da Il Corriere della Sera)

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NON CI AVEVAMO PENSATO

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

IN CASO DI CONFLITTO LE NOSTRE DIVISIONI POTRANNO RISALIRE LO STIVALE IN UN BALENO

Non c’è niente di particolarmente riprovevole nel fatto che il governo italiano, per convincere l’Europa di quanto sia irrinunciabile il Ponte sullo Stretto, ne abbia sottolineato l’importanza strategico-militare. Diciamo che non era richiesto: è implicito che i ponti, ognuno a modo suo, abbiano la loro importanza militare, che debba passare una colonna di carrarmati o un soldato con la carriola si fa molto prima.
Non per caso le prime infrastrutture a essere bombardate, o minate, sono i ponti e le ferrovie. Poi si passa, specie negli ultimi tempi, ad altri obiettivi: ospedali, fermate d’autobus, condomini civili, tendopoli di profughi. Là dove si annidano gli esseri umani, che sono tutti potenziali terroristi, soprattutto i bambini che sono potenziali per antonomasia.
Dobbiamo ammettere, però, che non ci avevamo pensato, al Ponte sullo Stretto come urgente sostegno alla difesa della Patria. La lunga (presto secolare) mitologia del Ponte ce l’aveva ammannito in cento maniere, perfino, su una vecchia copertina della Domenica del Corriere, attraversato da un carretto siciliano, perché da noi il pittoresco è un genere che va molto.
Ma un corteo di autoblindo, nei numerosi plastici e simulazioni allestiti fino a qui (l’opera può vantare, a tutt’oggi, zero mattoni, ma milioni di modellini e disegnini, e una quantità di scartoffie che, rovesciata in mare, basterebbe a colmare lo Stretto e consentire il passaggio a secco di qualunque mezzo), non s
era mai visto.
Nella prossima occasione deputata alla magnificazione del Ponte — non può che essere da Bruno Vespa — ci piacerà vedere su quell’ardita struttura anche qualche soldatino. Così da rassicurarci: in caso di conflitto, le nostre divisioni di stanza in Sicilia potranno risalire lo Stivale in un baleno. Solo una breve sosta in autogrill.
(da La Repubblica)

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MELONI E’ COSI’ INTERESSATA AL SUMMIT CONTRO I DAZI CHE FA I CAPRICCI NEL TIMORE DI PERDERE LO SHOW: “O SI FA IN ITALIA O RISCHIA DI SALTARE”

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

LA TESI RIDICOLA: “IN ITALIA PIU’ MARGINI DI RIUSCITA”… MA LE CANCELLERIE EUROPEE VOGLIONO CHE SI SVOLGA A BRUXELLES

Si sente con Merz. Teme un trappolone di Macron e Sanchez. Aspetta di capire da che lato si schiererà alla fine von der Leyen. Dopo il doppio bilaterale Italia-Usa, prima con Trump alla Casa bianca, poi con Vance a Palazzo Chigi, la sosta pasquale di Giorgia Meloni è ombreggiata da un timore: qualcuno in Europa proverà sul serio ad affossare il vertice di Roma?
È stata l’unica concessione vera strappata dalla premier a Washington. Trump ha accettato l’invito nel Belpaese, in una data ancora da fissare, e soprattutto si è detto disponibile a «considerare» l’opportunità di incontrare, qui nell’Urbe, l’Unione europea, che finora con l’amministrazione degli Stati Uniti ha rapporti tormentati, quando non inesistenti.
Seppur in coda, l’impegno sulla trasferta nella Capitale, magari allargato all’Ue, è stato inserito nel comunicato congiunto firmato dai due governi. Per Meloni è un primo passo. La macchina di Palazzo Chigi si è messa in moto e, come confermava ieri su queste colonne il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, l’obiettivo è organizzare il summit Ue-Usa per maggio, molto prima del vertice Nato di fine giugno.
Meloni non pensa a un trilaterale con Trump e Ursula von der Leyen. O almeno, non è questo il “piano A”. Vorrebbe che a Roma atterrassero anche i leader dei 27, una conferenza in grande stile. Ma deve fare i conti con la ritrosia di un blocco nutrito di alleati europei, che da 24 ore fanno trapelare segnali foschi, ufficiosamente: il summit? Meglio farlo a Bruxelles.
La richiesta del cambio di sede irrita il governo italiano, convinto di avere fatto ogni sforzo per favorire il negoziato tra le due sponde dell’Atlantico, sui dazi, ma anche sull’Ucraina. Intorno a Meloni – così riferisce un ministro di primo piano – il sospetto è che a ostacolare il summit siano soprattutto alcuni Paesi, «infastiditi» dall’azione italiana. La Francia di Emmanuel Macron. Ma anche la Spagna di Pedro Sanchez, che dialoga con la Cina, proprio mentre Trump chiede agli europei di tagliare gli affari con il Dragone.
Temendo queste resistenze, Meloni prova a giocare d’anticipo. Dopo la visita alla Casa bianca, raccontano fonti governative, ha sentito di nuovo Friedrich Merz. Non è ancora chiaro se il cancelliere tedesco in pectore appoggerà la richiesta italiana del vertice a Roma, ma il dialogo con Chigi è ben oliato, anche grazie agli uffici di Antonio Tajani, gemellato con il leader di Berlino nel Ppe.
Probabile che Meloni intervenga di nuovo sull’argomento mercoledì in Senato, al “premier time” in cui l’opposizione la incalzerà anche sul contratto per i satelliti di Musk, prima di imbarcarsi, venerdì, per una missione in Uzbekistan e Kazakhstan.
Perché il vertice di Roma abbia chance, decisive saranno le mosse di von der Leyen, che dovrà decidere se assecondare le cancellerie che premono per
spostare il summit a Bruxelles, anche per non sconfessare simbolicamente le istituzioni Ue, oppure fare asse con Meloni, considerando più fruttuosa la cornice romana.
Davanti a un quadro incerto, nella cerchia stretta della premier trapela questo ragionamento: «Trump a Roma verrà di sicuro e si è detto disponibile a valutare l’incontro con l’Ue». Il summit in Italia, dal punto di vista del governo, avrebbe «più margini di riuscita», vista la sintonia con il tycoon. «Se poi qualcuno vuole il vertice a Bruxelles, gli inviti li faccia l’Ue. E si vedranno i risultati»
(da La Repubblica)

