Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA REAZIONE DELL’ARCIVESCOVO DI CAMERINO: “NON ERA UN RIPARO, MA UN BIVACCO”
Una chiesa trasformata per poche ore in rifugio dalla pioggia durante una festa di Paese.
Tanto è bastato per far esplodere una polemica che ha rapidamente superato i confini di Belforte del Chienti, piccolo centro dell’entroterra maceratese, nelle Marche
Tutto è cominciato sabato sera, quando in piazza Umberto I era in corso la manifestazione “Mexico & Nuvole”. Poi, improvvisamente, le nuvole sono diventate protagoniste della serata, riporta il Corriere Adriatico, scatenando un violento acquazzone. Nel caos, un cittadino in possesso delle chiavi ha così aperto la chiesa di Sant’Eustachio per offrire riparo alle persone presenti. Alcuni, però – come mostrano i video pubblicati sui social – hanno continuato a mangiare e bere, sedute tra i banchi della chiesa, ciò che avevano appena acquistato negli stand.
La reazione dell’arcivescovo: «La chiesa è stata profanata»
La notizia è arrivata poche ore dopo all’amministratore parrocchiale, Don Leonard Mbolaniaina, e all’arcivescovo di Camerino, monsignor Francesco Massara. E la reazione, tutt’altro che comprensiva, non si è fatta attendere. Nella notte tra sabato e domenica sulla pagina Facebook della parrocchia – riporta ancora il giornale locale – è comparso un messaggio durissimo: «La chiesa di Sant’Eustachio è stata profanata. Rimarrà chiusa fino a nuova decisione dell’arcivescovo». L’accusa: «Non era un riparo, ma un bivacco». Per la diocesi, infatti, non si è trattato semplicemente di offrire un riparo d’emergenza, ma di un vero e proprio oltraggio. «Un conto è entrare per ripararsi dalla pioggia – ha dichiarato l’arcivescovo Massara – un altro è trasformare la chiesa in una sala da pranzo. È stata turbata la sacralità del luogo. È inaccettabile».
«Non si tratta di una presa di posizione politica»
Anche se il giorno dopo la chiesa è apparsa perfettamente pulita, questo – secondo i vertici ecclesiastici – non è sufficiente a
giustificare l’accaduto. La messa di domenica è stata così spostata nella chiesa di San Giovanni, dove Don Leonard ha celebrato anche le nozze d’argento di una coppia del posto. Al termine, ha voluto chiarire: «Non ho preso questa decisione da solo, ma insieme all’arcivescovo e ad altri sacerdoti. Non si tratta di una presa di posizione politica, ma di rispetto per la sacralità del luogo». Sui social, però, si sono moltiplicate le voci contrarie alla decisione della diocesi. Tanti cittadini hanno espresso perplessità, ritenendo eccessiva la chiusura.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA RICHIESTA DI UN VERTICE DI COALIZIONE
Ma il governatore uscente del Veneto Luca Zaia, quindi, cosa vuole davvero ottenere da questa partita pre-elettorale? È la domanda che rimbalza tra chi segue da vicino i preparativi per le elezioni regionali d’autunno.
Perché con il passare delle settimane, tutto lascia pensare che il doge non abbia alcuna intenzione di retrocedere sull’idea di una lista propria, autonoma da quella in cui si uniranno i tre partiti di maggioranza (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia). Una lista personale che – come ha ribadito più volte – sarebbe capace di raccogliere «Il 40 o il 45% delle preferenze», conquistando consensi anche tra gli elettori del centrosinistra.
Salvare chi l’ha seguito in questi anni
«Vuole garantire continuità amministrativa» spiegano i suoi fedelissimi. E aggiungono: «Dal territorio la spinta è forte, la gente vuole che faccia la lista e lui è convinto che serva a rafforzare la coalizione» perchè «Lega, FdI e FI sono una cosa, ma se aggiungi la lista Zaia togli voti anche alla sinistra».
Ma c’è anche altro. In questi anni, al suo fianco, ci sono stati consiglieri regionali e figure politiche che si sono spese per il suo progetto. Senza una lista personale, molti di loro rischierebbero di restare fuori. E lui non vorrebbe lasciarli indietro.
I vecchi retaggi padani
Poi c’è un’altra questione, più profonda, che riguarda l’identità della Lega e le sue trasformazioni. Negli ultimi anni il partito ha cambiato pelle: da movimento padano legato alla visione di Umberto Bossi, si è evoluto – con l’apertura al Sud voluta da Salvini – in un soggetto nazionale, modificando di conseguenza anche le sue battaglie fondanti. Tra queste, l’autonomia regionale, che per Zaia resta una priorità assoluta (non a caso a fine 2024 ha pubblicato un libro intitolato Autonomia. La rivoluzione necessaria).
Anche per questo si fa sempre più netta la distanza non solo con la Lega nazionale, ma anche con gli alleati di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Come spiegano i più vicini al doge, «c’è un modello di amministrazione che si distingue da quello leghista, di FdI e di FI, più basato sull’autonomia».
Ed è proprio questa visione amministrativa a rafforzare l’idea di una lista autonoma alle prossime regionali.
