Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
“MELONI, ECCO LA TUA IDEA DI LEGALITÀ: SCARCERARE E RIMANDARE IN PATRIA CON UN VOLO DI STATO ASSASSINI E STUPRATORI”…”GIORGIA LE HAI VISTE QUELLE IMMAGINI? UN BRICIOLO DI COSCIENZA TI È RIMASTA?”
Sta circolando sui social un video che, secondo i media arabi che lo hanno postato, mostra Osama Njeem Almasri mentre uccide un cittadino libico per le strade di Tripoli.
Nel video, postato sui profili X di vari media libici e dalla ong Rifugiati in Libia, si vede Almasri aggredire un uomo disarmato in strada, gettarlo a terra e colpirlo a mani nude.
“Sta circolando un nuovo video che mostra Osama Njeem, popolarmente noto come Almasri – commenta Rifugiati in Libia a corredo delle immagini -, mentre uccide un cittadino libico per le strade di Tripoli. Stiamo ancora lavorando per confermare la data esatta dell’episodio, ma è accaduto di recente. Si tratta dello stesso criminale ricercato dalla Cpi per crimini di guerra, sottratto alla giustizia dal governo italiano all’inizio di gennaio. Chi sarà ritenuto responsabile mentre continua a uccidere e terrorizzare innocenti cittadini libici, inclusi rifugiati e migranti?”.
Comincia nel gennaio scorso la vicenda che vede protagonista il generale libico Nijeem Osama Almasri, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, la cui liberazione ha scatenato un caso
politico e giudiziario.
“Almasri, l’uomo accusato dalla Corte penale internazionale di torture, stupri e crimini contro l’umanità, è stato ripreso a Tripoli mentre uccide un uomo a pugni in strada. Giorgia Meloni, guarda chi hai liberato! Ecco la tua idea di legalità: scarcerare e rimandare in patria con un volo di Stato assassini e stupratori”. Lo afferma sui social Angelo Bonelli, deputato di Avs e co-portavoce di Europa verde.
“Oggi quell’uomo continua a mietere vittime e la responsabilità politica e morale è tutta del tuo governo, che ha tradito le vittime e lo Stato di diritto, macchiando di vergogna l’Italia davanti al mondo – continua Bonelli sempre rivolgendosi alla premier -. Meloni non può continuare a nascondersi ed è giusto che i suoi ministri a partire da Nordio siano sotto processo venga subito in Parlamento per aver liberato un criminale che oggi uccide davanti alle telecamere. Se io fossi al posto della premier non dormirei la notte”.
“Sono raccapriccianti le immagini che individuerebbero nel criminale Almasri l’uomo che picchia e uccide a mani nude un cittadino libico per le strade di Tripoli. Sì proprio lui, lo stupratore e assassino ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, rispedito in Libia con tutti gli onori dal governo Meloni su un aereo di Stato con bandiera italiana. Giorgia le hai viste quelle immagini? Un briciolo di coscienza ti è rimasta?”.
Lo afferma sui social il leader del M5s Giuseppe Conte. “Così solerte e ciarliera nella propaganda di governo, su Almasri non hai nulla da dire? Da mesi in silenzio, continui a non dirci – dopo avere con i tuoi ministri cambiato sette versioni diverse – le vere ragioni per cui avete avete rimpatriato un torturatore omicida, sottraendolo alla giustizia italiana”, continua l’ex premier rivolgendosi sempre a Meloni: “Perché non spieghi agli italiani se siete sotto ricatto? Parli spesso di ‘credibilità’ dell’Italia sul piano internazionale, ma questo vostro comportamento ha esposto l’Italia – culla del diritto anche internazionale – a una infamante vergogna mondiale”.
(da Dagoreport)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
PEGGIO CHE IN RUSSIA: PER VERIFICARE LE INFORMAZIONI, SARANNO ESAMINATI TUTTI GLI ACCOUNT SOCIAL, I REGISTRI DELLE FORZE DELL’ORDINE NEI PAESI D’ORIGINE… UN POST CONTRO TRUMP E TI RITROVI ESPULSO?
ll dipartimento di Stato americano ha dichiarato di aver avviato un esame di tutti gli
oltre 55 milioni di stranieri che vivono negli Stati Uniti con un visto. Lo riporta l’Associated Press in esclusiva. Il dipartimento ha avvertito, inoltre, che tutti i titolari di un visto Usa sono soggetti a “controlli continui” con particolare attenzione a qualsiasi elemento possa indicare la necessità di revocare il permesso ed espellerli.
Dal ritorno alla Casa Bianca di Trump, lo scorso gennaio, l’amministrazione ha imposto sempre più restrizioni e requisiti ai richiedenti il ;;visto, incluso l’obbligo per tutti di sottoporsi a colloqui di persona.