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GLI ITALIANI NON INTENDONO DIVENTARE SUDDITI DI TRUMP – ALTRO CHE “SPECIAL RELATIONSHIP”, PER IL 65% DEGLI INTERVISTATI DA EUROMEDIA RESEARCH, IL NOSTRO PAESE DOVREBBE INVESTIRE MOLTE RISORSE IN TECNOLOGIA PER DIVENTARE INDIPENDENTE DAGLI STATI UNITI

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

4 SU 10 DICONO NO AL PIANO DI RIARMO, IN CONTROTENDENZA RISPETTO AGLI ALTRI PAESI EUROPEI

Gli italiani risultano poco propensi ad aumentare la spesa per la difesa, è quanto emerge da un sondaggio di Porta a Porta, la trasmissione televisiva Rai condotta da Bruno Vespa. Secondo il 44,3% degli intervistati gli investimenti in questo campo non dovrebbero aumentare e il 17,4% di questi è convinto che le somme in questo frangente dovrebbero perfino diminuire. In generale, sembra che l’opinione pubblica senta poco e lontano il rischio di conflitti armati che possano coinvolgere l’Italia e sicuramente dà maggiore priorità ad altri bisogni sociali.
Dal sondaggio emerge anche una malcelata scarsa fiducia nella gestione della cosa pubblica che si acuisce nei confronti della direzione europea: in molti temono che l’aumento del budget per la difesa possa tradursi in ulteriori sprechi, tangenti o sottrazioni di capitali a scapito di problematiche più vicine alla vita del cittadino come il carovita, la sanità, il welfare, la sicurezza, etc. Su questa linea si riconoscono la maggioranza degli elettori della Lega di Salvini (51%), del Movimento 5 stelle (61,9%) e di Alleanza Verdi e Sinistra (76,5%). La loro comunicazione politica risulta per i loro sostenitori più coerente con i bisogni sociali interni al Paese, una nazione “anziana” – in un lungo inverno demografico che appare senza ritorno – con la sanità sotto pressione, i giovani che emigrano per mancanza di opportunità, un’importante vulnerabilità climatica.
L’Italia – peraltro – ha una lunga tradizione pacifista post bellica e una Costituzione che “ripudia la guerra”. Tuttavia, se l’America di Donald Trump riducesse il suo sostegno militare per l’Europa, il 39,7% degli italiani sarebbe favorevole ad aumentare il budget per la difesa da parte dei singoli Stati membri della Ue: il 16,9% sosterrebbe addirittura un incremento significativo, mentre il 22,8% lo rinforzerebbe solo di poco.
Nella ricerca Euroscope di marzo The Pulse of the European Public Opinion di Polling Europe è stato fatto un confronto tra tutti i 27 membri della Ue sulla medesima domanda. Il quadro che ne emerge mostra l’Italia in netta discordanza con tutti gli altri Paesi, molto favorevoli all’opportunità di aumentare il budget della difesa nel caso in cui gli Usa dovessero ridurre il loro sostegno militare all’Europa. La media aritmetica tra tutti è intorno al 75% di favorevoli, con punte che si avvicinano all’80% per Germania e Nord Europa (Svezia, Danimarca, Finlandia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Irlanda e
Austria). Molti di questi Paesi, infatti, confinano direttamente o sono molto vicini alla Russia, come ad esempio la Finlandia, con oltre 1.300 km di frontiera in condivisione, e la Norvegia, che condivide solo un piccolo confine. Il Sud Europa, invece, comprendendo Paesi più lontani dall’area di influenza di Putin come Spagna, Portogallo Grecia, Malta, Cipro e la stessa Italia, si esprime più cautamente con un 62% di favorevoli all’aumento della spesa militare.
A differenza dei Paesi baltici e del Nord Europa, noi non siamo mai stati occupati, invasi o direttamente minacciati dalla Russia e quindi non esiste una memoria storica negativa radicata nei suoi confronti, ad eccezione di ciò che riguarda gli sviluppi economici che l’invasione dell’Ucraina ha portato con sé. L’Italia infatti, come molti altri Paesi europei, è stata a lungo dipendente dal gas russo e l’aumento delle bollette è stato imputato in larga maggioranza dai cittadini proprio al conflitto e alle sue origini, facendo sentire l’intera popolazione vincolata – se non ricattata – dai trattati imposti del leader Vladimir Putin. La sua immagine, rafforzata da pose simboliche e da un linguaggio che sottolinea con una certa sicurezza la sua resistenza contro l’Occidente, porta con sé il ritratto di un uomo forte, razionale, calcolatore, vicino al suo popolo e inflessibile con i nemici. Una forma di comunicazione centralizzata, strategica e costruita per mantenere il potere e influenzare la percezione internazionale. Molte dichiarazioni sembrano indirizzate più a colpire emotivamente l’opinione pubblica e a rafforzare una base politica piuttosto che a informare correttamente.
In questi tratti è molto simile al metodo comunicativo di Donald Trump, dove la verità diventa secondaria rispetto al potente effetto mediatico internazionale. Proprio la sua comunicazione “a giorni alterni” destabilizza e preoccupa la popolazione italiana. Il suo cambio di toni, di opinioni e di atteggiamenti rende complicato e difficile prevederne le azioni politiche e strategiche, tanto che le sue affermazioni provocatorie minacciano – ogni volta – le alleanze internazionali e la coesione sociale, generando forti incertezze sul futuro della politica globale e sui mercati internazionali.
Così anche l’indipendenza tecnologica dagli Usa è diventata un tema sensibile dopo le ultime dichiarazioni di the Donald. Intervistati nel merito da Euromedia Research, il 65,3% dei cittadini è convinto che l’Europa dovrebbe investire molte risorse in tecnologia per diventare indipendente se non – addirittura
competitiva con gli Stati Uniti. Su questo dato converge la maggioranza di tutti i cittadini europei anche nel sondaggio Euroscope, con una media che sfiora il 70%. Le guerre infliggono sofferenze e danni a intere popolazioni e, sin dai tempi più lontani, le scoperte scientifiche hanno aiutato i Paesi combattenti a sviluppare strumenti utili per prevalere nel conflitto. Molti degli investimenti in sistemi tecnologici avanzati, ad esempio, non sono spettacolari agli occhi del pubblico (come i sistemi di radar, le reti criptate di comunicazione, la difesa dai cyber attacchi), tuttavia rappresentano una buona base di partenza per gli investimenti in sicurezza del Paese. Il cittadino spesso non sa che tantissime tecnologie come Internet, Gps, droni, visori, touchscreen, Pvc, nylon, teflon, eccetera, sono alcuni esempi di innovazioni scientifiche e tecnologiche messe a punto durante i conflitti e poi riconvertite e di cui oggi tutti si avvantaggiano. Investire in tecnologia militare vuol dire anche alimentare l’innovazione industriale e civile, tuttavia questo legame per le persone non è sempre immediato, soprattutto in Italia dove il dibattito è spesso ideologico e frammentato. Riarmo e innovazione tecnologica spesso coincidono, ma i dati ci dicono che solo il secondo concetto è socialmente accettato.
Alessandra Ghisleri
(da lastampa.it)

