Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
FUORI CASA, IL DILUVIO: LA ”GIORGIA DEI DUE MONDI” È STATA RIDICOLIZZATA PURE A DESTRA DAL LEPENISTA BARDELLA ALL’ANTI-UE, ORBAN… QUANDO IL SUO ALLEATO TRATTATIVISTA MERZ HA RINCULATO, LA “PONTIERA” (SENZA PONTE) E’ FINITA DA SOLA, COL CERINO IN MANO, A DIFENDERE URSULA
Negli ultimi tre anni di governo una Giorgia Meloni in così totale difficoltà politica non si era mai vista.
Per essere coerente al suo atteggiamento da “pontiera” Usa-Ue e alla sua posizione favorevole alla trattativa in ginocchio di Ursula con il boss della Casa Bianca, è finita nel tritacarne, fatta letteralmente a pezzi non solo dall’opposizione del Pd (che ha
pur votato Ursula alla presidenza della Commissione) ma da tutti, alleati compresi: per Confindustria, Coldiretti, Cisl, eccetera, “L’accordo con Trump è una cazzata”.
Fuori casa, per la ”Giorgia dei Due Mondi” è andata ancora peggio. Se il primo ministro François Bayrou ha dettato, a muso duro: “È un giorno buio quando un’alleanza di popoli liberi, uniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, decide di sottomettersi”, la più trattativista dell’Unione europea ha balbettato: “Giudico positivamente il fatto che si sia raggiunto un accordo, ho sempre pensato e continuo a pensare che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti”.
Ironia della sorte, l’Amica Immaginaria di Trump che all’inizio aveva assicurato un finale zero a zero, quando poi è arrivato il 10% ha farfugliato che era “sopportabile”, arrivata la mannaia del 15% è stata ridicolizzata pure a destra dal presidente del Rassemblement National, il lepenista Jordan Bardella (“Il metodo di Trump è brutale”), in tandem con il tenero orco anti-Ue e filo-Putin, Viktor Orbán: “Donald Trump non ha raggiunto un accordo con Ursula von der Leyen, ma piuttosto si è mangiato la presidente della Commissione europea per colazione”.
Con il suo tradizionale camaleontismo, l’Underdog ha provato a fare la solita ”para-guru”, buttando la palla in tribuna per prendere tempo e non mettere la faccia sull’umiliazione europea (“Base sostenibile, giudico positivamente il fatto che si sia raggiunto, ma bisogna andare nei dettagli”).
Ciao core! i calcoli degli economisti parlano chiaro: le tariffe di
Trump avranno un impatto negativo sul Pil italiano tra l’0,3% e lo 0,5%, senza contare che nel 2026, ultimo anno in cui l’Italia riceverà i miliardi del Pnrr dall’Europa, le rate verranno erogate da Bruxelles in base dello stato di avanzamento dei lavori, già in cronico ritardo.
Inoltre, quando i cervelloni intorno alla Meloni hanno ipotizzato di usare i fondi del Pnrr per sostenere le imprese colpite dai dazi, da Bruxelles è arrivato un niet perentorio per ricordare che quegli stanziamenti, decisi durante il periodo pandemico, vanno utilizzati per gli investimenti e non per i sussidi.
Se le difficoltà della Ducetta in campo economico fanno rizzare i suoi boccoli, sul piano politico è meglio lasciar perdere: il suo sogno di democristianizzarsi agganciando Fratelli d’Italia al Partito Popolare Europeo, gruppo di maggioranza che sostiene la maggioranza Ursula, si allontana sempre più perché è venuto a mancare il suo compagno di viaggio filo-Trump, Friedrich Merz.
La “Thatcher del Colle Oppio”, la più trattativista dell’Unione per evitare “una guerra commerciale con gli Stati Uniti”, aveva infatti trovato una spalla nel cancelliere tedesco, ambedue in netta contrapposizione alla linea dura di Macron contro Trump.
Merz, bisognoso di tutelare l’automotive tedesco, si era illuso di ammorbidire Trump con un atteggiamento meloniano, convinto di chiudere l’accordo con dazi al 10%.
Quando il tycoon col ciuffo ha inviato all’Unione europea una lettera-ultimatum, minacciando tariffe al 30%, lo stesso cancelliere si è trovato col culo per terra. Il metodo “shock and awe” (colpisci e terrorizza) usato da Trump contro l’Europa ha
certificato la totale inaffidabilità del presidente americano. A quel punto, Merz ha iniziato a sudare freddo.
Pur detestando da sempre la cocca di Angela Merkel, sua rivale di partito nella Cdu e nel Ppe, Merz si è appoggiato alla spalla dela “pontiera” (senza ponte) sperando nel buon lavoro del commissario al commercio Maros Sefcovic, per ricondurre a miti consigli l’intransigenza di Trump.