Nessuna guerra con Salvini
Una scelta quella di Zaia, quindi, che non nasce da uno scontro, ma da una rivendicazione politica. Anzi, chi gli è vicino assicura che non c’è alcuna “guerra” contro il candidato che la Lega, nella sua versione Salvini, sarebbe pronta a schierare: Alberto Stefani. «A Zaia piace come nome», assicurano, anche se in un primo momento, la candidatura poteva sembrare divisiva, proprio per la vicinanza di Stefani al segretario federale, con cui il governatore uscente del Veneto ha preso le distanze su diverse
battaglie. Intanto, anche Fratelli d’Italia si fa avanti: come noto da settimane, Giorgia Meloni vuole un ruolo in Veneto, e sono due i nomi in ballo: i senatori Raffaele Speranzon e Luca De Carlo. Forza Italia, invece, ha subito rilanciato la candidatura di Flavio Tosi.
Al tavolo con i tre leader
Nel frattempo, mentre i tre leader della coalizione – Meloni, Salvini e Tajani – faticano a trovare una sintesi sul nome da proporre, Luca Zaia non chiude le porte al dialogo. Anzi, oggi ha ribadito la sua disponibilità a partecipare a un eventuale tavolo del centrodestra: «Ho sempre detto che sono a disposizione. Quando si deciderà qualcosa, se non sarò coinvolto, comunque dirò la mia. Non in modo provocatorio, ma con serenità e correttezza».
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
“MELONI È IN DIFFICOLTÀ PERCHÉ TUTTE LE COSE CHE HA DETTO SULLE RELAZIONI SPECIALI CON TRUMP SI SONO RIVELATE FESSERIE, SIAMO DEGLI STATI VASSALLI DI UN BULLO CHE NON LA FINIRÀ QUI”… “L’OBIETTIVO VERO DI TRUMP È PORTARE LE AZIENDE A INVESTIRE NEGLI STATI UNITI: VUOLE REINDUSTRIALIZZARE GLI STATI UNITI A SPESE DELL’EUROPA”
Carlo Calenda, cosa pensa dell’accordo sui dazi tra l’Europa e gli Stati Uniti?
«Penso che Ursula von der Leyen debba andare via e anche al più presto perché è un’incapace. Mario Draghi non avrebbe mai approcciato un negoziato con Trump come ha fatto lei».
Ci va giù pesante…
«Mi sono occupato di politica commerciale, quindi anche di dazi, per dieci anni, da Confindustria e poi dal governo, e non ho mai visto un negoziato così assurdo. Quello che è successo è colpa di Meloni e Merz».
Perché?
«Italia e Germania, per preservare l’automotive, che poi non hanno preservato, hanno spinto per non mettere i contro-dazi. E infatti quando Trump ha messo i dazi provvisori l’Europa non ha reagito con altri dazi e perciò è partita senza avere nulla con cui negoziare. E von der Leyen domenica si è genuflessa davanti al presidente degli Stati Uniti, perché il problema non sono solo i dazi al 15 per cento (con Biden si aggiravano intorno al 2,5) ma anche l’aver acconsentito al fatto che le merci americane entreranno senza alcun dazio. Oltre a questo ci sono le follie sull’energia…».
Cioè?
«L’Europa acquista in totale 400 miliardi di energia: come farà ad acquistarne 250 dagli Usa senza sapere nemmeno il prezzo? Insomma, quella di domenica è stata una scena mortificante per un europeista come me».
Addirittura.
Sì, siamo degli stati vassalli di un bullo che non la finirà qui. Quando si arriverà a parlare dei prodotti agricoli Trump farà un pressing gigantesco perché l’Europa apra anche a prodotti che non potrebbe comprare perché sono geneticamente modificati o perché hanno caratteristiche particolari, come il pollo alla clorina. E saprà che siamo sempre pronti a calarci le braghe».
Il premier francese François Bayrou ha detto che questo è uno dei giorni più neri dell’Europa.
«E ha ragione. L’Europa si è sfasciata davanti a Trump. Prima con gli impegni sulla Nato presi con leggerezza e poi si è ri-genuflessa domenica. Stiamo pagando il prezzo di non avere un’unione politica, di essere dipendenti dagli Usa per la nostra difesa e soprattutto di essere sempre, sempre proni. Spero che si opponga almeno Macron».
Lei diceva che così Merz e Meloni non hanno difeso nemmeno l’automotive.
«Per l’automotive è un disastro perché è triplicato il dazio base. l’obiettivo vero di Trump non è incassare sui dazi. L’obiettivo per lui più importante è quello di portare le aziende a investire negli Stati Uniti. Cosa che faranno per tre motivi: in Europa hanno regole ambientali assurde, il dollaro si è svalutato del 13 per cento — e quindi è come se avessi un dazio del 28 — il costo
dell’energia negli Usa è inferiore del 50%.
Questo è il vero gioco di Trump che vuole reindustrializzare gli Stati Uniti a spese dell’Europa».
Giorgia Meloni, però, dice che è un accordo tutto sommato positivo.