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“VISIBILIA” ERA IL BANCOMAT DI CASA SANTANCHÉ: LA “PITONESSA” ADDEBITAVA ALLA SOCIETÀ ANCHE I FIORI PER LE TOMBE DI FAMIGLIA

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

I “BENEFIT AZIENDALI” COMPRENDEVANO 250 MILA EURO DI LAVORI PER LA VILLA A FORTE DEI MARMI E 27 MILA DI CONSUMAZIONI AL TWIGA TRA LEI, IL FIGLIO E LA SCORTA… A SPESE DELL’AZIENDA, CHE INTANTO AFFONDAVA TRA I DEBITI ANCHE I VIAGGI AEREI: 20 VOLI DEL RAMPOLLO LORENZO MAZZARO TRA IL 2014 E IL 2017, PIÙ ALTRI BIGLIETTI PER MAMMA, ZIA, AMICI, COMPAGNI, MA ANCHE L’EX ALESSANDRO SALLUSTI CON LA NUOVA FIDANZATA, PATRIZIA GROPPELLI. TUTTI INSIEME PER UNA TRASFERTA “POLIAMOROSA” A LONDRA

Crisantemi, gerbere e margherite. Pure i fiori per la tomba di famiglia Santanchè erano a carico di Visibilia Srl. La cimiteriale vicenda emerge in tutto il suo marmoreo nitore da uno scambio di email tra manager del gruppo fondato dalla ministra, che il Fatto ha potuto visionare.
Mercoledì 12 agosto 2015 Francesco Maggioni scrive a Paolo Concordia e Federico Celoria, oggetto “Fiorista”: “Ciao Paolo, mi ha chiamato la fiorista di Cuneo che cura la tomba di famiglia della Dottoressa. Deve fare la fattura e te le girerà via mail Paolo. Lei aveva come riferimenti la Holding ma dato che lì non ci sono denari io le ho detto di emettere alla Spa, come dicitura ovviamente metterà mazzi di fiori senza specificare a cosa serve”.
Sabato 15 agosto 2015 Celoria risponde a Concordia e a Maggioni: “Paolo, questa roba nn (sic) c’entra nulla con la Spa, non facciamo brutte figure addebitando ala (sic) Spa quotata fatture per costi di dubbia inerenza. Nascondiamo questo pietoso addebito nella Visibilia Srl. Grazie”.
Nel gruppo Visibilia, Francesco Maggioni, uomo vicinissimo a Santanchè e al suo compagno Kunz, era il controller, il manager che verificava i conti
Paolo Concordia, invece, era l’uomo dell’amministrazione, finito in udienza preliminare con la ministra e con Kunz per l’ipotesi di truffa aggravata allo Stato nella gestione della Cassa Covid a zero ore nelle società Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria (ora Athena Pubblicità). Vicenda per la quale Visibilia Editore ha patteggiato. Per i falsi in bilancio ha già patteggiato due anni e una confisca di 5 mila euro pure Federico Celoria, ex direttore finanziario (Cfo) del gruppo e consigliere dal 2014 al 2016.
Per i falsi in bilancio è finita a processo anche Visibilia Srl (ora in liquidazione giudiziale, il “vecchio” fallimento), mentre Visibilia Editore e Visibilia Editrice hanno già patteggiato.
“Il pietoso addebito” è confermato dalle fatture inserite tra le spese di rappresentanza di Visibilia Srl per i conti di quel lontano 2015.
Sono passati quasi 10 anni ma la fiorista Alba, titolare di un noto garden center a Cuneo, ricorda ancora e al Fatto racconta che “è successo una volta o due. Mi telefonava da Milano, diceva di mandarle quello e quello recapitavo, poteva anche essere per la tomba di famiglia alla Madonna dell’Olmo, che è qui vicino a Cuneo. Io l’ho vista una volta sola con la sorella. Se c’è scritto Visibilia sulla fattura avrà pagato così…”.
Dopo i lavori abusivi nella villa intestata al figlio Lorenzo Mazzaro, le vacanze al Twiga e i biglietti dei viaggi, anche gli omaggi ai trapassati dell’allora deputata di Forza Italia, oggi senatrice di FdI e ministra del Turismo del governo Meloni, erano pagati da Visibilia Srl: il vero bancomat dei vivi e pure dei morti.
