Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
LA FIDUCIA NELLA DUCETTA È CROLLATO AL 34%, IN CALO DI UN PUNTO NELL’ULTIMO MESE – IL MINISTRO CON IL PEGGIORE INDICE DI POPOLARITÀ È MATTEO SALVINI… LA COSTRUZIONE DEL PONTE SULLO STRETTO È IL PROVVEDIMENTO MENO POPOLARE NEL COMPLESSO
Dopo 1.000 giorni dall’insediamento del governo guidato da Giorgia Meloni,
YouTrend per Sky TG24 ha promosso una ricerca approfondita per tastare il polso all’opinione pubblica italiana sul gradimento dei ministri e sulle principali scelte dell’esecutivo. I risultati fotografano un quadro complesso e per certi versi impietoso, dove critiche e consensi si distribuiscono in modo diseguale tra i componenti del governo e le loro politiche.
La valutazione generale del governo e dei ministri
A mille giorni dal mandato, il governo Meloni si presenta con il 62% degli intervistati che esprimono un giudizio negativo (+2% rispetto a giugno), mentre solo il 34% degli italiani mantiene un parere positivo, in leggero calo rispetto al mese precedente. Nessuna delle figure di primo piano sembra risparmiata: fiducia stabile o in calo per tutti, compreso il Capo dello Stato Sergio Mattarella che, pur restando il più apprezzato con il 60%, registra un -3%.
Ecco il posizionamento dei principali leader:
Giorgia Meloni (Presidente del Consiglio): 34% di fiducia (-1%)
Giuseppe Conte: stabile al 27%
Antonio Tajani: 26% (-2%)
Elly Schlein: 25% (-1%)
Matteo Salvini: 22%
Carlo Calenda: 16%
Matteo Renzi: 11%
Chi sale e chi scende nella squadra di governo
Matteo Salvini risulta essere il ministro con il peggior indice di popolarità tra quelli in carica. Non riceve condanne all’interno dell’elettorato leghista, ma negli altri schieramenti raccoglie il maggior numero di giudizi negativi (26% di indicazioni “peggiori” e 42% tra chi si esprime).
Sul fronte opposto, Giancarlo Giorgetti (Economia) emerge come uno dei più apprezzati, sia dalla maggioranza sia, in modo sorprendente, dagli oppositori (9% di indicazioni spontanee, 17% nette; addirittura 18% tra gli elettori del “campo largo”, e 38% in termini netti).
Bene anche Guido Crosetto (Difesa), che ottiene il 33% di giudizi positivi (contro il 39% negativi), superando Meloni stessa (34% positivi, 55% negativi) e Tajani (30% positivi, 48% negativi).
Il ministro più bocciato dal pubblico risulta Daniela Santanché (Turismo): solo l’11% degli italiani le attribuisce un giudizio positivo, mentre il 66% si esprime in senso negativo. Colpisce il fatto che il 51% degli stessi elettori di centrodestra chiedano un cambio di rotta per il suo ministero.
Le politiche che dividono e quelle che mettono d’accordo
Il provvedimento più popolare in assoluto è l’inasprimento della legislazione contro il femminicidio, sostenuto dal 38% degli
intervistati. Tuttavia, il consenso non è omogeneo: l’elettorato di centrodestra preferisce invece misure come l’eliminazione del reddito di cittadinanza (51%), inasprimento delle regole su immigrazione (41%) e sulle occupazioni pubbliche (35%).
Sul fronte degli scontenti, la costruzione del Ponte sullo Stretto risulta essere il provvedimento meno popolare nel complesso, soprattutto tra chi sostiene l’opposizione (56%) ma anche nel dato generale (36%). Il Decreto Sicurezza si impone come motivo di forte divisione, essendo il secondo provvedimento più osteggiato dalle opposizioni (50%; addirittura 60% tra gli elettori PD e 63% tra quelli AVS).
Clima e intenzioni di voto
La situazione di fiducia bassa verso il governo e i suoi ministri si riflette anche nelle intenzioni di voto. Fratelli d’Italia accusa una leggera flessione, scendendo al 28,1%. Il PD resta stabile al 22,1%. Da segnalare la crescita del Movimento 5 Stelle (+0,8%, 12,7%) e di alcuni partiti minori come AVS (+0,4%, 7,3%) e Azione (+0,4%, 3,6%). La percentuale di astenuti e indecisi aumenta e raggiunge il 41,6%
(da agenzie)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE, IL CONSENSO SUL TYCOON, IN MERITO ALLA GESTIONE DEL BILANCIO, È CALATO DI 11 PUNTI – IL 58% AFFERMA CHE TRUMP HA ESAGERATO A TAGLIARE I PROGRAMMI FEDERALI. E 4 ELETTORI REPUBBLICANI SU 10 NON SI ASPETTANO ALCUN BENEFICIO ECONOMICO
Circa 6 americani su 10 si oppongono alla legge repubblicana di politica interna firmata di recente da Donald Trump, secondo un nuovo sondaggio della CNN condotto da SSRS.