«Meloni è in difficoltà perché tutte le cose che ha detto sulle relazioni speciali con Trump si sono rivelate fesserie. Pensate che cosa avrebbe detto dall’opposizione se l’Europa avesse fatto un accordo del genere con gli Usa di Biden».
L’accordo comunque è siglato e sembra che ci sia poco da fare a questo punto.
«Io spero che le opinioni pubbliche europee si ribellino e in qualche modo boccino questo accordo perché altrimenti sarà solo l’inizio di una serie di vessazioni a cui noi ci assoggetteremo. Se io avessi oggi dei parlamentari europei farei votare loro la sfiducia a von der Leyen perché con lei l’Europa non può di certo andare avanti».
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
“AVEVO CHIESTO CHE FOSSE DRAGHI A TRATTARE CON TRUMP, UNO CAPACE DI ALZARE LA VOCE, INVECE HANNO MANDATO CAPPUCCETTO ROSSO”
«L’accordo è insostenibile per le imprese ma soprattutto è insostenibile Giorgia Meloni per le tasche degli italiani. I dazi al 15% sono una caporetto per la Ue, la dimostrazione che il sovranismo fa male. Soltanto chi vive su Marte può affermare
che è sostenibile». Matteo Renzi, leader di Italia Viva, parla così dell’accordo scozzese in una intervista a La Repubblica. «Io avevo chiesto che fosse Draghi a trattare con Trump, uno capace di alzare la voce – ha aggiunto l’ex premier -. Invece a trattare con il lupo Donald ci abbiamo mandato cappuccetto rosso Ursula».
«Fratelli del Connecticut»
«La Ue si è impegnata ad acquistare gas americano per 750 miliardi in tre anni, io sono filo-Usa, ma una roba del genere significa fare solo gli interessi di Trump. Secondo: non facciamo la difesa europea e impegniamo i singoli Stati membri a comprare da loro i sistemi militari. Ma se tu dai la spada e l’energia a un altro Paese, rinunci alla tua sovranità. D’ora il poi il partito di Meloni non dovrà più farsi chiamare Fratelli d’Italia, ma Fratelli del Connecticut», dichiara Renzi.
Secondo il senatore si doveva «contro-minacciare Trump per strappare un accordo migliore». Sulle critiche della premier per un accordo migliorabile aggiunge: «Ma è la stessa Meloni che diceva che avrebbe fatto il ponte fra Ue e Usa? Quella che alla Casa Bianca diceva che la partita dei dazi si sarebbe chiusa zero a zero? La stessa che ha annunciato che avrebbe stanziato 25 miliardi? Ormai Giorgia è una fake news che cammina. Ci sono davvero questi soldi o sono quelli del Monopoli?».
«Lei pensa che basti una copertina su Time per essere autorevole»
er Renzi Meloni «ha fallito. Hanno vantato la special relationship tra Italia e Usa, e chi in Europa ha scommesso sull’amicizia tra Meloni e Trump oggi ha perso. Si sono fatti
infinocchiare come scolaretti. Lei pensa che basti una copertina su Time per essere autorevole: lei pensa solo alla sua immagine e intanto saltano le imprese. Non hanno capito che il presidente Usa è il re dei sovranisti, pensa solo agli affari suoi, e che la destra che incarna è quella di Meloni: fa male al mondo, oltre che al suo Paese. Ma per le opposizioni si apre un’opportunità».
«Serve un decreto di sblocco di 25 miliardi»
Ora l’alternativa è dire «a chi continua a dire “brava Giorgia”, a Confindustria, a Coldiretti, al mondo produttivo mostriamo cosa vogliamo fare noi». «Sarà la chiave di volta per rilanciare l’alternativa al governo. È successo così in Canada e in Austrialia – aggiunge – dove l’aggressione commerciale di Trump è riuscita a far vincere alla sinistra elezioni che sembravano già perse».
Quello che deve fare ora il governo è «un decreto di sblocco di questi 25 miliardi. Per ora i soldi sono solo su Instagram di Meloni. Aspetto di vederli in Gazzetta ufficiale. Poi un decreto semplificazione che vuol dire ridurre il peso della P.A. e superare quelli che Draghi chiama dazi interni, italiani ed europei. Infine cacciare il ministro Urso, che è il principale ostacolo a una seria politica industriale e varare un gigantesco pacchetto sostieni-impresa. Abbiamo sprecato 5 miliardi di industria 5.0. Il rischio non è che trasmigrino in Usa solo le aziende, ma anche i nostri cervelli. Solo lo scorso anno, se ne sono andati in 194mila. Un esodo senza sosta. Ai sovranisti rispondiamo rilanciando l’Italia come il paese del talento e delle opportunità».
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
IL VUOTO EUROPEO PROFONDO E INCOLMABILE
Il 15 marzo scorso, in piazza del Popolo a Roma, cinquantamila persone si ritrovarono per
chiedere all’Europa di esistere come comunità politica, non solamente come entità economico-burocratica. Tra il Far West di Trump e il Far East di Putin, lo spirito di quella piazza era cercare nell’identità europea, nella sua struttura sovranazionale e nella sua vocazione fondativa (Ventotene, Nizza) alla democrazia, alla libertà, alla giustizia e alla pace, un baricentro ideale. Un solido e grande riparo nella tempesta del mondo — così come l’Europa appare ai migranti, sovente mal ripagati di questa fiducia. Nell’evidente schianto del canone occidentale, quella piazza invocava un canone europeo.