Manca solo lo slogan. Dopo la meraviglia: “Open To Visibilia”, formula per il turismo familiare a spese delle aziende destinata a sicuro successo: il viaggio è privato, il conto è sociale. A rodarla per anni è stata proprio la ministra del Turismo in persona, spremendo i conti di Visibilia Srl, la società per cui Daniela Santanchè è imputata di falso in bilancio per averne nascosto le perdite fino alla liquidazione giudiziale.
Da lunedì il Fatto racconta quel che nei 18 faldoni dell’inchiesta di Milano rischia di perdersi: l’uso esteso dei “benefit aziendali” che, oltre ai buoni pasto, comprendevano 250 mila euro di lavori per la villa a Forte dei Marmi e 27 mila di consumazioni al Twiga tra lei, il figlio e la scorta. A spese dell’azienda, che intanto affondava tra i debiti. Vitto e alloggio. E i viaggi? Ecco allora i 20 voli del rampollo Lorenzo Mazzaro tra il 2014 e il 2017, più altri biglietti per mamma, zia, amici, compagni ed ex mariti.
Tutti insieme per una trasferta “poliamorosa” a Londra. Costo totale: circa seimila euro.
La cifra non è titanica, ma i documenti disponibili coprono solo quattro anni e una sola delle due agenzie usate per la biglietteria aerea: la Boarding Pass di Milano, a 400 metri dalla casa di Santanchè.
L’altra, Travel Service di Roma, già nel 2014 vantava comunque un credito non pagato verso Visibilia Srl di 1.240 euro. Ma è il principio che conta, almeno quello contabile: un socio che scarica le proprie spese personali su una Srl rischia di commettere illeciti civili e reati penali, tanto più se a forza di imputare spese estranee al suo “oggetto sociale” la porta alla liquidazione giudiziale, come in questo caso. Detto ciò, allacciate le cinture.
Estate 2014. I vigili di Pietrasanta bussano alla villa nel cuore del Parco della Versiliana per verificare che un nuovo residente abiti davvero lì. La futura ministra l’ha intestata al figlio Lorenzo appena maggiorenne. Sul citofono il suo nome c’è, lui in casa però no: viveva a 1.500 km di distanza, tra le colline di Egham nel prestigioso college della Royal Holloway University che sembra
l’Hogwarts di Harry Potter. Alla villa Lorenzo ci tornava, ma per le vacanze.
Il primo viaggio documentabile risale all’11 settembre 2014, un volo Gatwick-Pisa.
Un mese dopo riparte per Milano. Poi, il 17 dicembre torna da Londra dove rientra il 6 gennaio. A novembre altri due biglietti: andata il 28, ritorno il 30. Il conto finale per Visibilia Srl sarà di 754 euro. Per i cambi prenotazione c’è una penale di 80 euro a tratta: pazienza, tanto paga l’azienda. Nel 2016 la “quota rampollo” sale: 10 voli, 1.653 euro.
Il 2017 è l’anno in cui Visibilia Magazine Srl entra in liquidazione e 14 giornalisti già in cassa integrazione vengono licenziati in tronco: “Colpa della crisi editoriale”. Mamma Daniela ha regalato a Lorenzo una Porsche fiammante, ma attraversare la Manica col bolide è troppo complicato: meglio 354 euro di volo a carico dell’altra Srl.
D’altra parte tutta la famiglia viaggiava così.
Il 27 febbraio 2015, ad esempio, da Linate partono per Londra Daniela Santanchè, la sorella Fiorella e la nipote Silvia, tutte e tre a processo per i presunti falsi in bilancio. Al costo di 1.653 euro a carico di Visibilia Srl. Il 20 novembre segna il trionfo del “turismo familiare”.
L’agenzia emette sei biglietti a/r Milano-Londra: per Dimitri Kunz, l’attuale compagno della ministra, per Alessandro Sallusti, il suo ex, e per Patrizia Groppelli, ex moglie di Kunz e attuale compagna di Sallusti.
Sembra una puntata di Beautiful, ma è il rendiconto di Visibilia: 1.560 euro
Mentre Lorenzo volava, la sua villa in Versilia, giù a terra, veniva trasformata in una residenza di lusso da 4 milioni. Anche buona parte di questi costi venivano imputati a Visibilia Srl
(da Il Fatto Quotidiano)