Davanti all’arroganza gangeristica del Caligola di Mar-a-Lago, ha dovuto rinculare riconoscendo che la linea dura di Macron aveva un senso: alla lettera-minatoria del 30%, il presidente francese era dell’avviso di agire subito con una controffensiva uguale e contraria, compresa la minaccia di mettere sul mercato i titoli del debito pubblico degli Stati Uniti che hanno in pancia i 27 paesi dell’Unione
Come ha ben dimostrato la Cina, l’unico modo per trattare da pari con gli Usa è mostrare i muscoli: più si accondiscende alle pretese del Padrino della Casa Bianca, più quello alza il prezzo.
Il risultato finale, con le tariffe al 15%, ha spiazzato Merz e lo ha messo nei guai, perché in Germania l’accordo è stato accolto come un disastro annunciato. I quotidiani tedeschi, con la vendutissima ”Bild” in testa, hanno sparato a zero contro l’intesa Ue-Usa, la Confindustria di Germania ha tuonato (“Oggi non è un buon giorno per l’economia”).
Il presidente della Federazione auto tedesca, Hildegard Müller, ha dichiarato che “i dazi del 15% costeranno miliardi alle case automobilistiche”. Come puntualizza Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”: “D’accordo, ma le medesime ‘case
automobilistiche’ sono state il tormento di Berlino e di Bruxelles: fate in fretta, troviamo un compromesso con Washington. Per altro il settore auto è il solo che abbia contenuto i danni: il dazio passerà dal 27,5% al 15%”.
Ma il peggio è esploso nella stessa maggioranza che sostiene il governo di coalizione di Merz: i socialdemocratici della Spd e i Verdi hanno parlato di accordo capestro. Davanti a una tale rivolta collettiva (l’unico silente il presidente del PPE, Manfred Weber), che non sa come schierarsi, anche il cancelliere, che si è posto da subito come il più dialogante (dopo Meloni) con gli Stati Uniti, ha dovuto ammettere che l’accordo produrrà “danni sostanziali” all’economia europea, balbettando che “non si poteva ottenere di più”.
Il passo indietro di Merz, terrorizzato dai possibili contraccolpi alla sua maggioranza, ha lasciato Giorgia Meloni da sola, in prima fila, col cerino in mano, a difendere Ursula von der Leyen violentata dal cetriolo di Trump, con tutti i leader degli altri paesi a gridare che ”l’Unione Europea deve cambiare”.
D’accordo, ma come? Più Bruxelles, con un’Unione libera dai lacci dell’unanimità e coesa sulla difesa e regime fiscale, come vuole il centro-sinistra, o meno Bruxelles, come propugna il centro-destra? Boh…
La povera Ursula è il capro espiatorio che deve ascoltare le voci discordanti e confliggenti di 27 paesi ed è finita alle corde. Ma sa benissimo che rimarrà al suo posto, una alternativa non c’è perché, da Macron a Merz, hanno tutti paura che, fatta fuori la von der Leyen, la destra dei ”patrioti” conquisti Bruxelles
Per fare tombola, Marcello Sorgi su “La Stampa” aggiunge: “C’è chi osserva che nulla garantisce dal fatto che Trump, magari tra due mesi, non rimetta tutto in discussione: è possibile, anche se il presidente Usa sa bene di essere uscito bene dall’intesa. Ma forse è anche per questo se Meloni si è guardata bene dal rivendicare la sua amicizia con Trump e mettere le mani su una trattativa che anche adesso che è conclusa odora ancora di dinamite”.
( da Dagoreport)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX PRIMO CITTADINO DI PESARO, MATTEO RICCI, CANDIDATO ALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE MARCHE PER IL CAMPO LARGO, INTERROGATO PER 5 ORE DAVANTI DALLA PM: “HO RIBADITO LA MIA ASSOLUTA ESTRANEITÀ AI FATTI. ADESSO TORNO A FARE CAMPAGNA ELETTORALE”
“Sono molto soddisfatto, ho risposto a ogni domanda e ho raccontato ciò che so rispetto ai
fatti contestati e alla mia attività da sindaco”.
