Destra di Popolo.net

IL GOVERNO TENTA UN PATETICO GIOCO DELLE TRE CARTE SUL CASO ALMASRI: PER GIUSTIFICARE IL MANCATO INTERVENTO DEL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, CARLO NORDIO, IL GOVERNO METTE IN DISCUSSIONE L’AUTORITÀ DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE SUL “CONTROLLO DELL’AUTORITÀ GIUDIZIARIA SULLA REGOLARITÀ DELL’ARRESTO”

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

È UN TENTATIVO MALDESTRO DI SPOSTARE L’ATTENZIONE. LA CORTE D’APPELLO DI ROMA AVEVA ESPLICITAMENTE CHIESTO UN CONFRONTO CON VIA ARENULA, E IL CAPO DIPARTIMENTO LUIGI BIRRITTERI GIÀ DOMENICA 19 GENNAIO – IL GIORNO STESSO DELLA CATTURA DI ALMASRI – AVEVA FATTO PRESENTE CHE SERVIVA UN “ATTO URGENTE” DEL MINISTRO

Lunedì l’ambasciatore italiano nei Paesi Bassi Augusto Massari ha inviato all’Aja le ennesime controdeduzioni alle accuse della procura della Cpi, che a giugno ha chiesto il deferimento del governo di Roma al consiglio di sicurezza dell’Onu.
Il primo punto che il diplomatico mette in risalto riguarda «il controllo autonomo e indipendente dell’autorità giudiziaria sulla regolarità dell’arresto». Così si vorrebbe spiegare il non intervento di Nordio, la cui mancata interlocuzione con la Corte d’appello di Roma ha portato alla scarcerazione del boia libico il 21 gennaio scorso.
Questo perché un’interpretazione piuttosto elastica della legge numero 237 del 2012 avrebbe permesso ai giudici di convalidare in autonomia l’arresto di Osama Almasri, a riprova della «buona fede degli organi esecutivi, in particolare del ministero della Giustizia».
Insomma, se non era necessario il suo intervento, perché prendersela con il ministro? Casomai è colpa dei giudici.
Ma la questione in realtà è più complessa, anche perché la Corte d’appello di Roma aveva esplicitamente chiesto un confronto con via Arenula, dove peraltro l’allora capo del Dipartimento affari di giustizia Luigi Birritteri già domenica 19 gennaio – il giorno stesso della cattura di Almasri – aveva fatto presente che serviva un «atto urgente» di Nordio.
La capa di gabinetto Giusi Bartolozzi rispose che la vicenda era già nota (a lei e verosimilmente anche al ministro), richiedendo poi «massima riservatezza» nel trattarla. Comunque, prosegue Massari nella sua nota, «si deve notare che le autorità esecutive competenti non hanno interferito in alcun modo con la procedura di convalida dell’arresto».
Ci sarebbe poi un altro «malinteso», e cioè che «l’Italia avrebbe giustificato la mancata consegna di Almasri solo sulla base di
una richiesta di estradizione concorrente dalla Libia».
Non p così sostiene l’ambasciatore, perché «la richiesta di estradizione concorrente costituiva un ulteriore elemento di complessità nell’esame della richiesta di cooperazione» e questo avrebbe «impedito al governo di completare le sue valutazioni prima dell’adozione da parte della Corte d’Appello di Roma della sua decisione».
C’è un problema di date: la Libia aveva inviato la sua richiesta il 20 gennaio, ma la Cpi ha reso pubbliche le sue carte solo il 24. Come facevano a sapere del caso? Probabilmente la valutazione a Tripoli è stata fatta sulla base delle informazioni dell’Interpol. Sia come sia questo elemento «fattuale e non giuridico» avrebbe reso il quadro ancora più complicato di quanto già fosse. Del resto il caso Almasri «è stato per l’Italia la prima applicazione dello Statuto di Roma in relazione a una richiesta di cooperazione nell’esecuzione di un mandato di arresto contro una persona presente sul territorio dello Stato».
Segue la ripetizione di quanto già detto da Nordio quando a febbraio andò prima alla Camera e poi al Senato a cercare di spiegare cosa fosse accaduto: il mandato della Cpi «conteneva diverse incertezze riguardo agli elementi chiave dei presunti crimini». Il che è vero – infatti in seguito i documenti sarebbero stati rivisti all’Aja, precisando meglio soprattutto le date dei crimini commessi dall’aguzzino di Tripoli ma non spiega perché, come da prassi e raccomandazioni, nessuno al ministero abbia pensato di fare un colpo di telefono all’Aja per avere un confronto
I recapiti erano già in calce ai documenti ricevuti sabato 18 dal magistrato di collegamento in Olanda. L’ultimo tentativo di chiarimento di Massari riguarda il volo di stato che ha riportato Almasri sano e salvo a Tripoli. Perché il mezzo era già in movimento dalla mattina?
Risposta: perché gli accompagnatori di Almasri erano stati liberati già lunedì 20 e dunque «era praticamente ed economicamente ragionevole attendere anche la decisione di convalida giudiziaria» anche per lui.
(da agenzie)

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“DIFFICILE FAR POLITICA, SE SI CEDE AL POTENTE FINO AD UMILIARSI”: ROMANO PRODI RIFILA STAFFILATE A URSULA PER LA CAPITOLAZIONE CON TRUMP SUI DAZI

