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NESSUNO RAGAZZO E’ STATO FATTO SBARCARE DA UN AEREO PERCHE’ EBREO MA SOLO PERCHE’ TEPPISTA

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

IL GOVERNO DI NETANYAHU LO HA DEFINITO ”UN GRAVE EPISODIO DI ANTISEMITISMO”, MA CHI METTE A RISCHIO LA SICUREZZA DEGLI ALTRI PASSEGGERI CON URLA, CANTI E COMPORTAMENTI TURBOLENTI E’ SOLO UN TEPPISTA (E CHE SIA EBREO CAMBIA NULLA)

All’aeroporto di Valencia un aereo della compagnia spagnola Vueling stava per decollare per Parigi, mercoledì. Prima della partenza, però, un gruppo di circa 50 persone francesi (44 minorenni di quindici anni circa, e sette accompagnatori maggiorenni) è stato fatto scendere da agenti della polizia spagnola, la Guardia civil.
Una delle accompagnatrici è stata arrestata perché rifiutava di lasciare l’aereo, e rilasciata poco dopo. L’episodio ha suscitato polemiche perché il gruppo veniva da un campo estivo ebraico, e tutti i giovani partecipanti erano ebrei.
Sui social sono scattate accuse di antisemitismo, alimentate sia dal governo israeliano, sia dall’associazione che aveva organizzato il campo in questione, Club Kineret. Invece Vueling si è difesa dicendo che il gruppo aveva tenuto un atteggiamento “turbolento” e aveva disturbato ripetutamente le spiegazioni sulle misure di sicurezza sull’aereo, aggiungendo poi che non c’era nessun legame tra la decisione di far scendere la comitiva francese e la loro religione. La polizia ha confermato questa versione, dicendo che gli agenti non erano mai stati informati della religione dei ragazzi.
Alla fine, 23 minorenni e due accompagnatori sono tornati il giorno stesso su un altro volo, mentre gli altri hanno passato la notte in hotel e sono ripartiti il giorno seguente. Le accuse senza fondamento del ministro israeliano
Ad attaccare in modo più forte sulla vicenda è stato Amichai Chikli, ministro israeliano della Diaspora e contro l’Antisemitismo, che non era a bordo dell’aereo.
Il ministro ha condiviso quello che sembra essere il video dell’arresto di una delle accompagnatrici, descritta come la “direttrice” del campo Kineret. Chikli ha affermato che i ragazzi fatti scendere dall’aereo “stavano cantando canzoni ebraiche”, che l’equipaggio di Vueling avrebbe “detto che Israele è uno Stato terrorista”. Nessuna di queste informazioni è stata
confermata da altre fonti, né dai presenti, e non è chiaro come il ministro ne sarebbe venuto a conoscenza.
Chikli ha detto che questo era “uno dei più seri” dei “gravi episodi di antisemitismo visti di recente”.
Nei post successivi, ha suggerito che Vueling sarebbe una compagnia antisemita perché il gruppo che la controlla (International Airlines Group, lo stesso che controlla British Airways, tra le altre) ha come azionista principale il governo del Qatar, tramite Qatar Airways.
Infine, un altro elemento a cui il ministro si è appigliato per attaccare la compagnia è che il capitano dell’aereo era Ivan Chirivella, un pilota originario delle Canarie che lavora per Vueling dal 2006. Chirivella divenne famoso dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 perché era l’uomo che aveva insegnato a volare, come istruttore privato, ai due piloti che dirottarono gli aerei Boeing che colpirono le torri. Contro di lui non ci fai alcuna accusa sul piano giudiziario, nonostante l’Fbi l’avesse contattato successivamente per indagare; semplicemente, stando a tutte le ricostruzioni, non sapeva e non aveva modo di sapere con chi aveva a che fare e quali fossero le intenzioni dei suoi allievi.
La versione dei ragazzi a bordo dell’aereo
Anche Club Kineret, l’associazione che aveva organizzato il campo a cui i ragazzi partecipavano, ha preso le difese dei giovani e ha detto che farà denuncia per violenza fisica e psicologica e per discriminazione su base religiosa. L’associazione sostiene che il gruppo sarebbe stato fatto scendere perché i ragazzi indossavano kippah, stelle di Davide e altri simboli ebraici.
La spiegazione di Vueling confermata dalla polizia
La versione di Vueling, naturalmente, è molto diversa ed è stata in parte confermata dalla polizia. In un comunicato ufficiale, la compagnia ha ricostruito l’accaduto dall’inizio. Sul volo, “un gruppo di teenager ha tenuto comportamenti turbolenti” e un “atteggiamento sfidante” nei confronti dell’equipaggio, ha affermato.
Gli assistenti di volo sarebbero stati avvertiti che i giovani stavano provando a tirare giù i giubbotti salvagente, giocavano con le maschere per l’ossigeno e togliendo i cilindri di ossigeno ad alta pressione, creando un “serio pericolo” per i presenti.
Nel farlo, il gruppo avrebbe interrotto per tre volte le dimostrazioni sulle misure di sicurezza e sarebbe stato richiamato più volte.
Il comportamento sarebbe continuato nonostante gli avvisi dell’equipaggio, e nonostante un intervento diretto del capitano dell’aereo, che sarebbe stato chiamato in causa dal personale di
bordo e avrebbe parlato ai giovani e agli accompagnatori. A quel punto, quindi, sarebbe stata contattata la polizia, come previsto dalle procedure per casi simili.
La Guardia civil, dopo aver verificato la situazione, avrebbe provveduto a far scendere i passeggeri. Vueling ha detto che continuerà a indagare sull’accaduto, ma ha ribadito che le decisioni dell’equipaggio non sono in alcun modo state legate alla religione dei giovani.
La stessa Guardia civil ha confermato che ci sarebbe stato un comportamento “altamente problematico” da parte dei giovani, e una volta scesi dall’aereo anche un “atteggiamento violento di fronte alle autorità” da parte di alcuni individui.
In più, la polizia ha detto che in nessuna fase dell’intervento – né con la chiamata iniziale, né successivamente – gli agenti erano stati messi a conoscenza della religione dei passeggeri coinvolti.
(da Fanpage)

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LA VERSIONE DI NORDIO PER SPIEGARE LA SUA “INVERSIONE A U” SULLA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E’ CROLLATA MISERAMENTE_ CHE FIGURA DI M….