Quel raduno, che potremmo definire di europei senza Europa, o di europei in cerca di Europa, non solo non esaltava ciò che esisteva, ma sognava ciò che non esisteva, e nella convinzione dei presenti bisognava, prima o poi, fare esistere. Nella peggiore delle ipotesi, un wishful thinking, un pio desiderio senza grandi agganci con il deludente stato delle cose; nella migliore, una potenziale piattaforma politica. Ma il senno di poi, in triste
sintonia con il senno di allora, ci dice che il vuoto europeo ci appare, oggi, ugualmente incolmabile, se non ancora più profondo e rimbombante, come un pozzo vuoto.
L’ecatombe di Gaza non ha prodotto nell’Unione — potremmo dire: nella sua coscienza, supponendone una — niente che non sia lo sconcertato borbottio dei singoli, lasciando ogni Stato membro al suo comodo silenzio o al suo approssimativo disaccordo. Come se concertare una qualunque reazione comune, atto politico o concreta azione umanitaria, fosse, peggio che sconveniente, impossibile.
Così che in questo muto tergiversare il gesto di Macron (riconoscimento dello Stato palestinese, come già fatto dalla maggioranza dei Paesi del mondo, compresi alcuni membri dell’Ue) è parso di audacia rivoluzionaria e di sconquassante portata politica, perché nel vuoto e nel silenzio anche una semplice parola di buon senso sembra un ruggito.
In molti abbiamo pensato (in assenza di parole chiare e intellegibili, vale ogni processo alle intenzioni) che la imbarazzante trattativa sui dazi, con tempi e modi sempre dettati dalla controparte, abbia contribuito a sedare ogni possibile soccorso, politico e/o materiale, ai palestinesi di Gaza, per non contrariare Trump.
Sarebbe stata comunque una poco lodevole ragione, perché per quanto importanti siano i commerci, per quanto rispettabile generatrice di benessere l’economia, tacere su un prolungato eccidio, e sull’uso della fame e della sete come arma di guerra, è un prezzo ignobile. Se non una vera e propria correità
Ma alla luce dei fatti dobbiamo dire che no, neppure un cinico
realismo economico spiega e tanto meno giustifica l’inerzia europea su Gaza: von der Leyen non può spacciare quel 15 per cento (un gol subìto) come un successo o un miglioramento del precedente status.
Quel 15 per cento è qualcosa che prima non c’era, e adesso c’è. E se l’Europa passa a capo chino sotto quelle forche imposte non da un alleato, ma da un rude competitor (a proposito di fine del canone occidentale), vuol dire che non solamente l’Europa valoriale, quella dei bei princìpi e delle buone intenzioni, ha l’inconsistenza dell’aria (fritta) di fronte all’abominio di Gaza; anche l’Europa bottegaia, quella che sa fare di conto, non ha la forza di dettare le regole del gioco — almeno qualcuna — e deve sottostare, di conseguenza, al gioco di Trump.
Come è evidente, e politicamente assai rilevante, questa inconsistenza dell’Europa rattrista molti (sicuramente i tanti manifestanti di Roma, molto più in generale l’opinione pubblica progressista) e rallegra, come è ovvio che sia, chi combatte l’idea dell’unità europea perché è nazionalista — come buona parte delle destre europee — o perché incomprensibilmente ritiene, “da sinistra”, che l’europeismo sia l’ultimo cascame del suprematismo bianco.
Il lugubre gesto di bruciare le bandiere europee appartiene a queste frange astiose quanto inconsistenti; ben più gravemente, e con una potenza di fuoco infinitamente maggiore, è il sovranismo, con il suo seguito di massa, ad alimentarsi della debolezza valoriale e politica dell’Europa.
Se non esiste, per il mondo nello sconquasso, un approdo sovranazionale, quantomeno una mappa ideale che riapra le
porte a quella speranza, il nazionalismo sarà l’eterno vincitore. E la logica della guerra — vedi Gaza, vedi l’Ucraina — la sola logica leggibile, nell’illeggibile afasia delle altre opzioni.
Come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, “l’ultimo dovere che ci riguarda è chiedere all’Europa, cioè a noi stessi, di sfamare Gaza… Questo non significa sostituire la politica con la misericordia: ma dare una base concreta, materiale, immediata e popolare a quell’azione politica che dobbiamo pretendere dall’Europa, se vuole scrivere la sua parte di storia invece di leggerla come una vicenda altrui”.
Sottoscrivo con convinzione. Ma mi sento costretto ad aggiungere che non credo accadrà. Risuonano sempre più spesso, nella mia testa di europeo senza Europa, le parole che Mario Draghi rivolse ai parlamentari europei nello scorso febbraio: «Se non fate qualcosa, vuol dire che non siete in grado di applicare i valori fondativi dell’Unione Europea».