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

“NEGLI ULTIMI 20 ANNI LA COMMISSIONE HA PERSO POTERE IN MODO VERTICALE, MA C’È MODO E MODO DI AFFRONTARE UNA TRATTATIVA COSÌ DURA. E PER DEFINIRE IL MODO SBAGLIATO DI AFFRONTARLA, NON USEREI UN TERMINE INGLESE MA UN DETTO CALABRESE: “CHI PECORA SI FA, IL LUPO SE LO MANGIA”

Nel gran tumulto sui dazi, di ora in ora i commenti sul “cedimento” europeo si fanno sempre più fiammeggianti e dal suo ritiro di Bebbio Romano Prodi racconta di aver ripensato ad una vicenda dimenticata ma a suo tempo assai rilevante: «Uno degli ultimi atti della Commissione da me presieduta fu la multa di 497,2 milioni di euro ad un’impresa di grande rilevanza come Microsoft per violazione delle leggi europee sulla concorrenza».
Una multa di una entità senza precedenti, la più alta mai comminata ad un’impresa privata. In quella occasione, – a parere di Prodi – «gettammo, assieme a Mario Monti, le basi per una dottrina e una prassi antitrust, ma se penso a quanto è accaduto dopo e fino ai giorni nostri dico: quanti passi indietro abbiamo fatto!». Un passato “grintoso” e un presente segnato dalla sconfitta sui dazi, una striscia che Prodi sintetizza così: «Difficile far politica, se si cede al potente fino ad umiliarsi».
In tempi di memoria sempre più corta, la vicenda di Microsoft potrebbe apparire un frammento lontano e invece si trattò di una storia esemplare che avrebbe potuto fare scuola e nella qual
l’Europa si mostrò un soggetto politico capace di far rispettare regole severe ad una impresa potentissima che aveva le radici nel Paese più importante del mondo.
Ricorda Prodi: «Realizzammo una operazione ben congegnata, che scattò all’ultimo momento. Dissi che data la delicatezza politica del tema concorrenza e la complessità tecnica della materia, serviva un commissario competente e Monti era decisamente il più competente. Come dimostrò con evidenza nel suo mandato».
Ma l’istruttoria su Microsoft si rivelò ricca di difficoltà e ripercorsa oggi appare assai interessante perché è l’ultimo segnale di resistenza, perché precede di poco il cambiamento radicale della dottrina antitrust negli Stati Uniti, una dottrina che ha spianato la strada ad un mercato nel quale cinque società dominano intere filiere di business, buona parte della capitalizzazione della Borsa americana e in Europa godono di un regime fiscale a dir poco vantaggioso. Difeso a tutti i costi dal presidente Trump.
Allora le indagini della Commissione europea su Microsoft durarono ben 5 anni e nel marzo 2004 Mario Monti annunciò che l’azienda aveva violato le leggi europee sulla concorrenza e aveva approfittato del suo quasi-monopolio nel mercato dei sistemi operativi per rafforzarsi anche su altri mercati.
La tenacia e la competenza di colui che “Economist” aveva battezzato come “SuperMario” fu messa a dura prova dalla strategia negoziale di Microsoft che dopo aver presentato ricorso
alla Corte di prima istanza del Lussemburgo, provò a tutti i costi ad evitare la sanzione: pochi giorni prima del verdetto l’amministratore delegato dell’azienda aveva presentato una proposta assai allettante e come ha scritto di recente Monti a quel punto,
«la soluzione a basso rischio, quella che avrebbe comportato applausi da tutta la stampa, dai governi e dalle imprese, sarebbe stata accettare», tanto più che «un’azienda della portata di Microsoft poteva attivare sulla Commissione una efficace rete di influenza e pressione: dalla Nato alla polizia irlandese, dal ministero degli Interni tedesco all’esercito francese».
Ricorda Prodi: «All’interno della Commissione avevamo fatto una disamina molto profonda della questione sulla base dell’istruttoria opportunamente pignola di Monti e alla fine convenimmo di dare seguito alle norme antitrust che derivavano da una dottrina di scuola americana».
La proposta di mediazione di Microsoft venne lasciata cadere e i Tribunali dettero ragione alla Commissione.
Il rammarico di Prodi semmai è un altro: «In quella vicenda tenemmo duro, perché mia convinzione era che se non mettevamo un freno agli aspetti patologici della concorrenza, non avremmo avuto una vera concorrenza. Dobbiamo prendere atto che i passi avanti fatti allora non si sono più ripetuti, tanto è vero che di recente l’Europa non è riuscita ad imporre quel minimo di giusta imposta ai grandi oligopolisti».
Ovviamente lo smottamento nella trattativa sui dazi importi dal
presidente degli Stati Uniti ha tante ragioni e Romano Prodi, da ex presidente della Commissione ed ex capo del governo italiano, fa due osservazioni strutturali.
«Da una parte c’è da dire che negli ultimi 20 anni la Commissione ha perso potere in modo verticale, ma in ogni caso c’è modo e modo di affrontare una trattativa così dura. E per definire il modo sbagliato di affrontarla, non userei un termine inglese ma un detto calabrese: “chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”».
(da agenzie)

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MACRON E STARMER METTONO SPALLE AL MURO NETANYAHU (E ANCHE MELONI) : CHE FARÀ “BIBI” ORA CHE FRANCIA E GRAN BRETAGNA SONO PRONTE A RICONOSCERE LO STATO PALESTINESE?