A seguito del suo più ampio successo legislativo da quando è tornato alla Casa Bianca, il consenso su Trump in merito alla gestione del bilancio è calato di 11 punti rispetto a marzo, con una maggioranza crescente che ritiene abbia tagliato eccessivamente i programmi governativi.
Sebbene ci siano segnali che l’opinione pubblica non si sia ancora del tutto consolidata — meno di un terzo degli americani segue da vicino le notizie sulla legge, e circa la metà non esprime opinioni forti in un senso o nell’altro — l’opposizione iniziale è significativamente superiore al sostegno iniziale.
Gli americani dicono di opporsi alla legge di spesa con un margine del 61% contro il 39%. La maggioranza, il 58%, afferma che Trump ha esagerato nei tagli ai programmi federali (in crescita di 7 punti da febbraio) e il suo gradimento nella gestione del bilancio federale è ora solo al 37%.
Il giudizio sulla gestione fiscale è leggermente migliore, con il 44% di approvazione, vicino al massimo raggiunto durante il suo primo mandato.
Più persone si aspettano che la legge danneggi l’economia
piuttosto che migliorarla, con un margine del 51% contro il 29%; il resto si aspetta che abbia poco impatto. Il 37% degli intervistati ritiene che la propria famiglia starà peggio, contro il 16% che si aspetta un miglioramento, mentre quasi la metà è incerta o ritiene che non ci saranno grandi effetti.
L’approvazione complessiva del lavoro di Trump resta al 42%, sostanzialmente stabile dalla primavera, ma solo il 37% pensa che abbia dato priorità alle questioni giuste, in calo di 6 punti da marzo.
Cosa piace e cosa no agli americani della legge
La reazione pubblica ai contenuti della legge non è del tutto negativa. Con un margine di 29 punti, gli americani ritengono che i cambiamenti fiscali — come l’estensione permanente dei tagli alle tasse del 2017, l’esenzione temporanea delle mance dalle imposte, e i benefici ampliati per anziani e genitori — siano più una ragione per sostenere che per opporsi alla legge.
Lo stesso vale per l’aumento della spesa per la difesa (con un margine di 13 punti) e per la sicurezza dei confini e l’immigrazione (8 punti).
Ma con un margine di 45 punti, l’aumento del deficit viene indicato come motivo di opposizione. Anche l’eliminazione degli incentivi per le energie pulite a favore del petrolio e del gas è vista negativamente, con un margine di 25 punti.
Infine, con un margine di 8 punti, sono negativamente valutate le modifiche ai programmi di welfare come i maggiori requisiti di lavoro per chi riceve Medicaid e assistenza alimentare, e la
riduzione della spesa federale su questi benefit. Il sostegno di Trump alla legge è, a sua volta, considerato più una ragione per opporsi che per sostenere, con un margine di 18 punti.
L’opposizione democratica supera il sostegno repubblicano
Le opinioni sulla legge sono fortemente divise per appartenenza politica, ma l’intensità del dissenso democratico supera quella del sostegno repubblicano. Il 93% di democratici e simpatizzanti dice di opporsi alla legge, con il 71% che si dichiara fortemente contrario.
Tra i repubblicani e simpatizzanti, il 78% sostiene la legge nel complesso, ma solo un quarto esprime un forte sostegno.
Nonostante l’ampio appoggio GOP per le misure fiscali (86%) e per la spesa sull’immigrazione (83%), circa 4 repubblicani su 10 non si aspettano benefici economici e solo un terzo prevede vantaggi personali. Quattro su dieci considerano inoltre il maggiore deficit un motivo per opporsi alla legge.
La maggioranza pensa che Trump non abbia le priorità giuste
Mentre la valutazione generale di Trump nel suo secondo mandato si stabilizza intorno al 40%, il 63% pensa che non abbia dato sufficiente attenzione ai problemi più importanti del Paese.
Il 75% dei repubblicani ritiene che abbia le priorità giuste, ma è il dato più basso tra i suoi elettori da gennaio. Inoltre, il 56% afferma che l’approccio alla presidenza è stato troppo rischioso, anziché una necessaria “scossa” a Washington
Sempre il 56% pensa che abbia abusato del potere esecutivo, e i
51% dice che è andato troppo oltre nel forzare le università a cambiare le loro politiche. Per contro, il 58% pensa che non abbia ancora fatto abbastanza per abbassare i prezzi dei beni di consumo.
Alla domanda aperta su quale sia il problema più importante, il 31% ha indicato economia, inflazione o costo della vita — la risposta più frequente, anche se in calo dal 44% di gennaio. Tra questi, il 65% afferma che Trump non ha fatto abbastanza per ridurre i prezzi.
L’immigrazione resta il secondo tema più citato, ma la sua dinamica politica è cambiata. A gennaio i repubblicani erano 26 punti più propensi dei democratici a nominarla come priorità. Ora il divario è sceso a 10 punti, per via della crescente preoccupazione democratica per il programma di deportazioni di Trump, che invece continua a ricevere ampi elogi dalla base repubblicana.