(da repubblica.it)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
VEDIAMO I PALESTINESI MORIRE DA MORIBONDI, SIMILI AGLI EBREI DI AUSCHWITZ O AI CONTADINI UCRAINI DELL’HOLODOMOR
Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, seduti ogni sera, davanti agli sbuffi di polvere che si alzano sulle macerie di Gaza, alle esplosioni che illuminano la notte di Khan Younis, ai cadaveri senza identità accatastati nelle fosse comuni, ai bambini ridotti a scheletri, ci chiediamo quanto veleno militarista, quanto veleno religioso, quanto veleno ideologico occorrano per trasformare una vendetta in un massacro senza fine. E come sia possibile ritrovarci a respirare di nuovo dentro al nero inchiostro della premonizione di Primo Levi: “Siccome è successo, succederà ancora”.
Al netto delle briciole concesse da Israele, un corridoio lungo dieci ore al giorno ai camion degli aiuti umanitari, siamo tutti precipitati indietro nel tempo. Di nuovo spettatori del lager, testimoni di un massacro che avviene davanti al mondo, a tre ore di volo dalle nostre vacanze, dai nostri fantocci della politica e della diplomazia, dalle balbettanti corrispondenze dei nostri telegiornali che chiamano lo sterminio “un nuovo raid delle Forze armate”, o peggio, “una nuova offensiva”. E dicano, come niente fosse “bombardata la tendopoli di Deir El Balah” e poi “nuova strage tra gli sfollati in fila per il cibo, oggi sono 32”, senza spiegarci come sia possibile bombardare una tendopoli che è “area umanitaria” per eccellenza, e sparare sugli sfollati, che sono donne e bambini, aggrappati alle loro pentole vuote.
Due inferni sulla Terra ha fabbricato il fanatismo ideologico, negli anni 30 dell’altro secolo: lo sterminio degli ebrei nei campi
di concentramento nazisti voluto da Hitler e dalla sua Germania uncinata, classificato come Soluzione finale. E lo sterminio per fame, imposto in Unione Sovietica da Stalin e dagli apparati comunisti, contro il popolo ucraino, l’Holomodor. Se
Netanyahu e il suo governo, Israele e il suo esercito, li stanno imbracciando entrambi contro i palestinesi imprigionati a Gaza, per vendicare i 1200 ebrei uccisi da Hamas e i 250 rapiti, tutte vittime del 7 ottobre 2023, in un raid preparato per mesi dai miliziani, senza che gli occhi satellitari di Israele si accorgessero di nulla, come nel nulla erano finiti gli allarmi dei Servizi segreti militari. Per poi deflagrare nel furore di questa vendetta infinita e finale, 21 mesi di bombardamenti, che nessuno riesce più fermare.
Le bombe e la fame. I missili e le malattie. Quasi 60 mila palestinesi sono già morti sotto le bombe, altre migliaia di vittime sono scomparse sotto le macerie. I jet e i droni hanno raso al suolo il 70 per cento di tutto: le case, gli ospedali, le strade. Da marzo – secondo il piano ideato come seconda fase del massacro – l’esercito ha bloccato i camion di cibo e acqua degli aiuti internazionali al di là dei valichi di frontiera, per poi fucilare, ogni giorno, i civili che si addensano in folle rese isteriche dalla fame, nei punti in cui viene distribuita la farina: l’alimento indispensabile alla sopravvivenza, trasformato in trappola mortale.
Le briciole appena concesse da Netanyahu “per impedire all’Onu di continuare a mentire contro di noi” serviranno poco ai gazawi (e agli ostaggi imprigionati da Hamas) se non a prolungarne l’agonia. A morire da moribondi, proprio come accadeva agli
ebrei ridotti a scheletri nelle baracche di Auschwitz, prima di essere avviati ai forni crematori. O come i contadini ucraini ridotti a larve umane nei campi bruciati dalla carestia.
Ma chi sono i soldati che obbediscono agli ordini sul campo? Che facce hanno? Nessuna è mai comparsa. Israele controlla, cancella, censura tutto. Non le vediamo, ma possiamo immaginarle. Sono quelle dei normalissimi ragazzi e delle ragazze che fino a sei mesi fa, a un anno fa, giocavano a pallavolo sulle spiagge di Eilat e Banana Beach, che bevevano l’aperitivo nei pub di Jaffa, che si scattavano selfie in quella che ancora oggi le guide turistiche chiamano “l’eccitante vita notturna di Tel Aviv”.
È stata la disciplina militare a trasformarli. È stata l’ideologia della smisurata vendetta a renderli così obbedienti, così impermeabili all’orrore, così indifferenti all’omicidio di massa. A persuaderli che sparare ogni giorno, da 660 giorni, contro civili inermi sia una guerra e non un crimine. Un ordine da eseguire. Una procedura consentita dal dominio totale che Israele, da decenni, esercita sui suoi nemici, in nome della propria nazione, della propria terra, della propria storia. Decenni nei quali ha steso il filo spinato intorno ai 56 chilometri di confine di Gaza. Installato telecamere e check-point. Consentito l’assalto dei coloni nei Territori. Praticato gli arresti arbitrari dei sospetti, sequestrati senza processo in carceri vietate a ogni controllo. Garantendo la perpetua impunità dei propri reparti militari.