Dopo oltre cinque ore di interrogatorio davanti alla pm di Pesaro Maria Letizia Fucci, l’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci, europarlamentare e candidato presidente di Regione, è uscito in auto dalla caserma della Guardia di Finanza di Pesaro, accerchiato da cronisti e fotografi,
“Ho ribadito la mia assoluta estraneità ai fatti – ha aggiunto – e anzi ho apportato un contributo ulteriore per l’accertamento della verità”. – “Ringrazio quindi i magistrati per il loro lavoro e sono molto sereno e determinato. Adesso torno a quello che ho sempre fatto, fare campagna elettorale tra la gente e per la gente. Grazie davvero”.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
LEVI RIMARRÀ IMPUNITO VISTO CHE IN AREA C (COME IL 70% DELLA CISGIORDANIA) LE LEGGI SONO ISRAELIANE E GLI ALTRI COLONI CONTINUERANNO A RENDERE LA VITA DEI PALESTINESI COSÌ IMPOSSIBILE DA COSTRINGERLI A SLOGGIARE
I palestinesi di questi piccoli villaggi nel sud della Cisgiordania sono diventati delle celebrità da quando il film girato da loro stessi ha vinto il Premio Oscar. No Other Land , non c’è altra terra, racconta la loro resistenza non-violenta contro le prepotenze dei coloni israeliani. Credevo esagerassero e mi sbagliavo.
Lunedì sono stato nei cortili, sotto gli alberi, sui gradini delle case dov’è stato girato il documentario. Ho chiesto loro se fosse il caso di avvicinarsi al cancello della vicina colonia israeliana di Karmel. Hanno scosso la testa. Ho proposto di filmare la scavatrice che lavorava a fianco delle loro case. «Meglio di no, non sai come possono reagire i coloni».
E come possono mai reagire i cittadini di uno Stato democratico? Sono soggetti a una magistratura indipendente, se qualcuno sbaglia, paga.
Il sistema lo punisce. O no? La risposta è stata senza appello.
«Sono coloni, liberi di fare quel che vogliono. Rubano le pecore, le avvelenano, tagliano gli alberi, sradicano i nostri orti. Potrebbero anche spararti». Avevano ragione. Tempo tre ore dalla mia partenza dal villaggio di Um-al-Khair e il colono che stava lavorando alla scavatrice che volevo filmare ha affrontato i palestinesi che contestavano l’invasione della loro terra.
Lo si vede in diversi filmati diffusi sui social dagli attivisti. È in borghese, ha una pistola di grosso calibro nella mano destra, si avvicina minaccioso. Urla, alza l’arma e spara ad altezza d’uomo. Ricomincia a urlare, fa qualche passo a destra, e sempre senza che nessuno gli si avvicini, spara ancora.
Uno degli attivisti che compaiono nel film, Awdah Hathaleen, è colpito al petto e muore. Aveva appena lanciato un allarme sui social: «I coloni stanno scavando per tagliare la nostra acqua, aiutateci». Il co-regista palestinese, Basel Adra, che abita a 5 minuti di auto, ha commentato così la morte dell’amico: «Ci cancellano, una vita alla volta».
Il colono con la pistola era già famoso per la sua aggressività. Si chiama Yinon Levi. È stato fermato dalla polizia, ma non ancora incriminato. Levi era stato messo sotto sanzioni dal presidente americano Joe Biden, ma tolto dalla lista nera da Donald Trump. Sono almeno mille i palestinesi di Cisgiordania uccisi dai coloni israeliani dal 7 ottobre 2023.
Raramente qualcuno di loro è stato condannato. Invocano la legittima difesa, ma mentre i coloni girano pesantemente armati, con fucili da guerra a tracolla e persino gli adolescenti pascolano le pecore con le pistole alla cintura, i palestinesi non mostrano mai armi.
In questo caso, poi, i video paiono inequivocabili. Disarmati che protestano e Levi che spara ad altezza uomo.
Al villaggio di Um-al-Khair erano presenti anche diversi attivisti occidentali, compreso l’italiano Andrea Alberizzi. «La scopo dei coloni è rendere la via dei palestinesi così difficile che decideranno di andarsene» dice.
«Ci sono tanti modi che hanno escogitato per rubarci la terra in punta di diritto — spiega uno dei palestinesi più adulti, il nome è meglio resti nel taccuino —. Possono sostenere che un’area è vicina ai loro insediamenti e quindi, per sicurezza deve essere
abbandonata.
Poi però la coltivano e l’“area di sicurezza” dovrà allargarsi. Altre volte espropriano nostre case per cercare tracce archeologiche di antichi ebrei. Ovviamente attorno agli scavi non possono vivere palestinesi, ma ebrei sì. Quindi passati tre anni, quel terreno diventa statale in base a un’antica legge ottomana e Israele lo concede, guarda caso, ai coloni, mai ai palestinesi».
Il fatto che questa sia Cisgiordania e quindi in teoria sottoposta all’autorità palestinese è una fandonia. «Siamo in Area C — spiega un altro attivista palestinese che lasciamo anonimo —, come quasi il 70% della Cisgiordania. Significa che polizia, magistratura e leggi sono israeliane. Noi non siamo cittadini, neanche di serie B, solo ospiti sgraditi a casa nostra».