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

NEL MAGGIO 1994 SOTTOSCRISSE UN APPELLO CONTRO IL PROGETTO DI LEGGE DEL GOVERNO BERLUSCONI. NORDIO SOSTIENE DI AVERE CAMBIATO IDEA “IN SEGUITO AL SUICIDIO DI UN MIO EX INDAGATO, MAZZOLAIO. MI RESI CONTO CHE STAVAMO ESAGERANDO”. MA LA MORTE DI GINO MAZZOLAIO AVVENNE NELL’APRILE 1993, OLTRE UN ANNO PRIMA DELLA FIRMA DEL DOCUMENTO ANTI-RIFORMA DA PARTE DI NORDIO

“Ci fu un suicidio di un mio ex indagato che mi ha fatto cambiare idea. Si chiamava Mazzolaio. Mi resi conto che stavamo esagerando: le carcerazioni non erano sempre necessarie e opportune”.
Il ministro Carlo Nordio, ieri, dai microfoni del Tg1 ha voluto rispondere all’Associazione nazionale magistrati che, documenti
alla mano, aveva segnalato come il ministro Nordio non la pensasse come il pm Nordio: il 3 maggio del 1994, infatti, aveva firmato un documento in cui si diceva “contrario alla divisone delle carriere dei magistrati con funzioni requirenti e con funzioni giudicanti”.
Per spiegare il perché avesse cambiato idea, Nordio ieri ha rilasciato un’intervista spiegando che c’era stato un episodio in particolare a spiegargli che fosse in torto: il suicidio di un suo ex indagato. Si ricorda come si chiamava? Gli chiede il giornalista del tg1. E il ministro: “Mazzolaio”.
Il riferimento è a Gino Mazzolaio, segretario amministrativo della Dc di Rovigo, che come riportano le cronache di Repubblica del tempo, si suicidò. Ma c’è qualcosa nei tempi che non torna: Mazzolaio si suicidò ad aprile del 1993, più di un anno prima che Nordio firmasse la lettera in cui si diceva contrario alla separazione delle carriere. Come ha fatto a cambiare idea, quindi, se il suicidio era già accaduto?
“Carissimi – si legge nell’ultima lettera datata 23 aprile che Mazzolaio aveva lasciato, alle 12.40 – non so più resistere a quanto sta succedendo, pur essendo completamente innocente. Vi chiedo scusa per il gesto che sto per compiere. Pregherò per voi di lassù”.
Era finito in carcere il 16 marzo nell’ambito dell’inchiesta del pm Nordio sugli appalti della Sanità nel Veneto per la quale sono già state emesse 27 ordinanze di custodia cautelare
(da La Repubblica)

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AVANZA LA NUOVA FORZA ITALIA, TARGATA PIER SILVIO: IL PARTITO CAMBIA STATUTO, I COORDINATORI REGIONALI NON SARANNO PIÙ DESIGNATI DAL SEGRETARIO, MA ELETTI DALLA BASE. NIENTE PIÙ NOMINE CALATE DALL’ALTO

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

SARANNO RITOCCATE ANCHE LE NORME SUGLI ISCRITTI, PER IMPEDIRE LE MANOVRE “LAST MINUTE” SULLE TESSERE – UNA SVOLTA ALL’INSEGNA DEL “RINNOVAMENTO” A CUI TAJANI È COSTRETTO, DOPO LE FRECCIATE DI “PIER DUDI” BERLUSCONI A QUEL MERLUZZONE DEL VICEPREMIER E ALLA SUA TRUPPA STAGIONATA

I coordinatori regionali non saranno più scelti direttamente dal leader, ma verranno eletti dalla base. Un nuovo statuto «per coinvolgere sempre più i nostri elettori e i soci del movimento per ampliare quanto più possibile il processo democratico di apertura della base di Forza Italia, già iniziato con i Congressi provinciali, comunali e di circoscrizione»: è il punto chiave della lettera che il leader di Forza Italia Antonio Tajani ha inviato ai consiglieri nazionali alla vigilia della riunione di oggi.
La novità gode del pieno appoggio della famiglia Berlusconi che lo giudica un significativo cambio di passo nelle dinamiche interne e da tempo si era detta favorevole a una linea più partecipativa.
Una linea che non trova tutti concordi nel partito ma che Tajani ribadirà oggi all’assemblea chiedendo un voto unanime e sottolineando anche altre novità come quella relativa all’elettorato attivo secondo cui «per coloro che siano stati almeno una volta tesserati negli ultimi 5 anni, potrà essere esercitato decorsi due anni dal nuovo tesseramento».
Sarà sempre il segretario ad «attuare la linea politica del movimento in conformità alle indicazioni del Congresso» ma nello statuto viene specificato che «le segreterie regionali diventino organi elettivi e individuati i Grandi Elettori nei congressi regionali».
Per quanto riguarda le risorse economiche viene eliminata «l’autonomia patrimoniale degli organi territoriali, accentrando sul movimento la raccolta delle risorse da distribuire sui territori di riferimento nella misura dell’80%».
L’obiettivo, racconta chi sta lavorando ai cambi di regole, sarebbe quello di rafforzare il carattere collegiale delle decisioni, favorire la partecipazione, ma anche promuovere il rinnovamento, una delle richieste che Berlusconi jr aveva esplicitato il 9 luglio, durante la presentazione dei palinsesti di Mediaset.
Non è l’unica novità. Saranno ritoccate le norme sugli iscritti.
Per mettere un freno alle manovre last minute sulle tessere. È tramontata un’ipotesi circolata in questi giorni, quella per cui al prossimo congresso nazionale, previsto nel 2027 a ridosso delle Politiche, avrebbero potuto votare soltanto i militanti iscritti da più di un anno.
Non sarà proprio così: chi si tessererà per la prima volta in extremis, potrà partecipare pienamente all’assise, mentre non avrà diritto di voto attivo e passivo chi è stato iscritto negli ultimi 5 anni ma non ha rinnovato la tessera negli ultimi due. Un modo per fidelizzare, raccontano nel giro di Tajani. Ma anche per evitare transfughi di ritorno.
Il Consiglio nazionale sarà allargato anche agli assessori regionali «anziani», non solo a presidenti o vicepresidenti di Regione. E saranno riviste le regole sulle finanze del partito, da anni tasto dolente per gli azzurri, visti i 100 milioni di euro di fideiussioni firmate dai Berlusconi. Tutte le risorse dei territori d’ora in poi saranno accentrate sul movimento nazionale, che poi le redistribuirà nelle varie sezioni locali.
Regole a parte, Tajani tenterà anche un rilancio di programma. Sarà votato un documento politico per provare a indirizzare gli ultimi due anni di legislatura. Il primo passaggio per arrivare a confezionare un nuovo «Manifesto della rivoluzione liberale», per aggiornare «lo spirito del ‘94», raccontano i fedelissimi del vicepremier.
Le priorità? Liberalizzazioni, tasse (quindi subito la sforbiciata all’Irpef per il ceto medio), giustizia, infrastrutture. E lo Ius scholae, criticato da Pier Silvio? Nell’inner circle del ministro degli Esteri, ieri notte, rispondevano così: nella bozza del testo
quell’argomento non c’è.
(da Repubblica)