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LE CONSEGUENZE DI ESSERE ALLEATI DEI DITTATORI: TI USANO PER GIUSTIFICARE I LORO PROCESSI FARSA: TRA LE ACCUSE A OLTRE QUARANTA OPPOSITORI POLITICI IN TUNISIA C’È ANCHE QUELLA DI AVER INCONTRATO DIPLOMATICI EUROPEI, TRA CUI L’ITALIANO FABRIZIO SAGGIO (EX AMBASCIATORE A TUNISI, ORA CONSIGLIERE DIPLOMATICO DI GIORGIA MELO

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

UNA STRONZATA, VISTO CHE SI TRATTA DI PAESI ALLEATI DEL REGIME DI KAIS SAIED – PROPRIO LA VICINANZA AL GOVERNO MELONI HA PERMESSO A SAIED DI CHIUDERE L’ACCORDO CON L’UE: LUI SI PRENDE I SOLDI E IN CAMBIO CI TIENE I MIGRANTI

Sono bastate le accuse (vaghe) di due personaggi anonimi e imputazioni come il fatto di aver pranzato con ambasciatori stranieri, compreso quello dell’Italia, per condannare in Tunisia una quarantina di oppositori politici a pene durissime, che vanno fino a 66 anni di carcere: è l’esito del “processo del complotto”, come viene chiamato da queste parti.
Ci si chiede: ma cosa potevano tramare con il rappresentante del paese di Giorgia Meloni, amica numero uno del presidente Kais Saied? Difficile capirlo. Una cosa è certa: è improbabile che queste pene rese in primo grado siano modificate in quelli successivi, in un paese dove il sistema giudiziario è ormai assoggettato a un sistema di potere dalla deriva autocratica.
Il “processo del complotto” era arrivato alla sua terza e ultima udienza venerdì: all’alba di oggi sono state rese note le sentenze contro gli imputati, giudicati colpevoli di “complotto contro la sicurezza dello Stato” e “adesione a un gruppo terrorista”, come precisato dalla Procura antiterrorismo.
Si tratta di personalità conosciute dell’opposizione, avvocati, uomini d’affari e militanti della società civile, che avrebbero tramato insieme contro Saied (ma che in realtà, in molti casi, non avevano alcun legame tra di loro). Alcuni sono in carcere dal momento del loro arresto, poco più di due anni fa. Altri erano stati rimessi temporaneamente in libertà e altri ancora sono fuggiti all’estero.
Da sottolineare: essere incarcerati in Tunisia, per qualsiasi ragione, vuol dire essere rinchiusi in edifici malsani, patire il freddo dell’inverno e l’afa d’estate, dipendenti dal cibo portato da amici e familiari e con la possibilità di mangiare solo pasti freddi.
Tra gli altri, Jawhar Ben Mbarek, noto esponente della sinistra e cofondatore della coalizione di forze all’opposizione, il Fronte di salvezza nazionale, e la militante dei diritti umani Chaima Issa sono stati condannati a 18 anni di prigione. Nourredine Bhiri, esponente di Ennahda, il partito islamista moderato, a 43.
L’ex dirigente del partito Ettakatol (socialdemocratico) Khayam Turki a 48 anni mentre 66 sono stati decisi per Kamel Eltaief, uomo d’affari influente. Tra gli imputati risulta addirittura il filosofo francese Bernard Henri-Lévy, che, secondo il sito Businessnews, sarebbe stato condannato a 33 anni.
Uno dei principali capi di accusa è il fatto che alcuni degli imputati abbiano incontrato diplomatici dell’Unione europea e di paesi come gli Usa, la Francia e l’Italia, tutti in realtà alleati della Tunisia di Saied.
Citato, fra gli altri, Fabrizio Saggio, già ambasciatore italiano a Tunisi e oggi consigliere diplomatico di Giorgia Meloni e responsabile del Piano Mattei. Gli avvocati della difesa avevano chiesto ufficialmente che questi personaggi si esprimessero al momento delle udienze, ma nessuno di loro, Saggio compreso, si è materializzato in aula. Proprio la vicinanza di Saied a Meloni ha permesso al presidente tunisino di concludere un accordo con l’Unione europea, con fondi in cambio dell’impegno a rafforzare i controlli sui flussi migratori verso Lampedusa, che in effetti si sono ridotti tantissimo rispetto alla crisi dell’estate 2022.
(da agenzie)

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UNA VOLTA ERANO GLI EUROPEI A EMIGRARE IN AMERICA, ORA IL FLUSSO SI STA INVERTENDO (GRAZIE TRUMP): STATO SOCIALE, QUALITÀ DELLA VITA PIÙ ALTA, CIBO MIGLIORE, CULTURA E DIVERTIMENTI: SEMPRE PIÙ STATUNITENSI SOGNANO DI PARTIRE PER IL VECCHIO CONTINENTE

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

IL “FINANCIAL TIMES”: “TRANNE I SUPER RICCHI, PER IL 99 PER CENTO DELLA POPOLAZIONE AMERICANA EMIGRARE IN EUROPA SAREBBE UN MIGLIORAMENTO DELLA VITA. SUPERA GLI STATI UNITI NEI TRE INDICATORI CHIAVE DI UNA BUONA VITA NEL XXI SECOLO: QUATTRO ANNI IN PIÙ DI ASPETTATIVA DI VITA, MAGGIORE FELICITÀ”