(da Corriere della Sera)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
È UN TENTATIVO MALDESTRO DI SPOSTARE L’ATTENZIONE. LA CORTE D’APPELLO DI ROMA AVEVA ESPLICITAMENTE CHIESTO UN CONFRONTO CON VIA ARENULA, E IL CAPO DIPARTIMENTO LUIGI BIRRITTERI GIÀ DOMENICA 19 GENNAIO – IL GIORNO STESSO DELLA CATTURA DI ALMASRI – AVEVA FATTO PRESENTE CHE SERVIVA UN “ATTO URGENTE” DEL MINISTRO
Lunedì l’ambasciatore italiano nei Paesi Bassi Augusto Massari ha inviato all’Aja le
ennesime controdeduzioni alle accuse della procura della Cpi, che a giugno ha chiesto il deferimento del governo di Roma al consiglio di sicurezza dell’Onu.
Il primo punto che il diplomatico mette in risalto riguarda «il controllo autonomo e indipendente dell’autorità giudiziaria sulla regolarità dell’arresto». Così si vorrebbe spiegare il non intervento di Nordio, la cui mancata interlocuzione con la Corte d’appello di Roma ha portato alla scarcerazione del boia libico il 21 gennaio scorso.
Questo perché un’interpretazione piuttosto elastica della legge numero 237 del 2012 avrebbe permesso ai giudici di convalidare in autonomia l’arresto di Osama Almasri, a riprova della «buona fede degli organi esecutivi, in particolare del ministero della Giustizia».
Insomma, se non era necessario il suo intervento, perché prendersela con il ministro? Casomai è colpa dei giudici.
Ma la questione in realtà è più complessa, anche perché la Corte d’appello di Roma aveva esplicitamente chiesto un confronto con via Arenula, dove peraltro l’allora capo del Dipartimento affari di giustizia Luigi Birritteri già domenica 19 gennaio – il giorno stesso della cattura di Almasri – aveva fatto presente che serviva un «atto urgente» di Nordio.
La capa di gabinetto Giusi Bartolozzi rispose che la vicenda era già nota (a lei e verosimilmente anche al ministro), richiedendo poi «massima riservatezza» nel trattarla. Comunque, prosegue Massari nella sua nota, «si deve notare che le autorità esecutive competenti non hanno interferito in alcun modo con la procedura di convalida dell’arresto».
Ci sarebbe poi un altro «malinteso», e cioè che «l’Italia avrebbe giustificato la mancata consegna di Almasri solo sulla base di
una richiesta di estradizione concorrente dalla Libia».
Non p così sostiene l’ambasciatore, perché «la richiesta di estradizione concorrente costituiva un ulteriore elemento di complessità nell’esame della richiesta di cooperazione» e questo avrebbe «impedito al governo di completare le sue valutazioni prima dell’adozione da parte della Corte d’Appello di Roma della sua decisione».
C’è un problema di date: la Libia aveva inviato la sua richiesta il 20 gennaio, ma la Cpi ha reso pubbliche le sue carte solo il 24. Come facevano a sapere del caso? Probabilmente la valutazione a Tripoli è stata fatta sulla base delle informazioni dell’Interpol. Sia come sia questo elemento «fattuale e non giuridico» avrebbe reso il quadro ancora più complicato di quanto già fosse. Del resto il caso Almasri «è stato per l’Italia la prima applicazione dello Statuto di Roma in relazione a una richiesta di cooperazione nell’esecuzione di un mandato di arresto contro una persona presente sul territorio dello Stato».
Segue la ripetizione di quanto già detto da Nordio quando a febbraio andò prima alla Camera e poi al Senato a cercare di spiegare cosa fosse accaduto: il mandato della Cpi «conteneva diverse incertezze riguardo agli elementi chiave dei presunti crimini». Il che è vero – infatti in seguito i documenti sarebbero stati rivisti all’Aja, precisando meglio soprattutto le date dei crimini commessi dall’aguzzino di Tripoli ma non spiega perché, come da prassi e raccomandazioni, nessuno al ministero abbia pensato di fare un colpo di telefono all’Aja per avere un confronto
I recapiti erano già in calce ai documenti ricevuti sabato 18 dal magistrato di collegamento in Olanda. L’ultimo tentativo di chiarimento di Massari riguarda il volo di stato che ha riportato Almasri sano e salvo a Tripoli. Perché il mezzo era già in movimento dalla mattina?