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‘’SIAMO STRUZZI CON LA TESTA CONFICCATA NELLA MELMA DELL’INDIFFERENZA…’’: MA PERCHÉ BUTTAFUOCO E GIULI PARLANO IN MODO COSÌ ASTRUSO, FORBITO E ANTIQUATO?

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

BUTTAFUOCO HA COSÌ PRESENTATO LA BIENNALE CINEMA: “DIVENTARE FORNACE DI COSCIENZA PER OCCUPARCI DELLA CONOSCENZA. TENERE SALDAMENTE I PIEDI SULLE NUVOLE’’… LA PROSOPOPEA MISTICA DI CHI VUOE ACCREDITARSI COME INTELLETTUALE

Non riesco proprio a capire perché Pietrangelo Buttafuoco, e con lui il ministro Alessandro Giuli, suo amico, collega e sodale politico sin dai tempi del Msi, debbano parlare in modo così astruso, forbito e antiquato quando intervengono in qualche situazione pubblica nei ruoli di spicco ricevuti dal governo Meloni.
La prima risposta che mi viene è la seguente: entrambi sono giornalisti, come del resto l’ex ministro Gennaro Sangiuliano, e quindi probabilmente scatta una specie di riflesso condizionato, per la serie: «Adesso ti faccio vedere che non sono solo un “gazzettiere”, ma un intellettuale a tutto campo, che teorizza, riflette e sa indicare una linea culturale».
Ascoltare per credere quanto ha detto oggi il presidente della Biennale prima che prendesse la parola il direttore della Mostra.
Ricordo, tra parentesi, che Buttafuoco, convertitosi all’Islam nel 2015, si fa chiamare anche Giafar al-Siqilli, in onore del generale/emiro che governò la Sicilia nel primo Novecento dopo Cristo.
In ogni caso, religione a parte, c’è qualcosa di esibito e vanitoso nella cura compiaciuta con la quale Buttafuoco, al quale non sembra vero di aver ricevuto quell’incarico di prestigio proprio
da Sangiuliano prima dei noti fatti, esprime i suoi concetti, con l’idea di apparire originale, di spiazzare l’uditorio, di mettere d’accordo destra e sinistra, di risultare a suo modo visionario e fantasioso.
A un certo punto ha detto: «Questa fede temeraria trasfusa nell’arte è quella che porta acqua a chi ha sete. L’arte restituisce coscienza a tutti noi, che siamo struzzi con la testa conficcata nella melma dell’indifferenza» (parla per te, mi verrebbe da dire), dopo aver elogiato «il maestro Franco Maresco» e «il Poeta», s’intende Franco Battiato, naturalmente entrambi siciliani come lui. Tenere saldamente i piedi sulle nuvole, altra immagine poetizzante usata dal giornalista catanese, non è compito da presidente della Biennale, ma ormai tutto si confonde nella prosopopea artistoide e para-mistica (Giuli cita spesso il dio Pan) del centrodestra di governo. Ah come rimpiango lo stile sobrio, istituzionale e vagamente noioso dell’ex presidente Paolo Baratta.
Michele Anselmi
critico cinematografico

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PERCHÉ LA DIFESA DELLA LIBERTÀ DI STAMPA DALLA DERIVA AUTORITARIA DI TRUMP OGGI DIPENDE DAL VECCHIO SQUALO DEI MEDIA RUPERT MURDOCH, CHE LO ISSÒ ALLA CASA BIANCA NEL 2017?