Gli europei sono sempre emigrati in America. Ma cosa succederebbe se il flusso si invertisse? Il numero di americani che affermano di voler lasciare gli Stati Uniti è passato dal 10 per cento nel 2011 a un record del 21 per cento lo scorso anno, secondo quanto riportano i sondaggisti di Gallup — e ciò è avvenuto prima che Donald Trump scatenasse il suo duplice attacco alla ricchezza e alla libertà americana.
Io vivo emotivamente tra i due continenti. Da studente britannico negli Stati Uniti nei primi anni ’90, pensavo che fosse il più grande paese sulla Terra. Ho sposato un’americana, ho avuto figli americani, ma alla fine ci siamo trasferiti a Parigi. Ora ho la sensazione che, anche mettendo da parte in qualche modo le enormi questioni legate a Trump e alla libertà, la maggior parte degli europei viva meglio della maggior parte degli americani.
C’è una grande eccezione: i super-ricchi. Se siete tra quegli americani facoltosi in attesa dell’ennesimo taglio fiscale da parte del Congresso, allora congratulazioni: l’amministrazione Trump sta almeno cercando di gestire il paese a vostro vantaggio.
È improbabile che i governi europei vi offrano lo stesso. Allo stesso modo, la maggior parte degli americani che lavorano nella tecnologia o nella finanza troveranno l’Europa poco dinamica e frustrante.
Questo lascia circa il 99 per cento della popolazione per la quale emigrare in Europa sarebbe un miglioramento della vita. I potenziali beneficiari più grandi sono gli adulti sotto i 35 anni: incapaci di permettersi una casa o persino l’asilo nido nelle principali città americane, ma abbastanza giovani da poter imparare una nuova lingua e costruirsi un nuovo giro di amici.
La logistica dell’emigrazione non è mai stata così facile. Il lavoro da remoto rende inoltre possibile la massima arbitraggio di vita: guadagnare uno stipendio americano vivendo nel Mediterraneo. La tecnologia ha attenuato la nostalgia di casa: puoi attraversare l’oceano ma rimanere in tutti i tuoi gruppi WhatsApp.
Per chi non riesce a imparare le lingue, l’inglese è ormai diffuso in gran parte dell’Europa. E la “Fortezza Europa”, così poco accogliente con le persone provenienti dai paesi poveri, mantiene un cancello permanentemente aperto per gli americani.
Una volta qui, il tuo stipendio potrebbe ridursi, ma le tue spese sicuramente diminuiranno. Il reddito pro capite dell’Eurozona è circa i tre quarti di quello degli Stati Uniti, corretto per il potere d’acquisto, secondo la Banca Mondiale. Gli americani in Europa potrebbero dover rinunciare a qualche bene di consumo.
In compenso, potranno permettersi casa, istruzione e assistenza sanitaria. Il premio medio per un’assicurazione sanitaria familiare negli Stati Uniti è di 25.572 dollari, riferisce la Kaiser Family Foundation. È più dello stipendio medio netto in gran parte dell’Europa. Anche il divertimento qui costa meno.
A pesare di più, tuttavia, sono i benefici psicologici. Vivere in America è un po’ come gestire una propria mini-compagnia assicurativa, pianificando costantemente per future malattie, rette universitarie, eccetera. In Europa, è lo stato a prendersi cura di tutto questo, ed è rilassante. Avrai più tempo libero, dato che gli europei lavorano circa un’ora al giorno in meno rispetto agli americani. Invece di confrontarti continuamente con persone più ricche di te, in Europa potresti essere tu il più ricco nel tuo nuovo giro di conoscenze.
E nonostante tutta la polarizzazione politica europea, il conflitto psichico
quotidiano qui non è paragonabile a quello dell’America di Trump.
Infine, trasferirsi in Europa è una scorciatoia per la salute. La vita americana — fatta di automobili, eccesso di lavoro e cibo processato — è un assalto quotidiano al corpo. Il tasso di obesità degli Stati Uniti, pari al 42,9 per cento, è quasi quattro volte quello della Francia.
In definitiva, come ho già sostenuto in passato, l’Europa supera gli Stati Uniti nei tre indicatori chiave di una buona vita nel XXI secolo: quattro anni in più di aspettativa di vita, maggiore felicità auto-dichiarata e meno della metà delle emissioni di carbonio pro capite, il tutto ottenuto con un rapporto debito/PIL molto più basso.
«Purtroppo, il sogno americano è morto», annunciò Trump nel 2015 scendendo dalla scala mobile dorata della Trump Tower per lanciare la sua campagna presidenziale. Provate piuttosto il sogno europeo.
Simon Kuper
per il “Financial Times”

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LEZIONI PER TRUMP: SULLA TECNOLOGIA, NESSUN PAESE È AUTOSUFFICIENTE (DALLA CINA): LE CATENE DI APPROVVIGIONAMENTO DI SMARTPHONE, PC E ELETTRONICA DI CONSUMO SONO MOLTO COMPLESSE E OGNI PAESE GIOCA IL SUO RUOLO: GLI USA PROGETTANO E DISPONGONO DEI SOFTWARE, TAIWAN PRODUCE I CHIP, BASATI SU PRODOTTI GIAPPONESI E MATERIE PRIME RAFFINATE IN CINA

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

IL TYCOON HA DICHIARATO GUERRA A PECHINO, SENZA PRENDERE PRIMA LE CONTROMISURE NECESSARIE (COME ACCUMULARE SCORTE DI MINERALI). RISULTATO? IL CAOS, COME SA BENE NVIDIA