Risposta: perché gli accompagnatori di Almasri erano stati liberati già lunedì 20 e dunque «era praticamente ed economicamente ragionevole attendere anche la decisione di convalida giudiziaria» anche per lui.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
“NEGLI ULTIMI 20 ANNI LA COMMISSIONE HA PERSO POTERE IN MODO VERTICALE, MA C’È MODO E MODO DI AFFRONTARE UNA TRATTATIVA COSÌ DURA. E PER DEFINIRE IL MODO SBAGLIATO DI AFFRONTARLA, NON USEREI UN TERMINE INGLESE MA UN DETTO CALABRESE: “CHI PECORA SI FA, IL LUPO SE LO MANGIA”
Nel gran tumulto sui dazi, di ora in ora i commenti sul “cedimento” europeo si fanno sempre più fiammeggianti e dal suo ritiro di Bebbio Romano Prodi racconta di aver ripensato ad una vicenda dimenticata ma a suo tempo assai rilevante: «Uno degli ultimi atti della Commissione da me presieduta fu la multa di 497,2 milioni di euro ad un’impresa di grande rilevanza come Microsoft per violazione delle leggi europee sulla concorrenza».
Una multa di una entità senza precedenti, la più alta mai comminata ad un’impresa privata. In quella occasione, – a parere di Prodi – «gettammo, assieme a Mario Monti, le basi per una dottrina e una prassi antitrust, ma se penso a quanto è accaduto dopo e fino ai giorni nostri dico: quanti passi indietro abbiamo fatto!». Un passato “grintoso” e un presente segnato dalla sconfitta sui dazi, una striscia che Prodi sintetizza così: «Difficile far politica, se si cede al potente fino ad umiliarsi».
In tempi di memoria sempre più corta, la vicenda di Microsoft potrebbe apparire un frammento lontano e invece si trattò di una storia esemplare che avrebbe potuto fare scuola e nella qual
l’Europa si mostrò un soggetto politico capace di far rispettare regole severe ad una impresa potentissima che aveva le radici nel Paese più importante del mondo.
Ricorda Prodi: «Realizzammo una operazione ben congegnata, che scattò all’ultimo momento. Dissi che data la delicatezza politica del tema concorrenza e la complessità tecnica della materia, serviva un commissario competente e Monti era decisamente il più competente. Come dimostrò con evidenza nel suo mandato».
Ma l’istruttoria su Microsoft si rivelò ricca di difficoltà e ripercorsa oggi appare assai interessante perché è l’ultimo segnale di resistenza, perché precede di poco il cambiamento radicale della dottrina antitrust negli Stati Uniti, una dottrina che ha spianato la strada ad un mercato nel quale cinque società dominano intere filiere di business, buona parte della capitalizzazione della Borsa americana e in Europa godono di un regime fiscale a dir poco vantaggioso. Difeso a tutti i costi dal presidente Trump.
Allora le indagini della Commissione europea su Microsoft durarono ben 5 anni e nel marzo 2004 Mario Monti annunciò che l’azienda aveva violato le leggi europee sulla concorrenza e aveva approfittato del suo quasi-monopolio nel mercato dei sistemi operativi per rafforzarsi anche su altri mercati.
La tenacia e la competenza di colui che “Economist” aveva battezzato come “SuperMario” fu messa a dura prova dalla strategia negoziale di Microsoft che dopo aver presentato ricorso
alla Corte di prima istanza del Lussemburgo, provò a tutti i costi ad evitare la sanzione: pochi giorni prima del verdetto l’amministratore delegato dell’azienda aveva presentato una proposta assai allettante e come ha scritto di recente Monti a quel punto,
«la soluzione a basso rischio, quella che avrebbe comportato applausi da tutta la stampa, dai governi e dalle imprese, sarebbe stata accettare», tanto più che «un’azienda della portata di Microsoft poteva attivare sulla Commissione una efficace rete di influenza e pressione: dalla Nato alla polizia irlandese, dal ministero degli Interni tedesco all’esercito francese».
Ricorda Prodi: «All’interno della Commissione avevamo fatto una disamina molto profonda della questione sulla base dell’istruttoria opportunamente pignola di Monti e alla fine convenimmo di dare seguito alle norme antitrust che derivavano da una dottrina di scuola americana».
La proposta di mediazione di Microsoft venne lasciata cadere e i Tribunali dettero ragione alla Commissione.
Il rammarico di Prodi semmai è un altro: «In quella vicenda tenemmo duro, perché mia convinzione era che se non mettevamo un freno agli aspetti patologici della concorrenza, non avremmo avuto una vera concorrenza. Dobbiamo prendere atto che i passi avanti fatti allora non si sono più ripetuti, tanto è vero che di recente l’Europa non è riuscita ad imporre quel minimo di giusta imposta ai grandi oligopolisti».
Ovviamente lo smottamento nella trattativa sui dazi importi dal
presidente degli Stati Uniti ha tante ragioni e Romano Prodi, da ex presidente della Commissione ed ex capo del governo italiano, fa due osservazioni strutturali.
«Da una parte c’è da dire che negli ultimi 20 anni la Commissione ha perso potere in modo verticale, ma in ogni caso c’è modo e modo di affrontare una trattativa così dura. E per definire il modo sbagliato di affrontarla, non userei un termine inglese ma un detto calabrese: “chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”».