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

INTANTO, HA OTTENUTO CIÒ CHE VOLEVA DA TRUMP, DURANTE IL PRIMO MANDATO (LA VENDITA DELLA 21ST CENTURY FOX ALLA DISNEY) … SECONDO: ANCHE A 94 ANNI, MURDOCH AMA IL VECCHIO BRIVIDO DI METTERE IN IMBARAZZO I POTENTI (E DI FAR LEVA SULLE LORO PAURE)

Che ironia della sorte che la difesa contro l’ultimo attacco di Trump alla libertà di stampa sia ora nelle mani del vecchio squalo Rupert Murdoch, lo stesso proprietario dei media, in prima fila la Fox News, che issarono Trump alla Casa Bianca
Nel 2020, tale era il desiderio di Murdoch di ingraziarsi Trump e la sua base incollata a Fox che il direttore della rete durante la notte delle elezioni, che aveva giustamente annunciato il successo di Biden (dopo aver ottenuto l’approvazione di Rupert), è stato poi licenziato, come agnello sacrificale per la reazione che ne è seguita.
Questa volta non è stato così. La scorsa settimana, Emma Tucker, intrepida direttrice del ‘’Wall Street Journal’’ di Murdoch, non si è lasciata intimidire dalle invettive di Trump per lo scoop del suo giornale, che mostrava il suggestivo messaggio di Trump per il 50° compleanno di Jeffrey Epstein con uno scarabocchio pornografico di una donna nuda.
Il presidente, tre dei cui scarabocchi raffiguranti lo skyline di New York sono stati messi all’asta nel 2017, ha esclamato su Truth Social: “Non disegno”, e ha minacciato di “fare causa a Murdoch”, cosa che ha fatto con una causa da 10 miliardi di dollari
Ma l’etica di Murdoch, se così possiamo chiamarla, è diversa nei
suoi giornali rispetto alla magniloquenza dei conduttori che si riversa su Fox. Scommetto che non pagherà un centesimo a Trump per la storia di Epstein. Anche a 94 anni, Murdoch è ancora un uomo da tabloid fino al midollo.
Niente lo eccita più di uno scandalo sessuale che batte la concorrenza. Il vecchio brivido populista di mettere in imbarazzo chi detiene il potere (e di far leva sulle loro paure) è stato per sessant’anni lo sport sanguinario dell’impero giornalistico di Murdoch, una vera e propria mucca da soldi. È il motivo per cui non abbandonerà mai il ‘’New York Post’’, che gli fornisce quel terreno di sbaraglio che distrugge qualsiasi reputazione: una prima pagina sarcastica.
Inoltre, mentre Fox News dipende da Trump, Murdoch sa di non dover compromettere apertamente la credibilità del WSJ. E ha rilasciato una coraggiosa dichiarazione: “Abbiamo piena fiducia nel rigore e nell’accuratezza del nostro giornalismo e ci difenderemo con vigore da qualsiasi causa legale”.
Persone vicine a Murdoch affermano che abbia comunque ottenuto ciò che voleva da Trump, durante il primo mandato. Fu allora che ebbe bisogno che la vendita della 21st Century Fox alla Disney, nel 2017, si concludesse senza intoppi. Fu l’ultimo grande accordo di Murdoch, concluso esattamente al momento giusto, prima che il mondo dello streaming crollasse, lo sciopero degli sceneggiatori paralizzasse Hollywood e il Covid chiudesse i parchi Disney.
Con sorprendente preveggenza, Murdoch convinse il Ceo della Disney, Bob Iger, a pagare oltre 71 miliardi di dollari per la Century Fox, un errore che caricò l’azienda di Topolino di un debito che porta ancora oggi, e diede ai figli di Murdoch 2 miliardi di dollari a testa.
Siamo arrivati a questo punto: a dipendere da Rupert Murdoch per la difesa della libertà di stampa? Solo due anni fa, il Darth Vader dei media è stato costretto a sborsare 787 milioni di dollari alla Dominion Voting Systems per le malefatte di Fox, che consapevolmente trasmetteva menzogne sulle elezioni, e poi ci sono stati i terribili crimini di intercettazione telefonica commessi dalla sua News Corp quattordici anni fa, ancora oggetto di contenziosi nei tribunali britannici.
Nel contesto della deriva trumpiana verso un’intimidazione autoritaria nei confronti della stampa, si pone la domanda sempre più urgente su a chi possiamo rivolgerci per mantenere in vita il giornalismo indipendente. Non al ‘’Washington Post’’ o al ‘’Los Angeles Times’’, che, su istigazione dei loro miliardari proprietari Jeff Bezos e Patrick Soon-Shiong, hanno entrambi infranto le tradizioni dei loro giornali e bloccato l’appoggio presidenziale a Kamala Harris.
Non alla PBS e alla NPR, perché non avranno i soldi per pagare l’esercito di avvocati che la severa raccolta di notizie richiede da quando i loro finanziamenti sono stati ritirati. Non la Paramount, proprietaria di CBS News, né la Disney, proprietaria di ABC
News, che hanno sborsato 16 milioni di dollari ciascuna per chiudere cause legali infondate di Trump.
E non contate sul presunto nuovo proprietario di CBS, Skydance Media, guidato dal 42enne David Ellison, figlio del secondo uomo più ricco del mondo e fondatore di Oracle Larry Ellison, che sembra non aver fatto nulla per convincere il suo amico di lunga data Trump a togliere il piede dal collo di ‘’60 Minutes’’ della CBS.
Verrebbe da pensare che una famiglia con una ricchezza così decantata (257 miliardi di dollari) possa ostentare un certo arroganza per proteggere un valore fondamentale come la libertà di stampa. Ma no, il Primo Emendamento è solo un gingillo di sentenzioso senso civico per quanto riguarda questa gente. Che senso ha avere soldi da buttare via se non li usi per proteggere la tua indipendenza?
La difesa della stampa non può ricadere solo sui proprietari del ‘’New York Times’, la devota famiglia Sulzberger, svincolata dal bisogno di approvazioni o sovvenzioni governative, o sulla stoica Laurene Powell Jobs, proprietaria infinitamente ricca di ‘’The Atlantic’’, un altro organo di stampa indipendente dai favori della Casa Bianca. La sera recito le mie preghiere al presidente di Reuters, David Thomson, un altro raro vero sostenitore dell’indipendenza giornalistica.
Negli ultimi anni, la proprietà no-profit dei media è sembrata il nuovo Santo Graal. Ma ora, il timore che Trump revochi il loro
status di esenzione fiscale, come ha minacciato di fare con le principali università americane se non collaborano, ha messo a repentaglio l’intero modello di business ottimistico.
Pertanto, la proliferazione di piattaforme dirette agli abbonati, come quella di cui sto scrivendo ora, rappresenta l’unico porto sicuro. Ma i giornalisti solitari, per quanto coraggiosi, non possono combattere nella giurisprudenza o condurre indagini complesse sulla corruzione aziendale o governativa senza il sostegno istituzionale.
A volte mi sento come se il giornalismo serio fosse alla deriva su una scialuppa di salvataggio, in cerca di soccorso in mari agitati e gridasse, come un ufficiale sopravvissuto del Titanic mentre squarcia l’oscurità con la sua torcia, “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”
(da agenzie)