Al netto delle crescenti diserzioni (e suicidi) che le agenzie internazionali segnalano tra le file dell’esercito israeliano, non
sono solo i decenni di guerra guerreggiata a rendere le migliaia di reclute così tanto indifferenti al destino di un intero popolo nemico, speculare al proprio. Lo è anche l’assimilazione dei canoni dell’apartheid respirati nella vita quotidiana, quella vissuta nella famosa “unica democrazia del Medio Oriente”, che li ha persuasi della completa disumanizzazione dei palestinesi, gli intrusi. Gli intralci da eliminare, i corpi da sfoltire, le masse irrilevanti da sgomberare. “Gaza sarà finalmente tutta ebrea”, ha appena auspicato Ben-Eliahu, ministro di Netanyahu. Perché “i palestinesi non sono un popolo” non sono nulla, come sostiene il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, quello che già un anno fa anticipava la strategia di Israele in forma di auspicio quando diceva che lasciar morire di fame due milioni di palestinesi “potrebbe essere giustificato e morale per liberare gli ostaggi”.
Dunque la guerra perpetua, la fame, lo sterminio. Ottant’anni fa, 2 dicembre 1948, Albert Einstein, Hannah Arendt e altri 26 intellettuali ebrei resero pubblica la loro denuncia sulla deriva del nascente Stato di Israele dove si predicava “un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale”, e che il Partito della libertà, leader il futuro premier Manachem Begin, appariva “strettamente affine ai partiti nazista e fascista nei metodi, nella filosofia politica, nell’azione sociale”. E concludeva la lettera: “È nelle azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere: dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Quel “noi” di allora siamo noi oggi. Il partito di Begin è diventato quello di Netanyahu. E quel futuro è adesso.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
L’ECONOMISTA ALEC ROSS: “LE TATTICHE DI INTIMIDAZIONE DI TRUMP HANNO FUNZIONATO E GLI EUROPEI SONO APPARSI DEBOLI” – TRUMP NEGOZIA E VIVE IN UN MONDO CON REGOLE TUTTE SUE. MARIO DRAGHI HA SCRITTO UN CAPOLAVORO, UN MANUALE SU COME OTTENERE POTERE, INDIPENDENZA E CRESCITA IN EUROPA. DOPO LA PUBBLICAZIONE È STATO COMPLETAMENTE IGNORATO”
«Ursula von der Leyen e i suoi colleghi a Bruxelles sono stati mangiati vivi da Donald
Trump», dice Alec Ross. «Le sue tattiche di intimidazione ed esagerazione hanno funzionato nel raggiungere i suoi obiettivi, e gli europei sono apparsi estremamente deboli».
Secondo l’economista, già consigliere di Hillary Clinton e professore alla Bologna Business School, l’accordo «evita una guerra commerciale», ma solo «nel breve termine». […] «Siamo in questa situazione a causa di anni di incompetenza e iper-regolamentazione da parte di politici e regolatori Ue che trattano sempre da una posizione di estrema debolezza». «[…] von der Leyen ha fallito».
Nel concreto, questo compromesso aiuta davvero a evitare una guerra commerciale o è solo una tregua?
«Trump vive sempre nel breve termine. Direi che questo accordo reggerà per almeno un anno. Poi, a seconda delle circostanze politiche del momento, potrebbe rimetterlo in discussione. Le persone devono capire che Trump negozia e vive in un mondo con regole tutte sue. Le norme e gli accordi della diplomazia tradizionale non fanno parte del suo orizzonte. Quindi, per ora, è fondamentalmente l’Europa che paga Trump per non essere presa di mira nei prossimi dodici mesi».
La Commissione Ue sostiene che i dazi saranno a carico degli importatori americani. È una lettura realistica?
«Decenni di dati economici dimostrano che chi pagherà di più saranno i consumatori americani. Tuttavia, un aumento del 15% sui prezzi dei beni europei crea anche incentivi a consumare meno, soprattutto nel caso dei prodotti non di lusso, che hanno margini più bassi. In settori come l’automotive e la manifattura, quel 15% pesa molto più che nei beni di lusso, dove i consumatori accettano più facilmente rincari. Il risultato sarà un aumento dei costi per i consumatori americani e un calo della domanda di beni europei. Come spesso accade con le politiche commerciali mercantiliste, alla fine ci perdono tutti».
«L’Ue deve chiedersi perché è stata bullizzata fino ad accettare questo accordo. La risposta è semplice: per la propria debolezza. Sei mesi fa, sentendo le parole di Trump e del suo vicepresidente J.D. Vance, mi sarei aspettato che si svegliasse e orientasse verso una strategia basata su investimenti anziché regolamentazione,
sulla crescita anziché sulla stagnazione. Invece ha continuato a dormire. Mario Draghi ha scritto un capolavoro, un manuale su come ottenere potere, indipendenza e crescita in Europa. Poco dopo la pubblicazione è stato completamente ignorato. […]».