Il sondaggio rileva anche un aumento delle preoccupazioni democratiche su spesa pubblica, separazione dei poteri, stato di diritto e sulla figura di Trump stesso.
Un tema che non ha avuto rilievo nel sondaggio è stato lo scandalo relativo alle informazioni pubblicate dal governo federale sul caso Jeffrey Epstein: un solo intervistato lo ha menzionato come questione prioritaria.
(da agenzie)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
QUINDI ESSERE POVERI È INDECOROSO? NEL COMUNE PIÙ RICCO D’ITALIA ORMAI È TUTTO UN DIVIETO: NON CI SI PUÒ SEDERE SU UN GRADINO PER MANGIARE, NON CI SI PUÒ FERMARE PER UN SELFIE …E’ EVIDENTE CHE, OLTRE AI MEDICANTI, A PORTOFINO NON VOGLIONO TURISTI SPROVVISTI DI CORPOSO CONTO IN BANCA
Cose che si possono fare a Portofino. Per esempio, mangiare un’insalata di quinoa con
olive da 22 euro sorseggiando un calice di Franciacorta da 25 euro, comodamente seduti al tavolino del Caffè Excelsior di Dolce & Gabbana.
«Scusi, quanto costa una bottiglietta d’acqua?». «Sei euro». Un caffè espresso? «Cinque euro».
Volendo, c’è anche una coppa di gelato alla fragola a 16 euro. Parcheggio per arrivarci: 8 euro l’ora. Mentre per l’unico bagno pubblico, in cima alla salita, basta un euro a pipì.
Cose che, in compenso, non si possono più fare a Portofino. Mangiare un pezzo di focaccia seduti su un gradino della
piazzetta, girare a torso nudo davanti al porticciolo. Vietato intasare l’orizzonte intasato dagli yacht per fare un selfie da instagrammare rallentando così il flusso dei turisti in arrivo per farsi un altro selfie.
«Avanti! Non ingolfiamo», urla la guida della comitiva di croceristi alzando la paletta con il numero 3. Vietato bivaccare. Vietato camminare scalzi. Vietato sdraiarsi. Vietato sedersi davanti alla gelateria Gepi – hanno messo dei cartelli di divieto identici a quelli per le auto in sosta. E poi, ancora, vietato bere birre portate da casa e vietato chiedere l’elemosina sempre e in ogni caso, anche con metodi gentili e «non molesti». Vietato essere poveri?
«Non ci sto. Basta con queste cazzate! Non è una questione di ricchi o di poveri, ma di decoro, soltanto di decoro», dice il sindaco Matteo Viacava al quindicesimo giornalista interessato alla sua nuova ordinanza.
Portofino non è più soltanto quello con il reddito medio più alto d’Italia, il più ricco, grazie al residente Pier Silvio Berlusconi, adesso è anche il comune con il maggior numero di divieti.
«Voi giornalisti avete sempre voglia di esagerare!», dice Viacava. «Io non ho nulla contro i poveri, anzi. Abbiamo appena risistemato le case popolari e aperto un supermarket comunale. E poi, spesso, i comportamenti peggiori sono quelli di certi ricchi. Per esempio, l’altro giorno ho visto due persone sdraiate in piazzetta con una bottiglia di champagne. Non c’entra quanti soldi hai, questo paese è aperto a tutti quelli che lo
rispettano».
L’accattonaggio? Non si è mai visto un mendicante a Portofino. Forse per il fatto che ogni persona viene controllata dalla polizia municipale lungo l’unica strada d’accesso e di mendicanti via mare, bè…
«È un provvedimento preventivo, solo per evitare che certe cose possano succedere in futuro anche qui», dice ancora il sindaco Viacava.
Pare che il comune di Camogli voglia copiare di sana pianta l’ordinanza del comune di Portofino. L’unica regola che manca è quella sulla gentilezza di certi esercenti di questa riviera, ma purtroppo nessuno può prescriverla per legge. Eppure, diceva il saggio: «Se vuoi aprire un negozio, prima impara a sorridere».
(da agenzie)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
DIETRO LA MASCHERA DEL DIRETTORE D’ORCHESTRA COMPLICE DI PUTIN: FONDAZIONI OPACHE, SOCIETA’ FITTIZIE E PATRIMONI INVISIBILI
Dietro la maschera del grande direttore d’orchestra, capace di incantare le platee internazionali con le partiture di Prokof’ev e Tchaikovsky, si muove una realtà completamente diversa, parallela, fatta di fondazioni opache, società fittizie e patrimoni invisibili.
Valery Gergiev, sodale storico di Vladimir Putin, ha costruito in Italia un meccanismo sofisticato che unisce occultamento patrimoniale, triangolazioni finanziarie e proiezione culturale del potere russo nel cuore dell’Unione Europea.
È qui, tra Venezia, Milano, Roma e soprattutto la Costiera Amalfitana, che il direttore ha strutturato il suo salvadanaio
personale e operativo. Un sistema che utilizza la cultura come schermo e l’arte come vettore strategico per ripulire capitali, spostare fondi e finanziare la propaganda russa sotto il volto rassicurante della musica.