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ALLARME ROSSO PER TRUMP: IL GRADIMENTO NEI SUOI CONFRONTI CROLLA E ALLE MIDTERM DEL PROSSIMO ANNO RISCHIA LA SCOPPOLA: IL TASSO DI APPROVAZIONE DEL PRESIDENTE È SCESO AL 37%, IL VALORE PIÙ BASSO DEL SECONDO MANDATO

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

TRA I REPUBBLICANI RESTA ALTISSIMO (90%) MA È IN PICCHIATA TRA GLI INDIPENDENTI (29%, IL MINIMO STORICO) … NEL SECONDO TRIMESTRE DEL SECONDO MANDATO, TRUMP HA OTTENUTO UNA MEDIA DEL 40%, BEN AL DI SOTTO DELLA MEDIA DEL 59% CHE I PRESIDENTI ELETTI DAL 1952 AL 2020

Sei mesi dopo l’inizio del suo secondo mandato, il tasso di approvazione del Presidente Donald Trump è sceso al 37%, il valore più basso di questo mandato e solo leggermente superiore al minimo storico del 34% raggiunto alla fine del […] primo.
L’indice di gradimento di Trump è diminuito di 10 punti percentuali tra gli adulti statunitensi da gennaio, con un calo di 17 punti tra gli indipendenti, fino al 29%, pari al suo minimo storico presso questo gruppo in entrambi i mandati.
I repubblicani, da parte loro, hanno mantenuto un livello di approvazione stabile intorno al 90%, mentre tra i democratici resta costantemente nelle cifre singole più basse.
Questi ultimi dati provengono da un sondaggio Gallup condotto tra il 7 e il 21 luglio 2025, iniziato pochi giorni dopo che Trump
ha firmato il One Big Beautiful Bill Act il 4 luglio.
La legge affronta molte delle priorità del secondo mandato di Trump, tra cui tagli fiscali per privati e aziende e un aumento delle spese per sicurezza alle frontiere, difesa e produzione energetica. Per compensare parte dei costi di questi tagli e aumenti di spesa, la legge riduce i fondi per programmi sanitari e alimentari come Medicaid e il Supplemental Nutrition Assistance Program.
Trump ottiene i punteggi più alti per la gestione della situazione con l’Iran (42%) e degli affari esteri (41%). L’approvazione è leggermente inferiore per l’immigrazione (38%), l’economia (37%), la situazione in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi (36%) e il commercio estero (36%). I giudizi peggiori riguardano la gestione della guerra in Ucraina (33%) e del bilancio federale (29%).
A eccezione della situazione con l’Iran, non precedentemente rilevata durante il secondo mandato, le valutazioni su ciascuna questione sono inferiori rispetto all’inizio dell’anno. In particolare, si registra un calo di 14 punti sul bilancio federale e di 8 punti per immigrazione e Ucraina.
I repubblicani approvano in larga maggioranza l’operato di Trump su ogni tema, con il punteggio più alto (93%) per la gestione degli affari esteri. A parte la guerra in Ucraina, che riceve il 70% di approvazione dai repubblicani, i giudizi sugli altri temi variano dall’81% all’88% all’interno del partito
Tra i democratici, il punteggio più alto è un 12% per la gestione dell’Ucraina, mentre tutti gli altri temi restano in cifre singole. Nessuna questione raggiunge il 36% di approvazione tra gli indipendenti: il massimo è proprio la gestione dell’Iran (36%), il minimo il bilancio federale (19%).
Nel secondo trimestre del suo secondo mandato, tra il 20 aprile e il 19 luglio, Trump ha ottenuto una media del 40% di approvazione, simile al 39% dello stesso periodo del primo mandato. Questo valore è ben al di sotto della media del 59% che i presidenti eletti dal 1952 al 2020 hanno storicamente registrato nel secondo trimestre del primo mandato.
Solo Bill Clinton, con un 44%, ha avuto una media sotto la maggioranza nello stesso periodo, che tradizionalmente coincide con la “luna di miele” presidenziale.
Il tasso di gradimento personale di Trump è oggi al 41%, in calo rispetto al 48% registrato subito dopo le elezioni del 2024 e all’indomani dell’insediamento a gennaio. I valori di novembre e gennaio erano vicini ai suoi massimi storici: 50% nel 2005 e 49% nell’aprile 2020.
I repubblicani continuano a sostenere Trump quasi all’unanimità, con un 93% che ne ha una visione positiva. Anche il 4% di favore tra i democratici è stabile rispetto al 7% di gennaio. Ma tra gli indipendenti, così come è crollato l’indice di approvazione, è calato anche il gradimento personale: dal 47% di gennaio al 34% attuale.
Trump conclude il secondo trimestre del suo secondo mandato avendo portato a termine gran parte di quanto promesso in campagna elettorale. Eppure, al di fuori della sua base repubblicana, pochi americani sono soddisfatti del suo operato.
Il suo indice di approvazione è ai minimi del mandato, sostanzialmente identico a quello della stessa fase del primo mandato, e non molto lontano dal suo record negativo. Inoltre, ottiene valutazioni generalmente negative sulla gestione delle questioni chiave, comprese immigrazione ed economia, che erano tra i principali temi della sua campagna.
(da agenzie)