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

L’AMBASCIATORE STEFANINI: “L’ANNUNCIO RIMETTE SUL TAVOLO INTERNAZIONALE LA SOLUZIONE DUE STATI. O ISRAELE RIAPRE LA “LUNGA PROSPETTIVA” DEI DUE STATI (E SI RIENTRA NELLA DINAMICA DEGLI ACCORDI DI OSLO DEL 1993), OPPURE GERUSALEMME SI VEDRA IMPOSTO IL RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALMENTE, SIMBOLICO MA OSTICO, FORIERO DI TENSIONI E IRRITAZIONI CON EUROPA E MONDO ARABO”

Anche Londra, come Parigi, riconoscerà lo Stato della Palestina all’Assemblea Generale dell’Onu. A meno che Israele non cambi rotta a Gaza e riavvii, pur a lungo termine, il processo di pace verso la soluzione due Stati.
L’annuncio di Keir Starmer non è un fulmine a ciel sereno. Era nell’aria. Solo i ciechi non lo vedevano arrivare. Il riconoscimento annunciato risponde, in ferrea logica di politica
estera franco-britannica, all’abbandono, da parte del governo Netanyahu, dell’impegno preso nel 1993 con gli accordi di Oslo di creazione di uno Stato palestinese
Netanyahu non l’ha mai detto esplicitamente – alcuni suoi ministri sì – ma mostra di voler tenere Gaza sotto occupazione mentre gira la testa dall’altra parte di fronte alle violenze dei coloni in Cisgiordania. In gergo giuridico si qualificherebbe come “comportamento concludente”: niente più due Stati.
Che hanno due grandi nemici: in Israele, i partiti pro-coloni dai quali dipende la coalizione di governo; in Palestina, Hamas e compagni terroristi.
Il corollario di Oslo era che il riconoscimento internazionale della Palestina avvenisse dopo quello israeliano. Finora rispettato dalla grande maggioranza dei Paesi occidentali ed europei, malgrado il lungo stallo – con grossissime responsabilità palestinesi, specie di Yasser Arafat – del processo di pace.
Netanyahu aveva messo in naftalina il negoziato con i palestinesi mantenendo però l’obiettivo dei “due Stati”. Almeno a parole. Visto che adesso lo ignora, con l’alibi della strage del 7 ottobre ma sullo sfondo dello scempio umanitario di Gaza – che gli vale anche una rara censura di Donald Trump – Francia e Regno Unito, i due membri permanenti europei del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, annunciano il riconoscimento della Palestina. Non subito. Fra un mese e mezzo.
Israele (Netanyahu) se l’è andato a cercare. Può ancora far
marcia indietro. Il riconoscimento non ci sarà se Israele riapre la prospettiva – “di lungo periodo”, Londra e Parigi sanno benissimo che il trauma dell’eccidio del 7 ottobre è un macigno che non si rimuove in fretta – dei due Stati. L’annuncio rimette così sul tavolo internazionale la soluzione due Stati.
O lo fa Israele, ed evita il riconoscimento – e si rientra nella dinamica di Oslo, nonché degli accordi di Abramo, Riad chiede solo un “orizzonte” di Stato palestinese – o Gerusalemme se lo vede imposto internazionalmente, simbolico ma ostico, sgradito e foriero di tensioni e irritazioni con Europa e mondo arabo che è pronto a Israele come partner regionale.
A Israele la scelta. A Netanyahu o a chi per lui – in caso di crisi di governo ed elezioni i riconoscimenti sarebbero facilmente sospesi. Agli altri Paesi europei, in particolare a Germania e Italia, la scelta se allinearsi alla linea franco-britannica o temporeggiare. Su Berlino pesa la storia.
Su Roma la cronica sindrome d’indecisione. Se riconosceremo in ritardo, magari dopo la Germania, ci guadagneremo poca gratitudine palestinese e, naturalmente, zero israeliana.
(da agenzie)

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COME MAI EMMANUEL MACRON TACE DI FRONTE ALL’UMILIAZIONE EUROPEA CON TRUMP SUI DAZI?

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

MACRON HA POSTO A URSULA VON DER LEYEN TRE DOMANDE: 1) HAI PARLATO CON TRUMP DELLA WEB TAX? 2) CHI FIRMERÀ L’ACCORDO MONSTRE PER L’ACQUISTO DI 750 MILIARDI IN ENERGIA USA? 3) CHE FINE FANNO I CONTRATTI GIÀ FIRMATI CON ALGERIA, QATAR, AZERBAIGIAN? LI STRACCIAMO?