Grazie a un lavoro investigativo incrociato con fonti qualificate e materiali patrimoniali, siamo in grado di documentare come Gergiev abbia creato in Italia una rete fitta di società – intestate a prestanome e del tutto invisibili alla supervisione fiscale – che gestiscono un patrimonio immobiliare da oltre cento milioni di euro.
Il cuore pulsante di questo impero opaco è una tenuta a Punta San Lorenzo, nel comune di Massa Lubrense, affacciata sulla costa sorrentina e inaccessibile via terra. Una proprietà monumentale, con villa padronale, torre saracena e resti archeologici, dove risiedono in pianta stabile uomini legati all’ex apparato militare russo, con funzioni di sorveglianza, protezione e logistica.
La proprietà, formalmente intestata alla società Commercio Edilizio S.r.l., è solo il primo strato. Attorno a questa entità orbitano almeno una decina di società satelliti, riconducibili a Gergiev, che agiscono in Campania, Lazio e Lombardia. Si tratta di soggetti giuridici che operano nel settore immobiliare, culturale, musicale, della rappresentanza artistica e della logistica. Il loro tratto comune è l’opacità, e tutte convergono in un ecosistema di fondazioni, associazioni e centri culturali russi attivi in Italia
A rafforzare la natura riservata della tenuta di Massa Lubrense è anche la posizione logistica del porto di Marina della Lobra, a pochi minuti di navigazione dalla proprietà. Da questo piccolo approdo, oligarchi russi con doppio passaporto, funzionari e diplomatici possono accedere direttamente alla villa senza mai passare dal paese. È qui che, secondo fonti investigative dirette, si sarebbe tenuto alcuni mesi fa un incontro riservato tra imprenditori e funzionari russi, con l’obiettivo di studiare e coordinare strategie per eludere le sanzioni internazionali. Una riunione discreta, fuori dai radar, che conferma la funzione geopolitica della proprietà: non solo residenza, ma centro operativo.
Una parte dei proventi derivanti dalle attività immobiliari – come la locazione del Palazzo Barbarigo a Venezia, la quota nel Caffè Quadri in Piazza San Marco, o le ville tra Lazio e Romagna – viene reinvestita in circuiti pseudo-culturali e in eventi legati alla rete di influenza russa in Europa.
Secondo fonti di intelligence europee, una quota dei compensi ricevuti da Gergiev per le sue esibizioni viene destinata al finanziamento della propaganda russa di natura culturale, che opera attraverso festival, pubblicazioni, centri studio e accademie apparentemente indipendenti.
L’Italia, in questo quadro, non è solo il contenitore patrimoniale, ma il vero laboratorio di operatività finanziaria della strategia soft power del Cremlino.
Già nel 2022, la Fondazione Anti-Corruzione di Alexei Navalny
aveva denunciato che Gergiev avesse dirottato oltre 300 milioni di rubli, circa 4,3 milioni di euro, verso conti personali, utilizzando fondazioni culturali finanziate da Gazprombank, Rosneft e VTB. Dopo la chiusura del Rotterdam Philharmonic Gergiev Festival, la principale “lavatrice culturale” del suo sistema, l’intero impianto è stato ricostruito altrove: nuove società, nuovi statuti, ma lo stesso meccanismo di fondo.
Il prossimo 27 luglio alla Reggia di Caserta, Gergiev tornerà a dirigere in Italia. Un evento annunciato come simbolo di dialogo e pace, ma che rappresenta in realtà un momento chiave dal punto di vista investigativo. Sarà fondamentale, attraverso l’accesso agli atti, individuare quale soggetto giuridico riceverà il pagamento del cachet destinato al maestro.
Questo permetterà di mappare un’ulteriore entità economica riconducibile alla sua rete. Ogni pagamento pubblico, ogni contributo istituzionale diventa così un’occasione per scoperchiare una nuova scatola cinese di questo sistema sfuggente, che trasforma la cultura in strumento d’interesse strategico.
Ma resta ancora senza risposta la domanda cruciale: quale imprenditore locale o quale società ha proposto alla Regione Campania l’ingaggio di Valery Gergiev?
Chi ha agito da facilitatore di un evento che, nel pieno di una guerra scatenata da Mosca, porta in scena il volto più sofisticato del potere russo, offrendo palchi pubblici e risorse italiane a una figura centrale della macchina di influenza del Cremlino?
Nel frattempo, Gergiev guarda già oltre. È stata annunciata una tournée in Spagna per il 2026, con tappe a Barcellona, Madrid e Siviglia. Un nuovo ciclo di concerti che, ancora una volta, offrirà copertura culturale a una delle figure-chiave del potere putiniano.
La musica continua, e con essa il flusso di fondi, immobili, benefici fiscali e relazioni istituzionali. Il direttore d’orchestra, acclamato in sala e protetto da passaporto olandese, si muove al centro di una rete che l’Europa fatica a vedere. Ma in Italia, quella rete ha già radici profonde. E continua a crescere, indisturbata.