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“IL DOMINIO DEL DOLLARO È FINITO”: L’ECONOMISTA KENNETH ROGOFF DICHIARA LA MORTE DELL’EGEMONIA DELLA VALUTA AMERICAN, A DARE IL COLPO DI GRAZIA È STATO TRUMP, CON LA SUA FOLLE GUERRA COMMERCIALE

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

“IL DISAVANZO FINANZIARIO USA HA SUPERATO I LIVELLI DI GUARDIA E SERPEGGIANO I TIMORI DI UN FALLIMENTO, LA CINA SPINGE PER UN POSTO ALL’ALTEZZA DELLA SUA IMPORTANZA, L’ATTACCO DELLE CRIPTOVALUTE PRENDE VELOCITÀ, L’EURO RECLAMA SPAZIO PUR FRA MILLE TENTENNAMENTI”

Il 22 luglio 1944, negli austeri saloni del Mount Washington Hotel di Bretton Woods, New Hampshire, i rappresentanti dei 44 Paesi alleati in una guerra di cui comincia a profilarsi la conclusione, battezzano il nuovo ordine economico mondiale. È imperniato sulla valuta americana, alla quale le altre monete dovranno restare agganciate, in un regime di cambi fissi, mentre altrettanto fisso sarà il legame fra dollaro e oro.
Nasce così L’impero del dollaro (Egea) al quale Kenneth Rogoff, classe 1953, guru di Harvard, dedica quello che più che un saggio di finanza si rivela essere un’appassionata galoppata lungo 81 anni di storia economica
L'”impero” arriva al capolinea con Donald Trump. Anche qui c’è una data: il 2 aprile 2025, nel Rose Garden della Casa Bianca, il presidente esibisce su una lavagna l’elenco dei Paesi (126, comprese alcune isole disabitate del Pacifico) con i relativi dazi che l’America imporrà alle importazioni da lì provenienti.
Sono frutto di incomprensibili elaborazioni: il 20 per cento sull’Unione europea quando le tariffe praticate dall’Ue sull’export
Usa non superano in media l’1,9 per cento, il 25 per cento su Canada e Messico, il 46 per cento sul Vietnam che torna a essere il nemico storico, il 34 per cento sulla Cina (via via Trump l’aumenterà fino al 145 per cento).
È la fine: lo sconcerto è tale che sui mercati globali crollano le borse, il dollaro, i titoli di Stato americani.
Le prime si riprendono a corrente (molto) alternata nelle settimane successive, dollaro e Treasuries no. «Con ogni probabilità, non si riprenderanno più: il dominio della moneta Usa è finito, così come nei secoli precedenti hanno ceduto il passo il fiorino olandese, la peseta, infine fra le due guerre mondiali la sterlina», conferma il professore dal suo studio nel Massachusetts. Rogoff spiega di aver “chiuso” il libro nei giorni dell’insediamento di Trump, «ma era fin troppo semplice prevedere, dai proclami in campagna elettorale e dalla precedente esperienza del Trump I, come sarebbe andata a finire».
Una conclusione che appare peraltro inevitabile scorrendo le pagine: ci sono le arroganze e gli eccessi dei “dominatori” di turno, le incertezze, le contraddizioni, le minacce, in una parola il caos. Finché un impero, qualsiasi impero, crolla. Anche negli anni della “Pax Dollar”, come la chiama Rogoff, non mancano le crisi: la più grave scoppia il 15 agosto 1971, quando Richard Nixon dichiara la fine della convertibilità del dollaro in oro e lo scioglimento di ogni legame fra le valute.
L’economia vacilla, l’inflazione sale alle stelle (sarà domata solo da Paul Volcker, capo della Federal Reserve negli anni Ottanta con Ronald Reagan presidente), la fiducia negli Stati Uniti («l’unico vero collante degli investimenti verso un Paese», scrive Rogoff) scende ai minimi storici.
Eppure l’America resiste e si riappropria del suo dominio, il “privilegio esorbitante” come lo chiamava Valéry Giscard d’Estaing. Ancora oggi, malgrado non rappresenti più di un quarto dell’economia mondiale, sono in dollari il 61 per cento delle riserve valutarie mondiali e il 93 per cento delle transazioni internazionali.
Eppure il destino sembra segnato: «Il disavanzo finanziario Usa ha superato i livelli di guardia e serpeggiano i timori di un fallimento, la Cina spinge per un posto all’altezza della sua importanza, l’attacco delle criptovalute prende velocità, l’euro reclama spazio pur fra mille tentennamenti».
Trump ha insomma dato il colpo finale a un processo già avviato. Poteva fermarlo, invece, creando un clima di conflittualità permanente, l’ha accelerato. Tutto è capire quale sarà il prossimo “imperatore”, e anche se si tratterà di una valuta come siamo abituati a pensarla o magari una successione di byte digitali.
(da agenzie)

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A MILANO UNO STUDENTE FUORISEDE DEVE ESSERE RICCO SFONDATO: UNA STANZA SINGOLA ARRIVA A COSTARE 1600 EURO

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

CON I PREZZI ALLE STELLE, L’UNICA SPERANZA PER CHI VUOLE STUDIARE NELLA CITTÀ MENEGHINA SONO GLI STUDENTATI: PECCATO CHE A FRONTE DI UNA RICHIESTA DI 45MILA POSTI LETTO CE NE SIANO SOLTANTO 14.500 MESSI A DISPOSIZIONE DALLE UNIVERSITA’