Sei mesi fa, il produttore di chip Nvidia incarnava ciò che gli investitori apprezzavano dell’economia americana: profitti altissimi, innovazione impressionante e un fondatore carismatico — con giacca di pelle — Jensen Huang. Ora, l’azienda è diventata involontariamente un simbolo degli incubi aziendali scatenati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Mercoledì, Nvidia ha avvertito di una perdita imminente di 5,5 miliardi di dollari nei guadagni a causa delle nuove restrizioni statunitensi all’esportazione delle sue vendite di chip verso la Cina.
Huang si è precipitato in Cina, nel tentativo di salvare i suoi accordi. Ma il Congresso ha avviato un’indagine. Quindi il prezzo delle azioni di Nvidia è crollato, insieme ad altre aziende tecnologiche, mentre gli investitori digeriscono una verità spiacevole: i guai di Nvidia sono solo un piccolo (altamente visibile) segnale di un’ampia ondata di imminente disgregazione tecnologica derivante dalle guerre commerciali di Trump.
Ci sono almeno tre grandi lezioni qui. La prima è che la nostra economia politica moderna è perseguitata da una dissonanza culturale. Nella nostra vita quotidiana tendiamo ad agire e pensare come se le piattaforme digitali da cui dipendiamo esistessero in una sfera disincarnata e senza confini.
In realtà, il cyberspazio si basa su infrastrutture fisiche che tendiamo a ignorare — e sulle “catene di approvvigionamento più complesse [mai viste] nella storia umana”, come ha detto Chris Miller, professore della Tufts University, durante una conferenza militare e sulla sicurezza alla Vanderbilt University la scorsa settimana.
Queste catene di approvvigionamento attraversano così tanti confini che “nessun [paese] è autosufficiente — nemmeno lontanamente”, ha aggiunto Miller, osservando che mentre il Giappone domina il settore dei “wafer” (non si
parla di biscotti, ma delle “fette” di semiconduttori su cui vengono realizzati i chip, ndDago), con una quota di mercato del 56%, gli Stati Uniti detengono una quota del 96% nel software di automazione della progettazione elettronica e Taiwan controlla oltre il 95% della produzione avanzata di chip.
Nel frattempo, la Cina elabora oltre il 90% di molti minerali e magneti critici necessari per produrre beni digitali.
La seconda lezione è che la Casa Bianca sembra impreparata alle conseguenze delle interruzioni di questa complessa catena di approvvigionamento.
Consideriamo, ad esempio, la questione dei minerali critici. Questa settimana Pechino ha imposto controlli all’esportazione su sette di questi minerali, dopo che Trump ha imposto tariffe del 145% alla Cina. Non è stata una sorpresa, poiché 15 anni fa la Cina impose restrizioni simili al Giappone
La mossa del 2010 ha provocato tale shock in Giappone che le sue aziende e agenzie governative hanno successivamente creato enormi scorte di questi minerali e sviluppato alcune fonti alternative, riducendo la loro dipendenza dalla Cina dal 90% al 58%.
Ma le entità americane apparentemente non hanno fatto lo stesso: alla Vanderbilt mi è stato detto che le aziende americane hanno (al massimo) alcune settimane di scorte. Anche il Pentagono sembra impreparato.
E mentre la Casa Bianca sta ora cercando fonti alternative — dai fondali marini o da luoghi come l’Ucraina — probabilmente ci vorranno alcuni anni […], come ha avvertito questa settimana il Center for Strategic and International Studies. Ciò significa che l’America sarà “in svantaggio per il prossimo futuro”, aggiunge il CSIS.
Naturalmente, i consiglieri di Trump insistono sul fatto che questa sfida sia temporanea, poiché l’America alla fine creerà una catena di approvvigionamento tecnologica nazionale. Questo è l’argomento avanzato da accoliti di Trump come Peter Navarro, Bob Lighthizer e Stephen Miran, e da scrittori come Ian Fletcher e il trio di tre generazioni Jesse, Howard e Raymond Richman.
Infatti, se si vuole comprendere l’impulso dietro le tariffe specifiche per paese recentemente annunciate da Trump, vale la pena guardare al libro dei Richman “Balanced Trade” e a un successivo saggio del 2011. “La formula di Trump per calcolare le tariffe specifiche per paese è sorprendentemente simile alle nostre
proposte”, afferma Jesse Richman, che cita figure come Warren Buffett e John Maynard Keynes come padri intellettuali di questa filosofia tariffaria.
Forse è così. Ma anche se si abbracciano le teorie è profondamente sciocco imporle senza preparazioni accurate. Iniziare una guerra commerciale con la Cina senza accumulare scorte di minerali critici è un errore particolarmente ovvio e stupido.
Quindi, potrebbe questo costringere Trump a ritirarsi? Forse. Alcuni dei consiglieri di Trump sono ideologi, ma il presidente stesso è tristemente famoso per il suo comportamento transazionale.
Ciò evidenzia semplicemente la terza lezione chiave: la Casa Bianca sembra aver sottovalutato gravemente la leva della Cina in una guerra commerciale. Dopotutto, come osserva il CSIS, “la Cina [si è preparata] con una mentalità da tempo di guerra” per un conflitto da molto tempo. Tuttavia, “gli Stati Uniti continuano a operare in condizioni di pace”, almeno nel mondo aziendale.
Questo sta cambiando rapidamente. E ciò significa che gli investitori dovrebbero prepararsi a ulteriori shock nella catena di approvvigionamento tecnologica. Nvidia è solo l’avanguardia in una tempesta potenziale.
(da agenzie)

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CONTRO LA BANALITA’ DEL DIO LAVORO

Aprile 20th, 2025 Riccardo Fucile

L’ANSIA PRODUTTIVISTA RIDUCE A OGGETTO LE PERSONE… C’E’ CHI VUOLE RIBELLARSI: BASTA STRAORDINARI E SCIOPERO DAGLI SMARTPHONE PER RIPRENDERSI L’ESISTENZA