In molti hanno notato il silenzio di Emmanuel Macron dopo l’accordo tra Ursula von der Leyen e Donald Trump sui dazi all’Europa al 15%.
Macron, pur essendo stato il fautore della linea dura contro gli Usa (in opposizione al duo “dialogante”, Meloni-Merz), ha taciuto, nonostante in Francia si sia scatenata una ridda di proteste e critiche all’intesa sulle tariffe.
Si è esposto in modo molto critico il primo ministro, Francois Bayrou (“È un giorno buio quello in cui un’alleanza di persone libere, unite per affermare i loro valori e difendere i loro interessi, finisce per sottomettersi”), a cui hanno fatto eco tutti i leader dell’opposizione, da Marine Le Pen e Jordan Bardella, fino al sinistrato Jean-Luc Melenchon.
Macron, che aveva addirittura evocato la vendita del debito pubblico americano nelle mani dell’Ue quando Trump ha imposto dazi al 30%, ha preferito mantenere un profilo basso per interloquire direttamente, in maniera riservata, con la Presidente della Commissione europea, a cui ha fatto pervenire tre
domande: 1.Tu e Trump avete discusso della web tax? La Commissione europea ha preso in considerazione, dunque, l’ipotesi di tassare le big tech americane?
2.L’accordo per l’acquisto di 750 miliardi in fonti energetiche americane, da parte dell’Unione europea, da chi verrà finalizzato? Dalla Commissione? O dagli Stati? E se sì, quali?
La domanda non è peregrina, visto che non solo il gas americano costa mediamente il 10-20% in più di quello che l’Ue acquista altrove, ma anche perché la quantità di denaro in gioco è gigantesca e senza senso (come riportava ieri Federico Fubini sul “Corriere della Sera”, ). senza contare che sarà impossibile per Bruxelles controllare dove ogni singolo Paese decide di acquistare le sue forniture energetiche.
3.Se anche decidessimo di affidarci completamente alle fonti energetiche americane, dismettendo anche l’ultima quota di gas russo che ancora acquistiamo (nel 2024, l’Europa ha importato 52 miliardi di metri cubi di metano da Putin, pari a circa 8 miliardi di euro), che fine fanno i contratti pluriennali già firmati, per esempio, dall’Italia, con Algeria, Qatar, Nigeria, Azerbaigian e Qatar?
E cosa accadrà in alcuni di questi Paesi, come l’Algeria, che ha uno storico rapporto di vicinanza alla Francia, della quale è una importante ex colonia, quando verranno a mancare i soldi delle nostre forniture?
Prima di esporsi pubblicamente con un comunicato, un discorso o una lettera ai giornali, Macron aspetta da Ursula risposte piùchiare su questi temi.
(da agenzie)

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L’ITALIA CHIEDE ALL’UE I PRESTITI PER LE SPESE MILITARI, IL SI’ DI MELONI: !”14 MILIARDI IN 5 ANNI, MA NON TOCCHIAMO IL PATTO DI STABILITA’”

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

PER MESI GIORGETTI AVEVA NEGATO CHE AVREMMO CHIESTO I PRESTITI SAFE

L’Italia chiederà di accedere ai prestiti Safe messi a disposizione dall’Ue nell’ambito del programma ReArm Europe per aumentare le spese militari. È quanto avrebbe deciso il governo Meloni in un vertice nella tarda serata di martedì, secondo quanto riportano questa mattina diversi quotidiani. Per mesi l’esecutivo – per bocca in primis del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – era rimasto freddo sull’idea di aumentare l’indebitamento estero per l’aumento delle spese militari reso indifferibile dagli shock geopolitici. La stessa premier Giorgia Meloni nel firmare l’impegno all’aumento delle spese in difesa sino al 5% al vertice Nato dell’Aja aveva assicurato che «non un euro sarà tolto al welfare». I nodi sul come far quadrare i conti sono però venuti al pettine e, complice la scadenza per richiedere alla Commissione Ue di accedere a Safe (alla mezzanotte di oggi, 30 luglio), l’esecutivo pare aver rotto gli indugi. Rientrata dal vertice sulla sicurezza alimentare in Etiopia, Meloni ha riunito i suoi ministri e più stretti consiglieri: per fare il punto sull’impatto dei dazi Usa, certo, ma anche per dare il via libera alla richiesta di prestiti per spese militari.
Le richieste del governo all’Ue e il nodo del debito pubblico.
Secondo Repubblica la lettera del governo alla Commissione con la richiesta sarebbe stata inviata nella notte: si attendono ora comunicazioni ufficiali da parte dell’esecutivo sui contenuti. Fonti di Palazzo Chigi hanno fatto filtrare però che si punterebbe a «prenotare» sino a 14 miliardi di euro di fondi per i prossimi 5 anni: prestiti da ripagare con rate diluite entro 45 anni. Il tutto, si precisa, non dovrebbe impattare sul Patto di stabilità. Altrimenti detto, il governo non dovrebbe richiedere contestualmente l’attivazione della clausola di salvaguardia sul rispetto delle regole Ue su debito e deficit. Resta da capire come ciò sarà possibile, anche nel quadro della prossima legge di bilancio. La Commissione stessa d’altronde ieri aveva fatto capire che all’approssimarsi della scadenza diversi Paesi avrebbero rotto gli indugi e chiesto di attivare i prestiti Safe, oltre ai 9 che già lo hanno fatto nei mesi scorsi, ossia Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Spagna, Finlandia, Lituania, Repubblica Ceca, Spagna e Ungheria. Nel complesso, sono 150 miliardi di euro i fondi che l’Ue ha stanziato per Safe nell’ambito del programma di riarmo (poi ribattezzato “Readiness Europe”) presentato lo scorso marzo da Ursula von der Leyen e poi adottato dai 27 Stati membri.
(da agenzie)

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LA MOSSA DELLA DISPERAZIONE DI URSULA PER NON AMMETTERE DI ESSERE STATA UMILIATA DA TRUMP