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
L’AMBASCIATORE STEFANINI: “L’ANNUNCIO RIMETTE SUL TAVOLO INTERNAZIONALE LA SOLUZIONE DUE STATI. O ISRAELE RIAPRE LA “LUNGA PROSPETTIVA” DEI DUE STATI (E SI RIENTRA NELLA DINAMICA DEGLI ACCORDI DI OSLO DEL 1993), OPPURE GERUSALEMME SI VEDRA IMPOSTO IL RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALMENTE, SIMBOLICO MA OSTICO, FORIERO DI TENSIONI E IRRITAZIONI CON EUROPA E MONDO ARABO”
Anche Londra, come Parigi, riconoscerà lo Stato della Palestina all’Assemblea Generale
dell’Onu. A meno che Israele non cambi rotta a Gaza e riavvii, pur a lungo termine, il processo di pace verso la soluzione due Stati.
L’annuncio di Keir Starmer non è un fulmine a ciel sereno. Era nell’aria. Solo i ciechi non lo vedevano arrivare. Il riconoscimento annunciato risponde, in ferrea logica di politica
estera franco-britannica, all’abbandono, da parte del governo Netanyahu, dell’impegno preso nel 1993 con gli accordi di Oslo di creazione di uno Stato palestinese
Netanyahu non l’ha mai detto esplicitamente – alcuni suoi ministri sì – ma mostra di voler tenere Gaza sotto occupazione mentre gira la testa dall’altra parte di fronte alle violenze dei coloni in Cisgiordania. In gergo giuridico si qualificherebbe come “comportamento concludente”: niente più due Stati.
Che hanno due grandi nemici: in Israele, i partiti pro-coloni dai quali dipende la coalizione di governo; in Palestina, Hamas e compagni terroristi.
Il corollario di Oslo era che il riconoscimento internazionale della Palestina avvenisse dopo quello israeliano. Finora rispettato dalla grande maggioranza dei Paesi occidentali ed europei, malgrado il lungo stallo – con grossissime responsabilità palestinesi, specie di Yasser Arafat – del processo di pace.
Netanyahu aveva messo in naftalina il negoziato con i palestinesi mantenendo però l’obiettivo dei “due Stati”. Almeno a parole. Visto che adesso lo ignora, con l’alibi della strage del 7 ottobre ma sullo sfondo dello scempio umanitario di Gaza – che gli vale anche una rara censura di Donald Trump – Francia e Regno Unito, i due membri permanenti europei del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, annunciano il riconoscimento della Palestina. Non subito. Fra un mese e mezzo.
Israele (Netanyahu) se l’è andato a cercare. Può ancora far
marcia indietro. Il riconoscimento non ci sarà se Israele riapre la prospettiva – “di lungo periodo”, Londra e Parigi sanno benissimo che il trauma dell’eccidio del 7 ottobre è un macigno che non si rimuove in fretta – dei due Stati. L’annuncio rimette così sul tavolo internazionale la soluzione due Stati.
O lo fa Israele, ed evita il riconoscimento – e si rientra nella dinamica di Oslo, nonché degli accordi di Abramo, Riad chiede solo un “orizzonte” di Stato palestinese – o Gerusalemme se lo vede imposto internazionalmente, simbolico ma ostico, sgradito e foriero di tensioni e irritazioni con Europa e mondo arabo che è pronto a Israele come partner regionale.
A Israele la scelta. A Netanyahu o a chi per lui – in caso di crisi di governo ed elezioni i riconoscimenti sarebbero facilmente sospesi. Agli altri Paesi europei, in particolare a Germania e Italia, la scelta se allinearsi alla linea franco-britannica o temporeggiare. Su Berlino pesa la storia.
Su Roma la cronica sindrome d’indecisione. Se riconosceremo in ritardo, magari dopo la Germania, ci guadagneremo poca gratitudine palestinese e, naturalmente, zero israeliana.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
MACRON HA POSTO A URSULA VON DER LEYEN TRE DOMANDE: 1) HAI PARLATO CON TRUMP DELLA WEB TAX? 2) CHI FIRMERÀ L’ACCORDO MONSTRE PER L’ACQUISTO DI 750 MILIARDI IN ENERGIA USA? 3) CHE FINE FANNO I CONTRATTI GIÀ FIRMATI CON ALGERIA, QATAR, AZERBAIGIAN? LI STRACCIAMO?
In molti hanno notato il silenzio di Emmanuel Macron dopo l’accordo tra Ursula von der Leyen e Donald Trump sui dazi all’Europa al 15%.