(da Linkiesta)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
IL SINDACATO DEI BALNEARI: “LA RIVIERA È IL REGNO DELLA CLASSE MEDIA, CHE NON ESISTE PIÙ. IL CLIENTE HA RISTRETTO LA DURATA DI PERMANENZA E ANCHE IN SPIAGGIA CI SI CONCENTRA NEL WEEKEND”
Traffico e lungomare affollato, locali spesso pieni, battigie assiepate di bagnanti che
fanno avanti e indietro lungo la costa, a Marina di Ravenna come a Cesenatico, a Rimini come a Riccione.
La cartolina dei weekend è grossomodo questa sulla Riviera romagnola. Tutto cambia però nel giro di qualche giorno, perché sotto il sole cocente dei giorni feriali, lungomare, spiagge e alberghi si svuotano anche in luglio. È complesso, dunque, decifrare l’andamento della stagione.
«Ci sono da fare premesse economiche – spiega Simone Battistoni, presidente di Sib Confcommercio, il sindacato degli operatori balneari –per comprendere un paesaggio che appare contraddittorio a seconda dei giorni. La Riviera è il regno della classe media, che sostanzialmente non esiste più, tra crisi dei consumi e stipendi fermi.
Il cliente ha ristretto la durata di permanenza e anche in spiaggia ci si concentra nel weekend. La settimana feriale è calma anche se qualche eccezione si vede. So che è in crescita il turismo estero, che in alcune nostre località si vede meno che in altre. Spesso, però, gli stranieri cercano le piscine. A Cesenatico notiamo una presenza massiccia di turisti del nord Italia e del centro nord».
Ad attrarre i turisti restano i prezzi dei servizi. Venticinque – trenta euro al giorno per un ombrellone e due lettini: per molti resta un prezzo accettabile rispetto ad altre località, ma non per tutti, perché a cambiare, come diceva Battistoni è il potere di acquisto dei turisti anche nelle località nazionalpopolari.
Lo stesso discorso vale per gli alberghi, con strutture che offrono camere matrimoniali a novanta euro a notte. Nettamente lievitati — e questo è un dato oggettivo — i prezzi dei menù dei locali e dei ristoranti, dove anche un drink poco sofisticato può sfiorare i sette euro. Detto questo, i bilanci si faranno solo a fine stagione e non manca molto.
A proposito di presenze, sono già disponibili i dati dello scorso maggio, certificati dall’Istat. A Rimini i pernottamenti hanno sfiorato il milione e mezzo, cifra record almeno dal 2016: spicca il dato sui turisti stranieri, che valgono il 30% del totale.
Il Comune di Rimini e Apt, l’agenzia di promozione turistica regionale, si preparano a finanziare per i prossimi tre anni un piano per il potenziamento dell’internazionalizzazione dello scalo considerato strategico per tutta la costa romagnola. L’accordo per ora ha ottenuto il parere in V Commissione a Rimini.
La pista dell’aeroporto Fellini, lunga quasi tre chilometri e mezzo è la più lunga in Regione e tra le maggiori del Paese, lascito dei tempi d’oro in cui lo scalo se la giocava, quanto traffico, con gli aeroporti delle città più grandi.
Oggi, però, le infrastrutture (accoglienza, spazi esterni) sono ancora quelle di un piccolo scalo. Parallelismo perfetto per rappresentare il segno dei tempi, in Riviera come altrove: da una parte le grandi potenzialità dall’altra le criticità.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
“IL SUO SILENZIO E’ INSOSTENIBILE. IL NOSTRO GOVERNO DEVE ATTIVARSI COME HA FATTO QUELLO SVIZZERO CON IL COMPAGNO DI PRIGIONIA DI MIO FIGLIO, CHE È STATO LIBERATO DA POCO E HA RACCONTATO AI MEDIA LE TERRIBILI CONDIZIONI DI DETENZIONE IN CUI SI TROVA ALBERTO” (IN CARCERE I TOPI PASSANO VICINO ALLA FACCIA E SI HANNO 45 MINUTI D’ARIA TRE VOLTE A SETTIMANA)
Mamma Armanda è fuori dal tribunale di Roma a portare il suo dolore, il suo amore e il suo coraggio per quel figlio, Alberto Trentini, da otto mesi in carcere in Venezuela. «Ma tutto tace compresa la nostra presidente del Consiglio».
Accanto a lei c’è un’altra mamma, Paola Regeni, che nell’aula d
tribunale confida nella giustizia e nel vedere condannati i quattro 007 egiziani che hanno ammazzato e torturato suo figlio Giulio e abbandonato il corpo sull’autostrada che da Alessandria porta al Cairo.
Mamma Armanda lo dice chiaro: «Questo silenzio, per me e per la mia famiglia, è insostenibile». Nel suo cuore, chissà, la speranza che il suo appello smuova le coscienze. Soprattutto quelle dei potenti. «Il nostro governo deve attivarsi come ha fatto quello svizzero con il compagno di prigionia di mio figlio, che è stato liberato da poco e ha raccontato ai media le terribili condizioni di detenzione in cui si trova Alberto».