Per capire il business degli studentati a Milano bastano i due più elementari indicatori dell’economia di mercato: domanda e offerta. Nella città sempre più universitaria gli studenti iscritti sono infatti oltre 190 mila, di cui il 45 per cento fuorisede (in aumento del 15 per cento in cinque anni) per una richiesta «reale» che gli esperti del mercato del mattone quantificano in 45mila posti letto. D’altro canto l’offerta complessiva a oggi raggiunge 14.500 sistemazioni circa, numero in costante
aumento.
Meno di sette posti ogni cento studenti, un terzo dell’effettiva domanda. Ed è dunque sui due terzi restanti della torta che si concentrano le mire immobiliari — private o in partnership con il pubblico — che hanno invaso il mercato negli ultimi anni. Alcune delle quali peraltro finite al centro delle carte nelle indagini della Procura che hanno portato alle ultime richieste cautelari e alle dimissioni dell’assessore all’Urbanistica, Giancarlo Tancredi.
Sotto inchiesta Dai cantieri fermi alle incertezze sui progetti futuri, l’impatto delle inchieste sulla realizzazione degli studentati — come già visto con il mercato residenziale — è di molteplice lettura e «impatta» soprattutto sui circa 7 mila posti aggiuntivi previsti per il 2028.
Si parta dall’unico cantiere messo sotto sequestro dai magistrati in via Lepontina, vicina allo scalo ferroviario in rigenerazione di via Farini, nell’ambito del progetto «Scalo house».
Ecco, se le gru per la costruzione delle case sono ferme, lo studentato funziona a pieno regime dalla primavera 2024: 110 stanze per 122 posti letto, prezzi tra i 530 e i 700 euro dichiarati (in convenzione, a cui si aggiungono i servizi). A maggio-giugno, la struttura era al completo e ieri il gestore — Joivy, azienda di gestione immobiliare — offriva online stanze singole o doppie di diverso genere tra i 600 e i mille euro al mese (servizi inclusi)
Per fare una media cittadina, secondo le ultime ricerche attendibili, le cifre oggi vanno tra gli 850 e i 1.500 euro al mese per una camera singola e tra i 450 e 650 euro per la stanza doppia.
Al netto dell’incombere delle inchieste, insomma, qui nessuno stallo operativo.
Più complicato lo scenario che riguarda le quote dedicate agli studentati nei progetti di rigenerazione cittadini citati anche con accuse gravi di «Pgt ombra» e ricorso a «varianti occulte» a carico degli indagati. Per esempio nella partita degli interventi sugli scali ferroviari, sette macroaree dislocate attorno al centro della città). Agli scali di Greco e Rogoredo, periferie Nord e Est di Milano, così come sullo snodo Nord-Ovest di San Leonardo, è di aprile la rinuncia ai finanziamenti del Pnrr da parte di Redo, società che gestisce progetti sostenibili (di Fondazione Cariplo, Intesa Sanpaolo e Libera Unione Mutualistica).
Gli studentati erano infatti previsti nei piani attuativi originari già da prima dello stallo per le inchieste — per un totale di 1.484 posti letto — tanto che ancora oggi si attende il via libera dagli uffici tecnici del Comune.
Il ritardo non ha fatto abbandonare i progetti tout court , ma solo la corsa ai finanziamenti europei.
In attesa del via libera definitivo ci sono anche i progetti per i campus allo Scalo Farini (dove sono previsti 200 posti per l’Accademia di Brera) e alla Goccia-Bovisa (500 posti letto per
il Politecnico).
Delicatissima invece la partita sullo scalo di Porta Romana — progetto di Coima, Covivio e Prada holding finito nelle indagini — ma soprattutto alle prese con il «braccio di ferro» tra pubblico e privato sul pagamento degli extracosti con annesse polemiche. Qui, il Villaggio olimpico — casa degli atleti per i 15 giorni dei Giochi Milano e Cortina (6-22 febbraio 2026) — diventerà il più grande studentato d’Italia: 1.700 posti convenzionati, di cui il 30 per cento a tariffa agevolata (in media rispettivamente 450 e 650 euro al mese, spese escluse).
Sui terreni dell’Expo — oggi distretto dell’innovazione Mind sviluppato da Lendlease dove traslocherà il campus scientifico della Statale — l’ateneo ha presentato il progetto da 1.152 posti letto tra i 500 e i 650 euro al mese, di cui 400 posti a tariffe calmierate, circa a 250 euro al mese. Con inaugurazione attesa per l’anno scolastico 2027/28.
Ma sono i player universitari, ovviamente, le prime spie della carenza di alloggi in città,
Qui l’equilibrio è sempre tra letti e richieste, per una copertura tra il 35 e il 50 per cento: 1.631 posti in cinque strutture per 4.500 domande al Politecnico (da 375 a 640 euro al mese) e 1.345 posti in sei indirizzi alla Statale per 2.400 domande (a 250 euro). Alla Bocconi, le sette residenze coprono 2.100 posti su 5mila domande (da 385 a 645 euro), alla Cattolica nove tra collegi e residenze offrono rispettivamente 456 e 348 posti (da
140 a 630 euro), mentre alla Bicocca per 1.240 richieste offre 545 posti (da 252 euro). Chiude la Iulm: 244 posti per 250 richieste nelle due residenze (da 350 a 450 euro).
L’offerta privata Oltre a Joivy (già citato per via Lepontina ma con altri studentati aperti in città: Tirana, Fulcorina, Spadari e Vespri siciliani), gli altri operatori privati attivi sono Camplus (con in portafoglio 1.050 posti letto in sette strutture dalla Bovisa a Città studi, da Lambrate all’Humanitas, da Gorla a Sesto e prezzi da 420 euro, anche se ieri online il minimo era 540 euro), Aparto (1.900 posti tra via Giovenale, via Ripamonti e via Durando, con prezzi minimi da 650 e 740 euro, servizi inclusi) e Campus X (alla Bicocca e nel maxi-studentato Cx da 960 posti in 868 camere, appena fuori città, a Nova Milanese). Soluzioni sul libero mercato i cui prezzi dichiarati sono indicativi, perché online per settembre si trovano anche soluzioni superiori ai 1.600 euro al mese per l’intero anno universitario.
(da Fanpage)