Macron, pur essendo stato il fautore della linea dura contro gli Usa (in opposizione al duo “dialogante”, Meloni-Merz), ha taciuto, nonostante in Francia si sia scatenata una ridda di proteste e critiche all’intesa sulle tariffe.
Si è esposto in modo molto critico il primo ministro, Francois Bayrou (“È un giorno buio quello in cui un’alleanza di persone libere, unite per affermare i loro valori e difendere i loro interessi, finisce per sottomettersi”), a cui hanno fatto eco tutti i leader dell’opposizione, da Marine Le Pen e Jordan Bardella, fino al sinistrato Jean-Luc Melenchon.
Macron, che aveva addirittura evocato la vendita del debito pubblico americano nelle mani dell’Ue quando Trump ha imposto dazi al 30%, ha preferito mantenere un profilo basso per interloquire direttamente, in maniera riservata, con la Presidente della Commissione europea, a cui ha fatto pervenire tre
domande: 1.Tu e Trump avete discusso della web tax? La Commissione europea ha preso in considerazione, dunque, l’ipotesi di tassare le big tech americane?
2.L’accordo per l’acquisto di 750 miliardi in fonti energetiche americane, da parte dell’Unione europea, da chi verrà finalizzato? Dalla Commissione? O dagli Stati? E se sì, quali?
La domanda non è peregrina, visto che non solo il gas americano costa mediamente il 10-20% in più di quello che l’Ue acquista altrove, ma anche perché la quantità di denaro in gioco è gigantesca e senza senso (come riportava ieri Federico Fubini sul “Corriere della Sera”, ). senza contare che sarà impossibile per Bruxelles controllare dove ogni singolo Paese decide di acquistare le sue forniture energetiche.
3.Se anche decidessimo di affidarci completamente alle fonti energetiche americane, dismettendo anche l’ultima quota di gas russo che ancora acquistiamo (nel 2024, l’Europa ha importato 52 miliardi di metri cubi di metano da Putin, pari a circa 8 miliardi di euro), che fine fanno i contratti pluriennali già firmati, per esempio, dall’Italia, con Algeria, Qatar, Nigeria, Azerbaigian e Qatar?
E cosa accadrà in alcuni di questi Paesi, come l’Algeria, che ha uno storico rapporto di vicinanza alla Francia, della quale è una importante ex colonia, quando verranno a mancare i soldi delle nostre forniture?
Prima di esporsi pubblicamente con un comunicato, un discorso o una lettera ai giornali, Macron aspetta da Ursula risposte piùchiare su questi temi.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
PER MESI GIORGETTI AVEVA NEGATO CHE AVREMMO CHIESTO I PRESTITI SAFE
L’Italia chiederà di accedere ai prestiti Safe messi a disposizione dall’Ue nell’ambito del
programma ReArm Europe per aumentare le spese militari. È quanto avrebbe deciso il governo Meloni in un vertice nella tarda serata di martedì, secondo quanto riportano questa mattina diversi quotidiani. Per mesi l’esecutivo – per bocca in primis del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – era rimasto freddo sull’idea di aumentare l’indebitamento estero per l’aumento delle spese militari reso indifferibile dagli shock geopolitici. La stessa premier Giorgia Meloni nel firmare l’impegno all’aumento delle spese in difesa sino al 5% al vertice Nato dell’Aja aveva assicurato che «non un euro sarà tolto al welfare». I nodi sul come far quadrare i conti sono però venuti al pettine e, complice la scadenza per richiedere alla Commissione Ue di accedere a Safe (alla mezzanotte di oggi, 30 luglio), l’esecutivo pare aver rotto gli indugi. Rientrata dal vertice sulla sicurezza alimentare in Etiopia, Meloni ha riunito i suoi ministri e più stretti consiglieri: per fare il punto sull’impatto dei dazi Usa, certo, ma anche per dare il via libera alla richiesta di prestiti per spese militari.
Le richieste del governo all’Ue e il nodo del debito pubblico.