Quell’uomo uscito dalla prigione di El Rodeo, la stessa dove dal 5 novembre 2024 è rinchiuso il cooperante italiano, aveva parlato di «quell’inferno dove i topi ti passano vicino alla faccia e si hanno 45 minuti d’aria tre volte a settimana». Aveva descritto torture, umiliazioni.
Armanda Trentini si rivolge alle istituzioni: «Dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con urgenza ed efficacia per riportare a casa nostro figlio mettendo in campo qualsiasi strumento di diplomazia, come è stato fatto in altri casi». Duecentoquaranta giorni senza Alberto.
E poco dovrebbero importare eventuali interessi in ballo, eventuali equilibri politici o diplomatici. «Otto mesi sono troppi e dobbiamo ribellarci – dice – Contatti non ce ne sono e noi aspettiamo con fiducia che qualcuno faccia ciò che è necessario. Ogni giorno di inerzia in più corrisponde a indicibili sofferenze».
Alberto lavora per la Ong Humanity&Inclusion, in prima fila nell’assistenza alle persone con disabilità. In Venezuela era arrivato lo scorso 17 ottobre per una missione umanitaria. Poi, il 15 novembre, mentre stava raggiungendo Guasdalito dalla capitale Caracas, viene fermato a un posto di blocco insieme all’autista dell’organizzazione. Viene arrestato senza ragione e gettato in quella prigione gestita direttamente dai servizi segreti del presidente Maduro. Per mesi non si sono avute sue notizie. Il 16 maggio, la telefonata concessa. Il quarantaseienne cerca di rassicurare i familiari, dice di stare bene.
Ieri, fuori da piazzale Clodio, prima che iniziasse l’udienza sull’omicidio di Giulio Regeni, mamma Armanda e mamma Paola erano lì, insieme, a tenere alto lo striscione: «Alberto Trentini Libero». Accanto a loro l’avvocata Alessandra Ballerini e la segretaria del Partito Democratico. Elly Schlein chiede «ogni sforzo per la liberazione di Alberto». E ancora: «Questo silenzio non può continuare. Bisogna attivare ogni canale per riportarlo a casa». Al presidio c’è anche don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera.
Non utilizza mezzi termini: «C’è un presidente, un tiranno, che si professa cattolico e che manda i suoi figli nelle scuole cattoliche. Si ponga una mano sulla coscienza perché Dio ci invita a impegnare la vita per i diritti di tutti. Signor presidente
Maduro faccia la propria parte e la faccia anche la nostra presidente».
Don Ciotti parla di «troppi silenzi che hanno accompagnato questi mesi. Troppe prudenze, troppe deleghe e troppe ambiguità». Alberto, dice, «è un nome che non porta con sé nessuna colpa. Anzi, porta con sé la generosità di andare nel mondo a sostegno dei più fragili». E aggiunge: «Per Giulio Regeni, per Mario Paciolla, non siamo arrivati in tempo. Allora chiediamo per loro verità e giustizia per la loro morte. Per Alberto siamo in tempo per chiedere rispetto per la sua vita, la libertà e la verità».
(da La Stampa)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
TERMINATE LE DOMANDE DEI CRONISTI, IL MINISTRO HA FATTO UN PASSO INDIETRO E, RIVOLGENDOSI A VANESSA RICCIARDI, DI “STAFFETTA QUOTIDIANA”, PRIMA L’HA TOCCATA SULLA SPALLA CON UN PAIO DI PACCHE VELOCI, E POI L’HA OFFESA… UN MINISTRO CAFONE CHE PENSAVA FORSE DI RIVOLGERSI A QUALCHE SUA AMICA
Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha dato
della “stronzetta” a una giornalista. L’episodio è avvenuto oggi all’Aula dei gruppi parlamentari alla Camera a margine della presentazione di uno studio di Confindustria e Enea sul nucleare.
Il ministro andando via, terminate le domande dei cronisti, ha fatto un passo indietro. E, rivolgendosi a Vanessa Ricciardi, collaboratrice di Staffetta Quotidiana – che lo aveva incalzato su un paio di temi – l’ha toccata sulla spalla con un paio di pacche veloci, e le ha detto: “Che stronzetta”. Non appena si è reso conto di quanto accaduto, è stato repentino anche il passo indietro del portavoce del ministro che avvicinando la giornalista le a mormorato: “Guarda che è un complimento…”, pensando così di ‘tranquillizzarla’.
“Non mi aspettavo quella reazione – ha raccontato a LaPresse Vanessa Ricciardi – credo che sia opportuno mantenere un linguaggio consono nei rapporti con la stampa, soprattutto da parte di chi rappresenta il potere politico”.
Al ministro – che stava lasciando il convegno dopo esser intervenuto – erano state rivolte diverse domande, dal nucleare ai dazi e al carbone che importiamo dagli Usa, dal Gnl per i rigassificatori che arriva sempre dall’America all’energy release
e al decreto Aree idonee, fino alle faccende che riguardando il grande siderurigico tarantino, l’ex Ilva.