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

MA I MARGINI PER CORREGGERE LE CONCESSIONI POLITICHE SONO MINIMI

L’accordo non è giuridicamente vincolante». Almeno non per ora. Ma lo è politicamente. L’intesa sui dazi sta spaccando l’Unione europea e la Commissione corre ai ripari tentando di limitare la propaganda vittoriosa di Donald Trump. E lo fa sottolineando che molti aspetti vanno ancora concordati e che diversi annunci della Casa Bianca sono a dir poco imprecisi: dagli acquisti di armi a quelli di gas, dai farmaci agli alcolici.
Così ieri mattina Palazzo Berlaymont ha pubblicato una sorta di nota informativa che presenta diverse discrepanze rispetto a quella presentata da Washington. Ma si tratta di “contromosse” volte solo a non confermare pubblicamente la vittoria schiacciante di Trump e giocate su un’ambiguità: ossia l’assenza di un vincolo giuridico che occulta il vincolo politico. È evidente che la piattaforma euro-americana dovrà essere ratificata a Bruxelles come minimo in Consiglio, attraverso una proposta legislativa, ma nello stesso tempo nessuno immagina di poterla rimettere in discussione. Entro dopodomani ci sarà una dichiarazione formale congiunta che di fatto incardinerà
legalmente l’accordo e sarà lo strumento per bloccare le tariffe al 30% che sarebbero scattate dal primo agosto. E per molti settori andrà anche successivamente specificata la tariffa, compresi quelli senza dazi a partire dagli aerei e dall’alcol su cui è in corso il tentativo di iscrizione alla lista “zero”.
Ma quali sono i punti su cui sta emergendo una distanza formale tra le due sponde? Il primo è la “Web Tax”. Il presidente americano ha detto esplicitamente che non ci sarà. Nella nota europea questo impegno non è contemplato. «Non cambiamo le nostre regole e il nostro diritto di regolamentare autonomamente lo spazio digitale», è stata invece la risposta di un portavoce della Commissione. Una formula che non smentisce gli Usa ma con una “excusatio non petita” ribadisce la possibilità di adottare leggi.
Poi ci sono gli standard fitosanitari, quelli relativi a prodotti agricoli e alimentari (in primo luogo la carne). Da tempo Washington insiste per esportare in Ue anche cibo trattato con additivi chimici non legali nel Vecchio continente (antibiotici e non solo) e per gli States, appunto, le due parti «collaboreranno per affrontare le barriere non tariffarie che incidono sul commercio dei prodotti alimentari e agricoli, compresa la semplificazione dei requisiti relativi ai certificati sanitari per i prodotti lattiero-caseari e suini statunitensi». Bruxelles si riferisce invece solo alla «cooperazione in materia di norme automobilistiche e misure sanitarie e fitosanitarie» e di «facilitazione del riconoscimento reciproco delle valutazioni di
conformità in ulteriori settori industriali». «Non toccheremo le nostre regole sul digitale o gli standard fitosanitari – insiste la Commissione -, che hanno richiesto decenni per essere costruiti e di cui i nostri cittadini si fidano».
Secondo l’Unione, poi, sull’acciaio e l’alluminio verranno previste delle quote in base alle quali si potrà modulare e ridurre il dazio del 50%. Ipotesi non prevista in America. Altri due punti controversi riguardano i farmaci e i chip (fondamentali per i beni tecnologici). Per l’Ue, il tetto del 15% riguarderà anche questi settori. Ma per ora l’indicazione deve essere confermata da Trump.
Anche i due “vincoli”, fondamentali per il tycoon, si stanno giocando sull’ambiguità europea. Il leader statunitense ha annunciato che l’Europa comprerà 750 miliardi di dollari di energia americana e 600 miliardi di armi. Il problema è che in entrambi i casi la competenza è nazionale e non comunitaria. A parte il fatto che l’anno scorso l’Ue ha speso in totale per prodotti energetici poco più di 300 miliardi di euro e quindi arrivare a quella soglia – anche in un triennio – è complicatissimo, in ogni caso sono i singoli Paesi a doversi impegnare. Come per le armi. Ma come per tutto il resto, il vincolo politico è molto più forte del vincolo giuridico dietro il quale la Commissione si sta nascondendo.
(da repubblica.it)

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RIFORME. LA PAROLA “SINISTRA” E’ ORMAI UNO SCIOGLI LINGUA, URGE UNA MORATORIA