Nei prossimi giorni, il 1° maggio, si celebrerà la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Cioè noi, senza accorgercene, festeggeremo la nostra schiavitù. In epoche pre-moderne il lavoro non è mai stato un valore, tanto che San Paolo, che pur essendo un Santo e quindi disponibile al sacrificio, lo definisce “uno spiacevole sudore della fronte”.
Il lavoro diventa importante, anzi decisivo, con la Rivoluzione industriale il cui feticcio è la produttività. Scrive Dino Buzzati: “La produttività, ecco la sola cosa che veramente conti e davvero non si riesce a concepire come per millenni l’umanità abbia ignorato questa verità fondamentale… Produrre, costruire, spingere sempre più in su le curve dei diagrammi, potenziare industrie, commerci, sviluppare le indagini scientifiche rivolte all’incremento della efficienza nazionale, convogliare sempre maggiori energie nella progressiva espansione dei traffici… Tecnica, calcolo, concretezza merceologica, tonnellate, mercuriali, valori del mercato…” da Era proibito, racconto del 1958 dove lo scrittore si schiera contro la produttività in favore della poesia, cioè
della vita (se non fosse nato prima di me direi che Buzzati mi ha copiato).
La Festa del Lavoro fu istituita negli anni Sessanta dell’Ottocento per difendere i lavoratori dagli eccessi degli industriali che facevano lavorare anche i bambini di sei anni. E furono gli stessi industriali a darsi una qualche calmata quando si accorsero che a furia di massacrare i lavoratori con orari disumani finivano per ammazzarli perdendo così il proprio “capitale umano”, espressione che di per sé già dice tutto. Anche i sindacati sulla linea del pensiero marxista e socialista cercarono di metterci una pezza. Ma, nella sostanza, inutilmente. Per Marx il lavoro resta “l’essenza del valore”, del resto Stachanov è un eroe dell’Unione Sovietica (La classe operaia va in paradiso, 1971, con la straordinaria interpretazione di Gian Maria Volonté) per i liberisti, che non vanno confusi con i liberali, cioè Adam Smith, Ricardo e compagnia cantante, il lavoro è esattamente quel fattore che, combinandosi con il capitale, dà il famoso “plusvalore”.
Intendiamoci, la sete di lucro e la voglia di ricchezza non è solo degli imprenditori, ma come nota sarcasticamente Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904, riguarda “camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men…”. Ma che la ricchezza dovesse essere raggiunta non alla Ruota della fortuna o, per dirla adeguandoci ai nostri tempi, con una vincita al Totocalcio o al Lotto o all’Enalotto, questa era la novità inaudita.
Nel maggio del 1987 feci un reportage dal Sudafrica dell’Apartheid. Ciò che dirò appresso riguarda in particolare il Ciskei dove mi fermai una settimana, uno degli Stati interni del Sudafrica mai riconosciuti dalla cosiddetta Comunità internazionale. Mi accompagnava mio cugino, Valerio Baldini, geologo, che da quelle parti aveva vissuto a lungo. Ne riporto qui alcuni stralci (se è consentito a Feltri, lo sarà anche a me spero). “Le case delle campagne, le classiche huts a forma di cono, sono decorose, sia per la costruzione (i tetti sono di paglia, perché è il migliore riparo dal caldo, ma il corpo è di cemento) che per la disposizione. I campi sono coltivati, in genere a granoturco, quel tanto che serve. Sulla strada si colgono scene di un’antica Arcadia: donne alla fonte; donne che portano in equilibrio sul capo fascine di legna, cesti di frutta, secchi di acqua; pastori, immobili, avvolti in lunghi mantelli; fieri cavalieri;
adolescenti, graziose come gazzelle, che giocano a pallamano”. Fui circondato, per curiosità, da alcuni adolescenti che facevano scuola all’aperto, ragazzi e ragazze. Mi guardavano con occhi curiosi, limpidi, privi di malizia. Per essere felici gli mancava solo, e fortunatamente, la consapevolezza di esserlo. Valerio mi disse: “Vedi, il nero ha una cultura completamente diversa dalla nostra. Non ha voglia di guadagnare, di andare avanti, di fare profitti, si accontenta di quello che ha. Un bianco vuole sempre di più, se ha un campo lo coltiva tutto, il nero lo coltiva solo per quella parte che gli serve. Questa mentalità resiste fino a quando il nero non viene in contatto con il modello dei bianchi. Se vive vicino ai bianchi, vedendo come vivono i bianchi, alla fine assume i loro costumi. Quello che ha non gli basta più”. Ecco spiegato in due parole, senza bisogno di Weber, di Sombart, di Simmel e anche di Marx, lo spirito del capitalismo.
Naturalmente noi questo modo di vivere sereno lo abbiamo smantellato soprattutto in Africa nera e cerchiamo di sconvolgerlo, ad uso naturalmente di predazione, ulteriormente con i vari “Piani Mattei”.
Ultimamente c’è una certa rivolta giovanile nei confronti di questa Konkurrenzkampf che ci fa vivere male tutti, in particolare i giovani ma non solo loro. Negli Stati Uniti è nato un movimento, il Luddite club, ispirato al Luddismo, che però non distrugge ingenuamente le macchine, ma si rifiuta di usarle, a cominciare dai micidiali smartphone. Più limitatamente i giovani si rifiutano di fare un solo minuto di straordinario, non vogliono essere disturbati a casa dalle telefonate dei dirigenti. Al lavoro preferiscono la vita.
Massimo Fini
(da ilfattoquotidiano.it)

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