(da agenzie)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
L’ORIGINE DI QUEL DENARO, 4,3 MILIONI DI EURO, ARRIVA DA BUDAPESTI EROMU ZRT, UNA DELLE COMPAGNIE ENERGETICHE CHE GESTISCONO LA FORNITURA ELETTRICA DELLA CAPITALE UNGHERESE
La villa sulle sponde del lago di Varese – un immobile lussuoso immerso nel verde, da 4,3 milioni di euro, a due passi dal confine con la Svizzera – è diventata un tormentone in Ungheria, dopo che Domani ha rivelato lo scorso maggio l’acquisto da parte di una neonata società ungherese, controllata da un fondo di private equity fino a pochi anni prima collegato al ministro della Difesa del suo governo.
Il premier Viktor Orbán se l’è presa con la stampa, ha minacciato cause, gli influencer hanno trasformato la villa in meme virale sui social. E i colleghi di Hvg, noto come “l’Economist ungherese”, sono andati a fondo sulla provenienza dei soldi utilizzati per la villa.
In un’inchiesta firmata da Márton Mészáros, che Domani ha visionato in anteprima e che viene pubblicata oggi, si racconta che il denaro usato per l’acquisto milionario in Italia è arrivato dalla Budapesti Eromu Zrt, una delle compagnie energetiche che gestiscono la fornitura di elettricità nella capitale. O meglio, dai dividendi incassati dagli azionisti.
La villa di Varese è stata acquistata dalla Influentia Kft, una società ungherese costituita solo tre mesi prima del preliminare di vendita. Fa capo a una società che gestisce il fondo di private equity Progressus Private Equity. La legge ungherese permette ai beneficiari finali di questi fondi di non rivelare la loro identità.
Molti fatti – lo avevamo evidenziato già a maggio – collegano però la Influentia al cosiddetto NER (Nemzeti Együttmuködés Rendszere, “Sistema di cooperazione nazionale”), nome col quale il premier stesso nel 2010 ha battezzato il sistema orbaniano. Nel dettaglio avevamo rivelato che le società utilizzate per la compravendita sono collegate a due fedelissimi di Orbán: il suo storico consigliere, Árpád Habony, e il ministro della Difesa, Kristóf Szalay-Bobrovniczky.
L’inchiesta della testata ungherese ricostruisce il percorso dei soldi dalla compagnia energetica a Varese. Il tutto si svolge in due sole, intense giornate: cinque assemblee generali, un giro in
apparenza tortuoso, che passa attraverso diverse società. Gli eventi messi in fila da Hvg basandosi su documenti societari sono i seguenti.
Pochi giorni dopo essere stata fondata, Influentia crea a sua volta una società, basata sempre in Ungheria. Si chiama Dominium Imperium. Questa, nel marzo del 2024, compra attraverso un’altra società il 24,5 per cento di una delle imprese che gestiscono l’elettricità di Budapest, la Chp. Una quota importante in una multiutility che produce e vende energia agli ungheresi.
Due mesi dopo, la neonata Dominum Imperium, come azionista all’assemblea dei soci di Chp, riceve un ricco dividendo. Il 28 maggio gli azionisti di Chp hanno infatti deciso di distribuire gli utili a tutti i soci. Alla Dominum Imperium vanno 6,2 miliardi di fiorini, pari a circa 15,5 milioni di euro, che la società lo stesso giorno versa a sua volta come dividendo al suo azionista di controllo, cioè Influentia. Un mese e mezzo dopo, il 17 luglio del 2024, Influentia firma il contratto definitivo d’acquisto della villa di Varese per 4,3 milioni di euro.
Scrive Hvg che il gruppo di società «gestite dalla cerchia di Habony ha così acquistato dal nulla Budapesti Eromu Zrt, due mesi dopo ne ha prelevato 6 miliardi di fiorini in due giorni, coinvolgendo sei società, e dopo un altro mese e mezzo ha comprato una villa da 1,7 miliardi di fiorini in Italia».
Così il misterioso fondo di private equity ungherese Progressus, gestito dalla società Triple Hill, ha comprato la villa di Varese
con gli utili di una delle compagnie energetiche che forniscono elettricità ai cittadini di Budapest. Chiarito il giro dei soldi, resta nebbia sul nome del beneficiario della magione.
L’Ungheria di Orbán permette di non rivelare i nomi dei proprietari di fondi di private equity nonostante la direttiva europea imponga trasparenza e l’Ue la rivendichi.
Come rivelato da Domani e confermato dall’articolo di Hvg, gli indizi portano ad Habony e al suo ex socio d’affari, l’attuale ministro della Difesa Szalay-Bobrovniczky: i loro nomi sono collegati alla Triple Hill, la società che gestisce il misterioso fondo di private equity Progressus.
Fino a prima di diventare ministro (2022), Szalay-Bobrovniczky era azionista di Triple Hill, come da lui stesso riferito nella dichiarazione patrimoniale. Finché non saranno pubblici i nomi dei beneficiari finali del fondo Progressus, non vi sarà certezza; se l’Ungheria invece si adeguerà alla normativa Ue, si capirà meglio anche un’altra peculiarità: i 4,3 milioni sborsati per comprare la villa sono arrivati dalla Granit Bank del genero di Orbán. Un altro indizio che porta alla cerchia del premier amato dalla destra italiana.