Quali settori europei sono più esposti? E quelli americani? L’automotive può reggere il colpo o servirà una risposta più incisiva
«Ci sono pochissimi vincitori e moltissimi sconfitti europei in questo accordo. In Europa, i veri vincitori sono la difesa e l’aerospazio. I perdenti includono l’automotive, la chimica e la farmaceutica. Negli Stati Uniti, i vincitori sono l’energia, la difesa, l’aerospazio, la tecnologia e i semiconduttori. I perdenti, anche qui, sono nell’automotive. Sia gli americani che gli europei perdono ».
Trump ha imposto la sua logica. L’Europa ha strumenti per negoziare da pari in un mondo che ragiona così?
«L’Ue ha bisogno di un cambio di leadership. Von der Leyen e i suoi colleghi a Bruxelles non sono all’altezza del compito. È arrivato il momento che Von der Leyen si dimetta. È in carica dal 2019 e ha fallito in ogni compito di rilievo che ha avuto, dal Covid a oggi, fino a questo accordo commerciale».
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
DAL VINO AI FARMACI, COSA DEVE FARE OGNI SETTORE PER SOPRAVVIVERE ALL’ACCORDO… UNA BOTTIGLIA DI VINO RISCHIA DI PASSARE NEI RISTORANTI AMERICANI DA 11 A 60 EURO
Se la mozzarella di bufala passerà da 45 a 60 euro al chilo gli americani continueranno a comprare dai produttori italiani? Se lo chiede Repubblica che analizza, settore per settore, come cambieranno i mercati davanti all’accordo stilato per dazi al 15 per cento, tra l’Unione Europea e gli Usa. E sopratutto quanto questo influenzerà il prezzo di listino.
Settore agroalimentare: il costo dei dazi peserà 1,2 miliardi
Gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco dell’agroalimentare italiano, nel 2024, con quasi 8 miliardi di euro di vendite. Si tratta dell’11,4% dell’export totale.
Per Confagricoltura, si tratta di cereali, riso e derivati (1,25 miliardi, di cui 670 milioni di pasta), mentre i formaggi “valgono” quasi mezzo miliardo e oli e grassi arrivano al miliardo. In particolare si teme che l’olio italiano venga rimpiazzato con quello turco, del Sud America o tunisino. Nel panorama agroalimentare influenzeranno molto le eventuali esenzioni. Repubblica ricorda che il Parmigiano, che esporta il 23% della sua produzione negli USA, già aveva un dazio del 15 per cento. i più colpiti saranno i produttori di salumi, che rischiano di perdere 25 milioni.
Alcol: sale il prezzo del vino al ristorante. La bottiglia sale a 60 dollari
L’export del vino italiano negli Usa vale quasi 2 miliardi. Per l’Unione italiana vini, a inizio anno una bottiglia che usciva dalla
cantina a 5 euro finiva allo scaffale a 11,5 dollari; tra dazi e svalutazione del dollaro, salirà a 15 dollari (+186%) e al ristorante la stessa bottiglia potrebbe costare 60. I bianchi trentini e friulani, i rossi toscani e piemontesi rischiano di lasciare, come teme la Cia, il campo libero «al Malbec argentino, allo Shiraz australiano fino al Merlot cileno», precisa il quotidiano. Il Brunello potrebbe bruciare 3 milioni di bottiglie. Lamberto Frescobaldi, presidente Uiv, è lapidario con Repubblica: «Con i dazi al 15%, il danno per le nostre imprese è di 317 milioni».
Auto, saranno colpiti di più i tedeschi
Si dovrebbe gioire per un dazio al 15%, rispetto al 25%. L’Europa verso gli Stati Uniti nel 2024 ha esportato 750 mila veicoli per un valore di 38,5 miliardi. Gli extracosti da assorbire, riporta il quotidiano, oscillano intorno ai 5 miliardi. E pesano sui marchi tedeschi, in particolare Bmw, Mercedes, Porsche e Audi. «È come se fosse il 15% più il 10% – dichiara Gianmarco Giorda, direttore dell’Anfia, sigla della componentistica italiana – i margini sono bassi, i contraccolpi sull’auto tedesca si sentono e i costruttori scaricheranno sulla filiera perché sarebbe inimmaginabile alzare i prezzi. Le esportazioni verso gli Usa valgono 4,5 miliardi, gli extracosti intorno ai 650 milioni».
Farmaceutica, meccanica, moda
Le preoccupazioni sono sia sul settore farmaceutico (dove non è chiaro per ora se si saranno esenzioni per alcune categorie di prodotti), e il settore della meccanica. «Le aziende della meccanica, per oltre il 90%, hanno dimensioni medie e piccole. Dunque mancano dei margini per assorbire quel
15%», ha spiegato il presidente di Federmeccanica. Si spera nell’esenzione in alcuni ambiti e sottosettori più specifici. Come per esempio Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di robot e automazione, per le macchine utensili per la lavorazione dei metalli. Tipologia di bene molto voluto negli USA. E infine il settore della moda. Molti marchi del lusso hanno già ritoccato i prezzi a inizio anno. La quota dell’export verso gli Usa del settore è al 17% pari a 11 miliardi di controvalore, un dazio teorico di 1,65 miliardi. I costi riguardano più che altro la filiera produttiva. Se alti, conclude Repubblica, le concerie e le aziende dei tessuti sono costrette a cedere il controllo a gruppi internazionali (spesso francesi) per garantire sia produzione che posti di lavoro.