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

QUANDO LE PAROLE DIVENTANO LISE E CONSUNTE, MOSTRANO L’USURA DEL TEMPO E’ MEGLIO CAMBIARLE

Quando le parole diventano lise e consunte, mostrano l’usura del tempo e i danni dell’uso scriteriato, è meglio cambiarle, o smettere di usarle. Se una parola vuol dire troppe cose, allora non vuole più dire niente, se chiunque può usarla a vanvera e interpretarla in un milione di modi, o tirarla di qua e di là a seconda della convenienza, finisce che genera solo confusione.
Direi che è il tempo di chiedere una moratoria di qualche anno sulla parola “Sinistra”, che risulta ormai la più grossa truffa in commercio dopo lo scioglipancia di Wanna Marchi, che almeno qualche speranza ai gonzi la dava, e la sinistra invece manco quello.
Basta una rapida occhiata all’eterna pochade italiana per rendersi conto di quanto sia intricata la matassa in un Paese dove si considera “di sinistra” Renzi, a volte persino Calenda, ma anche gli operai che chiedono il contratto scaduto da anni, ma anche i centri sociali, ma anche il Pd, sia quello di destra che quello di sinistra. È (sedicente) di sinistra Minniti che firma gli accordi con i libici perché tengano i migranti nei loro lager, e sono di sinistra le Ong che vanno a salvarli in mare quando quelli riescono a fuggire. È di sinistra chi ha scritto e votato il Jobs act, una legge contro i lavoratori, ed è di sinistra chi lo contesta, compresi i lavoratori, non tutti, perché molti, stufi di questo balletto delle millemila sinistre, hanno votato a destra.
Non passa giorno che qualcuno indichi questo o quello come fulgido esempio di sinistra, cosa che fanno soprattutto i furbetti della sinistra di destra. Esultanza scomposta a ogni passo, o dichiarazione, o decisione di leader che di sinistra non hanno nulla (per esempio Starmer, in Inghilterra, oggi bastonatissimo dai sondaggi dove si impone una sinistra vera, quella di Corbyn), e ieratica indicazione della via, sempre moderatissima, ovviamente. Dall’altra parte ci si arrampica sugli specchi per trovare parole più precise. Vera sinistra, oppure sinistra-sinistra,
oppure sinistra radicale. Non si sa più che fare per districare la matassa, ma ancora una volta ci pensa la sinistra rosé a risolvere il problema: generalmente chi dice cose di sinistra (o che un tempo sarebbero state sacrosantamente di sinistra, tipo ridurre le diseguaglianze, o migliorare la posizione delle classi meno abbienti) viene bollato come “populista” e morta lì. Altro vezzo divertente è di far seguire l’aggettivo “liberale” ad ogni parola di senso compiuto, per cui c’è una “sinistra” che continua a berciare di “democrazia liberale”, come se non essere liberali (parola superelastica, che va da Pinochet a Einaudi) impedisse di essere “di sinistra”. È di sinistra aiutare i ricchi, così staranno un po’ meglio i poveri, ed è di sinistra lottare per aumentare le tasse ai milionari. In parole povere è di sinistra tutto quanto fa costantemente a botte, in un testacoda perenne che genera mal di testa e giramenti di capo (oltre che di coglioni).
Si aggiunga che, secondo la destra, è di sinistra tutto quello che non è riconducibile direttamente alla destra, quindi abbiamo un Sala sindaco del cemento “di sinistra”, e comitati di inquilini che chiedono il diritto a un abitare decente, che però non possono opporsi troppo, cioè non possono essere troppo di sinistra, perché sennò “vince la destra”. In tutto questo trionfa l’imbarazzo e domina l’autoanalisi. Sei di sinistra? Boh, dipende.
Date retta, urge una moratoria, e intanto che si sviluppi la ricerca di altre parole, meno consunte, più sensate, meno scioglipancia alla Wanna Marchi.
Alessandro Robecchi
(da ilfattoquotidiano.it)

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DUE AUTOREVOLI ONG ISRAELIANE ACCUSANO IL GOVERNO NETANYAHU DI GENOCIDIO A GAZA

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

LE DENUNCE SI FONDANO SU TESTIMONIANZE DIRETTE, DATI VERIFICATI E ANALISI GIURIDICHE, CON BUONA PACE DI ANCORA CHI STA A DIFENDERE UN GOVERNO CRIMINALE