(da Domani)
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Luglio 16th, 2025 Riccardo Fucile
PUR DI NON COMBATTARE, NELL’EVENTUALITA’ DI UN CONFLITTO, IL 19% SAREBBE PRONTO A DISERTARE E IL 39% PROTESTEREBBE DI FRONTE AL RICHIAMO DELLE FORZE ARMATE … UN 26% SI RIFIUTEREBBE DI ANDARE IN GUERRA, PROPONENDO DI ARRUOLARE SOLDATI DI PROFESSIONE O DI PAGARE MERCENARI STRANIERI A CUI FAR FARE IL LAVORO SPORCO AL POSTO NOSTRO
Nel momento in cui la conflittualità globale si intensifica, con la deflagrazione di
scontri militari dispiegati su più fronti, la società italiana si scopre impreparata. «Una impreparazione culturale e psicologica, prim’ancora che nella dimensione specificamente bellica: in pratica non si riesce a concepire la guerra come un fatto possibile e attuale, ritenendo ancora di poterla aggirare con astuzie politico-diplomatiche» rivela una nuova indagine del Censis su “Gli italiani in guerra” che La Stampa è in grado di anticipare.
Gli italiani non sono per nulla pronti a combattere.
Percepiscono tante minacce, mettendo ai primi posti Russia, Paesi islamici, Usa, Israele e Cina, ma nell’ipotesi che l’allargamento del conflitto finisca per coinvolgere l’Italia la maggioranza dei cittadini si chiama fuori.
Secondo un sondaggio inserito nella ricerca del Censis, effettuato su un campione di 1.007 individui rappresentativi della popolazione italiana maggiorenne, nella fascia tra 18 e 45 anni – in pratica i soggetti potenzialmente più coinvolti in una eventuale chiamata alle armi -, solo uno su sei (ovvero il 16% del totale) sarebbe pronto a combattere, il 39% proclamandosi pacifista protesterebbe di fronte al richiamo delle forze armate, il 19% invece diserterebbe o fuggirebbe per non prendere parte alle ostilità, evitare il fronte e non assistere al bagno di sangue.
E poi c’è un altro 26% che si rifiuterebbe di andare in guerra, proponendo «con cinica freddezza» come soluzione più comoda e preferibile quella di arruolare soldati di professione, di pagare mercenari stranieri a cui far fare il lavoro sporco al posto nostro.
Di certo, però, la situazione attuale impone di correre ai ripari, di prepararsi per tempo.
Ma tra potenziare il nostro apparato di sicurezza e non farlo il Paese si divide: c’è infatti un 22% del campione che sostiene che non dobbiamo né rafforzarci né costituire un sistema di difesa europea
Non solo: bisognerebbe investire sulla nostra difesa anche riducendo la spesa pubblica o sacrificando la spesa sociale, come i fondi per le scuole, gli ospedali e le pensioni. «Tra questi due poli si collocano tutti gli altri» segnala il Censis. Con una quota dell’11% della popolazione che arriva addirittura a sostenere che sarebbe ora che anche l’Italia si dotasse della bomba atomica.
Due italiani su tre sono convinti che il nostro non sia un popolo di guerrieri e che combattendo da soli verranno travolti dal nemico. E visto che per il 63% i dazi americani «sono già un atto di guerra», negli italiani adesso vacilla la convinzione che siano gli americani a proteggerci […] quasi la metà degli italiani è comunque convinto che occorrerebbe rafforzare la Nato, mentre una quota pari al 58% è favorevole a sviluppare un sistema di difesa europeo.
«va però sottolineato che il cinico pragmatismo di un popolonon
battagliero, poco disposto a impegnarsi in prima persona, ci fa dire, con poche esitazioni, che la via maestra da seguire è la neutralità diplomatica[…] » Neutrali (al 59%) anche di fronte ad una possibile invasione della Groenlandia da parte degli Usa, mentre il 38% sostiene che dovremmo entrare nell’alleanza internazionale chiamata a difenderla e col restante 4% che starebbe invece con l’America.
Per affrontare i pericoli […]: l’81% si preoccuperebbe di cercare informazioni su un rifugio sicuro per ripararsi in caso di bombardamenti, il 78% provvederebbe a stoccare provviste alimentari a lunga conservazione, il 66% (con un picco del 77% tra i giovani sotto i 35 anni) si procurerebbe un kit di sopravvivenza per resistere il più a lungo possibile, il 59% si trasferirebbe in una località lontana dalle zone di guerra (la percentuale sale al 68% tra i giovani). C’è poi un 27% (39% tra i giovani) che pensa di procacciarsi un’arma e imparare a usarla per difendersi.
«Si fa sentire l’eredità culturale di un Paese che nel tempo ha conosciuto invasioni, carestie e terremoti, e che sa distillare l’incertezza nell’arte di arrangiarsi – sintetizza così la ricerca del Censis -. È un’Italia che non vuole combattere».
/da Dagoreport)
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