(da editorialedomani.it)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA PREMIER PARE UNA PROPAGANDISTA DI TRUMP CHE VUOL CONVINCERE GLI ITALIANI A DIGERIRE IMPOSIZIONI CHE LEI STESSA NON E’ STATA CAPACE DI CONTRASTARE
Le guerre dei dazi di Donald Trump sono globali. E sono calibrate rispetto al nemico e
quindi differenziate. Il come vengono calibrate, ci fa comprendere la sua strategia imperiale, per nulla folle o clownesca.
Trump sta usando le tariffe con tre propositi, elucidati dai suoi vari comunicati e post: fare cassa con il commercio estero per poter diminuire le tasse ai suoi amici oligarchi senza mandare a gambe all’aria il bilancio del suo paese; indebolire le economie più forti e che sono direttamente competitive degli Stati Uniti; e facilitare questi due piani mettendo i paesi daziati l’uno contro l’altro. Le sue guerre sono due, una direttamente combattuta e una (questa sì) per procura, scatenata tra i suoi subalterni. Un esempio illustra questa triplice strategia.
I dazi sul vino
Imporre dazi del 15 per cento sul vino importato dall’Italia intende non solo fare cassa a spese dei nostri produttori e lavoratori e, magari, estendere la produzione americana, ma soprattutto e nel frattempo indebolire la produzione italiana mettendola contro i suoi concorrenti diretti ma più deboli, i quali non aspirano ad altro che a rafforzarsi a spese del più grande produttore (come lo è l’Italia, seconda solo alla Francia).
Ecco dunque che, a fronte del 15 per cento sul vino italiano, Trump ha negoziato il 10 per cento su quello, per esempio, della Nuova Zelanda. Come si suol dire, Trump sta istigando una guerra tra poveri (simbolicamente presi): assumendo che tutti i vassalli della Casa Bianca siano e restino tali, alcuni si avvantaggeranno a scapito di altri e nessuno penserà a unire le forze contro il potente. Divide et impera.
Il principale nemico
La guerra è guerra. L’Europa è il nemico maggiore di questa guerra dei dazi ed è anche il più domabile, perché nonostante la sciocca idea per cui le ideologie sono finite, l’Europa è segnata, nel suo Dna, dall’ideologia dell’ordine occidentale guidato dalla madre antica della democrazia moderna.
La Ue non riesce a essere protagonista alla pari. E anni di dominio monopolistico dell’alta tecnologia made in Usa, che ha privato il Vecchio Continente dell’industria del futuro, rendono questa subalternità quasi fatale.
Detto ciò, resta difficile da spiegare l’atteggiamento della nostra presidente da copertina. Giorgia Meloni ha mostrato di voler costruire di sé l’immagine di moderatrice: modera la destra postfascista in casa propria, modera il radicalismo della destra in Europa, modera la disposizione critica di Trump nel consesso europeo. In effetti, non modera proprio nulla.
La sua politica securitaria è liberticida, la sua idea di democrazia è autocratica, la sua politica internazionale è senza personalità. Sta facendo sponda all’inquilino della Casa Bianca, agevolandone la politica internazionale e commerciale. Non un cenno di critica, seppure sommesso.
Il ruolo di Meloni
Circa il Medio Oriente, se ne esce con una frase criptica per cui sembra essere controproducente (a chi?) riconoscere lo stato palestinese (riconoscimento ormai simbolico, visto il piano israeliano di occupare la Cisgiordania, ma molto importante in questo momento drammatico per i palestinesi affamati e totalmente vulnerabili).
Circa l’Europa, di fronte a Trump, Meloni se ne esce con una frase a dir poco imbarazzante: «Una guerra commerciale non conviene a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti». Ci si chiede che cosa andrà a dire a quel che resta dell’industria italiana con i dazi sull’alluminio Usa al 50 per cento e ai cittadini italiani che si troveranno sulle bollette del gas e della luce il peso dell’obbligo di comprare gas liquido dagli Stati Uniti.
A volte sembra che Meloni stia facendo la campagna pubblicitaria per Trump, per far digerire imposizioni che né lei né gli europei sono stati capaci di contrastare. Come quando Meloni ha giustificato la tassa Nato (chiamiamola come deve essere chiamata l’imposizione, neppure contestata, del 5 per cento del Pil nazionale per comprare armi americane e rafforzare gli eserciti nazionali, parte dell’Alleanza), dicendo che «se vuoi la pace devi preparare la guerra».
Mettiamo tra parentesi la logica antidemocratica di questa massima antica. Chiediamo invece alla nostra presidente del Consiglio perché non ha applicato questa massima alla “guerra dei dazi” che è stata dichiarata dall’amico Trump per danneggiare, tra gli altri, il suo (di Meloni) paese. Quindi, l’opportunismo (antica tattica della destra italiana antica) serve a chi? Non serve a dare un’immagine onorevole del nostro paese (in Europa l’Italia ha assunto la posizione di paese paladino di Trump) e, soprattutto, non sostiene la politica economica italiana. Il vassallaggio e il sovranismo sono antitetici.
(da editorialedomani.it)
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