Due storiche organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicians for Human Rights – Israel (PHRI), hanno pubblicato due rapporti distinti che giungono alla stessa, inequivocabile conclusione: lo Stato di Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza, come definito dal diritto internazionale. È la prima volta che organizzazioni israeliane parlano apertamente di genocidio compiuto da Israele. Le accuse non si limitano però alla sola denuncia morale, ma si fondano su analisi giuridiche dettagliate, testimonianze raccolte sul campo, dati forniti da fonti indipendenti e documentazione di agenzie ONU, giornalisti investigativi e studiosi di diritto internazionale: “Israele sta agendo in modo coordinato per distruggere deliberatamente la società palestinese nella Striscia di Gaza”, scrive B’Tselem, “e sta commettendo un genocidio contro la popolazione palestinese”. Il rapporto parla di “massacro su vasta scala”, “condizioni di vita catastrofiche imposte intenzionalmente” e “intenzionalità espressa pubblicamente dai leader israeliani nel voler distruggere Gaza come società”.
Il rapporto delle Ong: “Attacco sistematico all’identità
palestinese”
Il rapporto di B’Tselem si apre con la condanna dell’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, definito “un’azione che ha incluso numerosi crimini di guerra e probabilmente crimini contro l’umanità”. Ma chiarisce fin da subito che la risposta israeliana non si è limitata alla repressione armata del nemico, né alla difesa della propria popolazione. È andata molto oltre.
Quella messa in atto da Israele, scrive l’organizzazione, è infatti un’azione militare che ha “causato la morte su larga scala sia con attacchi diretti, sia attraverso la creazione deliberata di condizioni di vita insostenibili, che continuano ad alzare il bilancio delle vittime”. Il documento parla di “danni fisici e mentali a un’intera popolazione”, “distruzione diffusa di infrastrutture civili”, “frantumazione del tessuto sociale”, “distruzione di scuole, università e siti culturali palestinesi”, ma anche di “arresti di massa, abusi sistematici e detenzioni extragiudiziali in prigioni che sono diventate campi di tortura”. Secondo B’Tselem, Israele ha imposto “la fame come metodo di guerra”, ha perseguito la “trasformazione della deportazione forzata in obiettivo dichiarato del conflitto” e ha condotto un “attacco sistematico all’identità palestinese”, inclusa la “distruzione deliberata dei campi profughi e lo smantellamento dell’UNRWA”.
Il genocidio in atto a Gaza è “intenzionale”
Il punto più dirompente del rapporto non è soltanto la descrizione della violenza esercitata, ma la sua qualificazione
giuridica. Secondo B’Tselem, Israele sta compiendo atti che configurano il crimine di genocidio così come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1948. Il rapporto non si limita a elencare le categorie previste dal diritto internazionale, come l’uccisione di membri di un gruppo o l’imposizione di condizioni di vita intese a causarne la distruzione, ma sostiene che le operazioni condotte da Israele corrispondono, punto per punto, a quelle fattispecie criminali: “Uccisioni di massa, danni fisici e mentali inflitti all’intera popolazione, distruzione deliberata delle condizioni di vita e creazione di un ambiente inabitabile: tutto questo costituisce genocidio secondo il diritto internazionale”, si legge.
Elemento cruciale per definire giuridicamente il genocidio è l’intenzionalità e anche su questo punto, il rapporto è netto: l’intento di distruggere la popolazione palestinese non sarebbe implicito o ipotetico, ma dichiarato. B’Tselem cita tra le prove le parole dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha definito i palestinesi “animali umani”, e il discorso del primo ministro Benjamin Netanyahu che ha invocato la guerra contro “Amalek”, riferimento biblico al popolo che Dio ordinò di sterminare senza lasciar superstiti. A queste si aggiungono, secondo B’Tselem, numerose altre dichiarazioni pubbliche di ministri, ufficiali dell’esercito, opinionisti e giornalisti israeliani che esprimono esplicitamente l’obiettivo di cancellare Gaza e il suo popolo
Le testimonianze: Gaza come laboratorio del collasso umanitario
Il rapporto include poi testimonianze dirette da parte dei sopravvissuti a bombardamenti e sfollamenti forzati. Tra queste, la storia di Muhammad Ghrab, residente a Gaza City, poi rifugiatosi a Muwasi, dove ha assistito al bombardamento del 13 luglio 2024. Israele ha dichiarato che l’attacco mirava a due comandanti militari di Hamas, tra cui Muhammad Deif. Ma i fatti, che il rapporto cita, parlano di ben altro: 90 morti, 300 feriti, una scena “apocalittica”. “Improvvisamente si è formata una corona di fuoco intorno a noi. Il cielo era coperto da polvere e fumo. Quando siamo entrati nei tendoni rimasti in piedi, abbiamo trovato solo corpi. Era una visione dell’inferno, un orrore che non si può descrivere. È da quel giorno che vivo nell’attesa di morire nello stesso modo”, ha dichiarato Ghrab a B’Tselem. Un’altra testimonianza racconta di un paramedico che ha dovuto abbandonare un’ambulanza colpita durante un attacco: all’interno c’erano i corpi di una donna e di un neonato, e quando è tornato il giorno dopo, alcuni animali randagi avevano mangiato parte dei corpi. Il neonato era ancora vivo.
Il rapporto PHRI: distruggere la sanità come strategia genocidaria
A sostenere la medesima accusa, da un punto di vista diverso ma complementare, è poi il rapporto di Physicians for Human Rights – Israel. Incentrato sulla distruzione sistematica del sistema sanitario di Gaza, il documento conclude che Israele sta commettendo atti che costituiscono genocidio anche sotto il profilo medico e sanitario. Il PHRI parla di “smantellamento
deliberato e sistematico del sistema di vita di Gaza”, con attacchi mirati a ospedali, blocchi agli aiuti umanitari, ostacoli alle evacuazioni mediche, uccisione e incarcerazione del personale sanitario. “Queste azioni non sono effetto collaterale della guerra”, si legge, “ma parte di una politica deliberata volta a colpire i palestinesi come gruppo umano, in quanto tale”. Anche il rapporto PHRI afferma che Israele ha compiuto almeno tre degli atti previsti dalla Convenzione sul genocidio: “l”uccisione di membri del gruppo, gravi danni fisici e mentali inflitti alla popolazione, l’imposizione deliberata di condizioni di vita insostenibili, calcolate per provocare la distruzione del gruppo”. PHRI accusa anche la comunità internazionale di aver mancato al proprio dovere di prevenzione e intervento: “Nonostante le pronunce della giustizia internazionale, Israele non ha rispettato i suoi obblighi. L’enforcement globale è rimasto debole. È tempo che gli Stati adempiano al loro dovere di fermare il genocidio in corso”.
La realtà: 40mila orfani, un’intera società disgregata
Alle testimonianze dirette e alle accuse giuridiche si affiancano poi numeri che restituiscono le proporzioni della devastazione sociale. Secondo i dati contenuti nei due rapporti, almeno 40mila bambini nella Striscia di Gaza hanno perso uno o entrambi i genitori dall’inizio dell’offensiva israeliana. Il 41% delle famiglie si trova oggi a prendersi cura di minori che non sono figli propri. Uno studio pubblicato su The Lancet segnala un crollo verticale dell’aspettativa di vita: meno 51% per gli uomini e meno 38%
per le donne in un solo anno. L’età media della morte è oggi di 40 anni per i maschi e 47 per le femmine.
B’Tselem avverte poi che la crisi non è confinata a Gaza: le violenze contro i palestinesi si intensificano anche in Cisgiordania e nei territori interni allo Stato di Israele, e che i confini dell’assedio si stanno allargando.