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“L’INTERESSE NAZIONALE” ERA SOLO UNA SCUSA PER ESTROMETTERE UNICREDIT: IL GOVERNO SOVRANISTA, CHE SU BANCO BPM HA ERETTO UN MURO CON IL GOLDEN POWER ALLA BANCA ITALIANA GUIDATA DA ORCEL, ORA “REGALA” L’ISTITUTO MILANESE AI FRANCESI DI CREDIT AGRICOLE

Luglio 25th, 2025 Riccardo Fucile

“DOMANI”: “NIENTE DI MALE. TUTTO RIENTRA NELLE REGOLE DEL MERCATO. SE NON FOSSE CHE QUELLE REGOLE SONO STATE IGNORATE DAL GOVERNO DI ROMA NEL CASO DELL’OPS DI UNICREDIT, LO STESSO GOVERNO SEDICENTE SOVRANISTA CHE INVECE ORA GIOCA DI SPONDA CON LA BANCA DI PARIGI”

La fine era già scritta. E da un pezzo. Almeno da metà aprile, quando il governo, piegando a proprio uso e consumo le regole del golden power, ha eretto un muro a difesa del Banco Bpm. Sin da allora si era capito che le condizioni imposte dall’esecutivo erano state studiate apposta per sbarrare la strada all’ops di Unicredit.
Così Andrea Orcel non ha potuto fare altro che rassegnarsi al dietro front, annunciato martedì sera. Una mossa obbligata, anche se dalla Commissione europea era già arrivata una prima censura sull’uso distorto da parte di Roma dei propri poteri speciali nel caso della scalata annunciata nel novembre scorso. E anche se il Tar del Lazio aveva parzialmente accolto il ricorso di Unicredit contro il golden power in salsa sovranista.
Due successi parziali e comunque ininfluenti per gli aspiranti scalatori, perché i tempi lunghi della giustizia sono incompatibili con quelli della finanza, scanditi dal ritmo frenetico imposto dai mercati.
«Unicredit ormai di italiano ha poco o niente: è una banca straniera», attaccò Matteo Salvini a novembre dell’anno scorso per giustificare la sua opposizione all’ops appena annunciata.
Affermazione risibile se si pensa che l’uscita di scena di Unicredit ha di fatto consegnato il destino del Banco Bpm nelle mani dei francesi del Crédit Agricole, che nei giorni scorsi hanno chiesto a Bce l’autorizzazione a superare la soglia del 20 per cento nel capitale dell’istituto milanese, quota messa insieme tra
l’estate e l’autunno del 2024. Non per niente l’ops di Orcel è stata interpretata con una mossa preventiva in vista di un imminente attacco del gruppo transalpino.
Fatto sta che ora resta in campo il solo Crédit Agricole, che ha fatto di tutto per presentarsi come un socio senza ambizioni di comando, anzi, disponibile a collaborare con il governo. Roma fin qui è stata al gioco, a costo di ribaltare una narrativa costruita a suon di roboanti dichiarazioni a difesa dell’italianità del sistema finanziario.
Difficile dimenticare, giusto per fare l’esempio più recente, i siluri sparati contro l’amministratore delegato di Generali, il francese Philippe Donnet, sospettato di voler svendere ai poteri forti di Parigi il risparmio degli italiani gestito dal gruppo assicurativo. Strumento della presunta svendita sarebbe l’alleanza con Natixis, colosso finanziario d’Oltralpe.
L’operazione caldeggiata da Donnet sembra finita in un cassetto, ma nei mesi scorsi il fuoco di sbarramento governativo ha coinciso con la prima fase di una partita articolata e ancora in corso.
Una partita che prevede il ribaltone in Generali, per effetto della scalata ai danni del primo azionista della compagnia, cioè Mediobanca, a sua volta conquistata da Mps, dove comandano la coppia di soci forti Caltagirone-Del Vecchio con l’appoggio del ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti.
Ci sono francesi e francesi, dunque. Quelli buoni (o da tenersi buoni) portano le insegne del Crédit Agricole, che se arriveranno a controllare una quota vicina al 30 per cento di Banco Bpm, magari alleandosi ad altri azionisti minori, potranno di fatto imporre le loro scelte strategiche alla banca italiana forti della cosiddetta minoranza di blocco nell’assemblea straordinaria.
Nell’arco degli ultimi due decenni il Crédit Agricole è cresciuto molto nel nostro paese, rilevando, tra gli altri, istituti come Cariparma e più di recente il Credito Valtellinese. Se a queste attività adesso si aggiunge il controllo di fatto, se non di diritto, del Banco Bpm, il gruppo francese diventerebbe un attore di prima grandezza sul mercato italiano del credito, alle spalle dei colossi Intesa e Unicredit.
Niente di male. Tutto rientra nelle regole del mercato. Se non fosse che quelle regole sono state ignorate dal governo di Roma nel caso dell’ops di Unicredit, lo stesso governo sedicente sovranista che invece ora gioca di sponda con la banca di Parigi. Ma non finisce, qui, forse.
Negli ambienti finanziari c’è chi ritiene possibile che presto ripartano le manovre per creare il terzo polo creditizio nazionale, con la fusione tra Banco Bpm e Mps reduce dall’ops vincente su Mediobanca. Per uscire di scena lasciando spazio ad azionisti italiani, Crédit Agricole potrebbe chiedere una contropartita in denaro e in filiali.
Al termine dell’operazione appena descritta tutti potrebbero cantare vittoria. I francesi manterrebbero comunque una
presenza forte nella Penisola. Mentre il governo potrebbe vantare la creazione di una nuova grande banca tricolore. Nei prossimi mesi capiremo se questo è l’ultimo atto di un disegno studiato a tavolino tempo fa, oppure qualcosa di simile a un sogno di mezza estate. Sogno sovranista, s’intende.
(da agenzie)

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