Secondo Repubblica la lettera del governo alla Commissione con la richiesta sarebbe stata inviata nella notte: si attendono ora comunicazioni ufficiali da parte dell’esecutivo sui contenuti. Fonti di Palazzo Chigi hanno fatto filtrare però che si punterebbe a «prenotare» sino a 14 miliardi di euro di fondi per i prossimi 5 anni: prestiti da ripagare con rate diluite entro 45 anni. Il tutto, si precisa, non dovrebbe impattare sul Patto di stabilità. Altrimenti detto, il governo non dovrebbe richiedere contestualmente l’attivazione della clausola di salvaguardia sul rispetto delle regole Ue su debito e deficit. Resta da capire come ciò sarà possibile, anche nel quadro della prossima legge di bilancio. La Commissione stessa d’altronde ieri aveva fatto capire che all’approssimarsi della scadenza diversi Paesi avrebbero rotto gli indugi e chiesto di attivare i prestiti Safe, oltre ai 9 che già lo hanno fatto nei mesi scorsi, ossia Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Spagna, Finlandia, Lituania, Repubblica Ceca, Spagna e Ungheria. Nel complesso, sono 150 miliardi di euro i fondi che l’Ue ha stanziato per Safe nell’ambito del programma di riarmo (poi ribattezzato “Readiness Europe”) presentato lo scorso marzo da Ursula von der Leyen e poi adottato dai 27 Stati membri.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile
MA I MARGINI PER CORREGGERE LE CONCESSIONI POLITICHE SONO MINIMI
L’accordo non è giuridicamente vincolante». Almeno non per ora. Ma lo è politicamente. L’intesa sui dazi sta spaccando l’Unione europea e la Commissione corre ai ripari tentando di limitare la propaganda vittoriosa di Donald Trump. E lo fa sottolineando che molti aspetti vanno ancora concordati e che diversi annunci della Casa Bianca sono a dir poco imprecisi: dagli acquisti di armi a quelli di gas, dai farmaci agli alcolici.
Così ieri mattina Palazzo Berlaymont ha pubblicato una sorta di nota informativa che presenta diverse discrepanze rispetto a quella presentata da Washington. Ma si tratta di “contromosse” volte solo a non confermare pubblicamente la vittoria schiacciante di Trump e giocate su un’ambiguità: ossia l’assenza di un vincolo giuridico che occulta il vincolo politico. È evidente che la piattaforma euro-americana dovrà essere ratificata a Bruxelles come minimo in Consiglio, attraverso una proposta legislativa, ma nello stesso tempo nessuno immagina di poterla rimettere in discussione. Entro dopodomani ci sarà una dichiarazione formale congiunta che di fatto incardinerà
legalmente l’accordo e sarà lo strumento per bloccare le tariffe al 30% che sarebbero scattate dal primo agosto. E per molti settori andrà anche successivamente specificata la tariffa, compresi quelli senza dazi a partire dagli aerei e dall’alcol su cui è in corso il tentativo di iscrizione alla lista “zero”.
Ma quali sono i punti su cui sta emergendo una distanza formale tra le due sponde? Il primo è la “Web Tax”. Il presidente americano ha detto esplicitamente che non ci sarà. Nella nota europea questo impegno non è contemplato. «Non cambiamo le nostre regole e il nostro diritto di regolamentare autonomamente lo spazio digitale», è stata invece la risposta di un portavoce della Commissione. Una formula che non smentisce gli Usa ma con una “excusatio non petita” ribadisce la possibilità di adottare leggi.
Poi ci sono gli standard fitosanitari, quelli relativi a prodotti agricoli e alimentari (in primo luogo la carne). Da tempo Washington insiste per esportare in Ue anche cibo trattato con additivi chimici non legali nel Vecchio continente (antibiotici e non solo) e per gli States, appunto, le due parti «collaboreranno per affrontare le barriere non tariffarie che incidono sul commercio dei prodotti alimentari e agricoli, compresa la semplificazione dei requisiti relativi ai certificati sanitari per i prodotti lattiero-caseari e suini statunitensi». Bruxelles si riferisce invece solo alla «cooperazione in materia di norme automobilistiche e misure sanitarie e fitosanitarie» e di «facilitazione del riconoscimento reciproco delle valutazioni di
conformità in ulteriori settori industriali». «Non toccheremo le nostre regole sul digitale o gli standard fitosanitari – insiste la Commissione -, che hanno richiesto decenni per essere costruiti e di cui i nostri cittadini si fidano».
Secondo l’Unione, poi, sull’acciaio e l’alluminio verranno previste delle quote in base alle quali si potrà modulare e ridurre il dazio del 50%. Ipotesi non prevista in America. Altri due punti controversi riguardano i farmaci e i chip (fondamentali per i beni tecnologici). Per l’Ue, il tetto del 15% riguarderà anche questi settori. Ma per ora l’indicazione deve essere confermata da Trump.
Anche i due “vincoli”, fondamentali per il tycoon, si stanno giocando sull’ambiguità europea. Il leader statunitense ha annunciato che l’Europa comprerà 750 miliardi di dollari di energia americana e 600 miliardi di armi. Il problema è che in entrambi i casi la competenza è nazionale e non comunitaria. A parte il fatto che l’anno scorso l’Ue ha speso in totale per prodotti energetici poco più di 300 miliardi di euro e quindi arrivare a quella soglia – anche in un triennio – è complicatissimo, in ogni caso sono i singoli Paesi a doversi impegnare. Come per le armi. Ma come per tutto il resto, il vincolo politico è molto più forte del vincolo giuridico dietro il quale la Commissione si sta nascondendo.
(da repubblica.it)
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