(da Fanpage)

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GIORGIA, T’HANNO RIMASTO SOLA! PERSINO IL CANCELLIERE TEDESCO, FRIEDRICH MERZ, DI FRONTE ALLA RIVOLTA DELLA STAMPA, DEGLI ALLEATI DI GOVERNO (SPD E VERDI) E ALLE PROTESTE DEGLI INDUSTRIALI, È STATO COSTRETTO A CRITICARE L’ACCORDO USA-UE SUI DAZI, DI CUI ERA STATO IL PRINCIPALE SPONSOR

Luglio 30th, 2025 Riccardo Fucile

SOLO LA MELONI TENTENNA E DIFENDE L’INTESA CON IL TYCOON: GLI EFFETTI REALI SUI CONSUMATORI SI VEDRANNO FRA 7-8 MESI

Giorgia Meloni ha mostrato cautela e un prudente basso profilo dopo l’accordo tra Unioneeuropea e Stati Uniti sui dazi al 15%, di cui è stata accanita tifosa.
Con il suo tradizionale camaleontismo, è stata ubiqua, buttando la palla in tribuna, per prendere tempo e non mettere la faccia sull’umiliazione europea (“Base sostenibile, giudico positivamente il fatto che si sia raggiunto, ma bisogna andare nei dettagli”).
Eppure, i calcoli degli economisti parlano chiaro: le tariffe di Trump avranno un impatto negativo sul Pil italiano di almeno uno 0,5%, senza contare che nel 2026, ultimo anno in cui l’Italia riceverà i fondi Pnrr dall’Europa, le rate verranno erogate da Bruxellese in base dello stato di avanzamento dei lavori, già in cronico ritardo.
Inoltre, quando i cervelloni intorno alla Meloni hanno ipotizzato di usare i fondi del Pnrr per sostenere le imprese colpite dai dazi, da Bruxelles è arrivato un niet perentorio per ricordare che quegli stanziamenti vanno utilizzati per gli investimenti e non per i sussidi.
Se le difficoltà della Ducetta in campo economico sono notevoli, sul piano politico non va meglio.
La “Thatcher della Garbatella” si era appoggiata al cancelliere tedesco, Friedrich Merz, in contrapposizione alla linea dura di Macron contro Trump, per favorire una trattativa con Washington. Merz, bisognoso di tutelare l’automotive tedesco, si
era illuso di ammorbidire Trump con un atteggiamento cedevole, forse convinto di chiudere l’accordo con dazi al 10%.
Quando il tycoon ha inviato all’Unione europea una lettera, minacciando tariffe al 30%, lo stesso cancelliere si è trovato in difficoltà. Il metodo “shock and awe” (colpisci e terrorizza) usato da Trump contro l’Europa ha certificato la totale inaffidabilità del presidente americano. Tra incudine e martello, Merz ha iniziato a tentennare.
Da un lato, pur detestando Ursula, sua rivale di partito nella Cdu e nel Ppe, ha sperato nel buon lavoro del commissario Maros Sefcovic, per ricondurre a miti consigli l’intransigenza di Trump.
Dall’altro, davanti all’arroganza del Caligola di Mar-a-Lago, ha dovuto riconoscere che la linea dura di Macron aveva un senso.
Come ha dimostrato la Cina, l’unico modo per trattare da pari con gli Usa è mostrare i muscoli: più si accondiscende alle pretese del bullo coatto della Casa Bianca, più quello alza il prezzo.
Il risultato finale, con le tariffe al 15%, ha spiazzato Merz e lo ha messo nei guai, perché in Germania l’accordo è stato accolto molto male. I quotidiani tedeschi, con la Bild in testa, hanno sparato a zero contro l’intesa Ue-Usa, la Confindustria di Germania ha tuonato (“Oggi non è un buon giorno per l’economia”).
Il presidente della Federazione auto tedesca, Hildegard Müller, ha dichiarato che “i dazi del 15% costeranno miliardi alle case automobilistiche”. Come ricorda Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”: “D’accordo, ma le medesime ‘case
automobilistiche’ sono state il tormento di Berlino e di Bruxelles: fate in fretta, troviamo un compromesso con Washington. Per altro il settore auto è il solo che abbia contenuto i danni: il dazio passerà dal 27,5% al 15%”.
Anche nella stessa maggioranza che sostiene il governo Merz ci sono state notevoli fibrillazioni da parte dei socialdemocratici della Spd, e dei Verdi, che hanno parlato di accordo capestro. Davanti a una tale rivolta collettiva, anche il cancelliere, che si è posto da subito come il più dialogante con gli Stati Uniti, ha dovuto ammettere che l’accordo produrrà “danni sostanziali” all’economia europea, pur riconoscendo che “non si poteva ottenere di più”.
Il mezzo passo indietro di Merz, spaventato dai possibili contraccolpi alla sua maggioranza, lascia Giorgia Meloni da sola, in prima fila, a difendere l’intesa con Trump, il cui impatto è stato finora assorbito dai mercati solo perché i primi veri effetti sui consumatori si vedranno fra 7-8 mesi. Solo allora sarà pienamente visibile il costo economico e sociale delle misure imposte dalla Casa Bianca.
(da Dagoreport)

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