Tuttavia, la revisione di tutti gli oltre 55 milioni di permessi degli stranieri residenti sembra indicare una stretta significativa. Il dipartimento di Stato ha spiegato che saranno esaminati tutti gli account social, i registri delle forze dell’ordine nei Paesi
d’origine oltre a qualsiasi violazione delle legge americana commessa da quando si sono trasferiti. All’inizio della settimana, l’amministrazione ha dichiarato di aver revocato da gennaio più di 6.000 visti per studenti stranieri, di cui 4.000 per “effettive infrazioni” della legge e circa 200-300 visti per questioni legate al terrorismo.
(da agenzie)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
IL VINO NON VIENE ESENTATO DALLE TARIFFE AMERICANE: È UN COLPO DURISSIMO PER LA PROPAGANDA MELONIANA, CHE VA A PENALIZZARE PRODUTTORI CONSIDERATI ELETTORI STORICI DI FRATELLI D’ITALIA – DA PALAZZO CHIGI LA BUTTANO IN CACIARA E DANNO LA COLPA ALLA “CONFLITTUALITÀ” TRA MACRON E TRUMP
Il vino è il colpo più duro, almeno sul fronte dell’immagine. Colpisce infatti produttori considerati un bacino di voti per Fratelli d’Italia. L’acciaio rappresenta invece il danno peggiore, almeno a guardare i dati economici: è la misura più penalizzante per il sistema Paese.
Giorgia Meloni è in vacanza nel resort in Valle d’Itria. Da lì prende atto dell’elenco ufficiale dei dazi siglato da Bruxelles e Washington. Significa che la battaglia portata avanti finora
proprio su vini e acciaio non ha dato frutti. Proverà nelle prossime settimane ad ammortizzare il danno, dando mandato ai suoi ministri di continuare a lavorare per ottenere uno “sconto”.
Non sarà facile, si tratta di un terreno delicato: essere in ottimi rapporti con Donald Trump non è bastato a salvare questi due comparti. L’idea, comunque, è procedere con due mosse. La prima: rafforzare il coordinamento con Francia e Germania per una battaglia comune che convinca la Casa Bianca ad accettare due soluzioni “innovative” e a tagliare i balzelli.
La seconda: aiuti indiretti ai settori più in difficoltà. Quando viene ufficializzato il patto tra le due sponde dell’Atlantico, Palazzo Chigi reagisce con cautela. «La dichiarazione congiunta – si sottolinea – fornisce finalmente al mondo imprenditoriale un quadro chiaro del nuovo contesto delle relazioni commerciali transatlantiche».
È un elemento chiave, per gli italiani: l’Europa ha deciso di rendere pubbliche le nuove tariffe anche senza aver ottenuto risultati significativi in questi due settori cruciali, ma deve farlo per assicurare intanto elementi certi al resto degli esportatori.
«Non si tratta ancora – spiega però l’esecutivo – di un punto di arrivo ideale o finale», ferma restando la soddisfazione per «aver evitato una guerra commerciale». Segue però una promessa: «Il governo resta impegnato, insieme alla Commissione e agli altri Stati membri, per incrementare ulteriormente nei prossimi mesi i settori merceologici esenti, a partire dal settore agroalimentare».
Inoltre, «particolare impegno sarà riservato alla conclusione di
un’intesa in tema di acciaio e alluminio».
Facile a dirsi, più complesso riuscirci. L’idea, comunque, è rendere ancora più forte il coordinamento con Parigi nella battaglia per il vino, con Berlino sul fronte dell’acciaio. Su quest’ultimo terreno, il progetto che si tenterà di riproporre agli americani prevede un doppio regime di barriere doganali.
Per i piccoli e medi esportatori, varrebbe una soglia dei dazi al 25 o 30%. Oltre una certa quota di esportazione – dunque per gli attori più importanti che agiscono sul mercato – scatterebbe lo “scaglione” del 50%, quello attualmente in vigore.
Sui vini, invece, la partita è giocata su un altro terreno. I francesi si erano detti a un passo dall’intesa, salvo dover accettare ieri la pubblicazione dell’elenco senza novità positive. In parte anche a causa della conflittualità tra Emmanuel Macron e Donald Trump, sussurra la propaganda meloniana in queste ore. In ogni caso, l’obiettivo resta comune: abbattere la barriera doganale su questo prodotto.
Roma, si apprende da fonti a conoscenza del dossier, propone informalmente una possibile soluzione: agli americani si prometterebbe di investire in promozione commerciale ed eventi sul suolo Usa, in modo da compensare in buona parte con risorse istituzionali europee quanto gli Stati Uniti perderebbero tagliando i dazi sul vino.
In altri termini: pubblicità e investimenti che Italia e Francia (che da soli coprono la gran parte dell’export Ue in questo campo) si impegnerebbero a pagare in America. Gli Stati Uniti avrebbero
comunque un ritorno economico, mentre i due partner continentali sgraverebbero le rispettive filiere dai dazi, dando una mano a un settore strate
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
SI TRATTA DI UN IMMOBILE COMUNALE IN VIA SAN DIONIGI, MA L’ITER NON SARA’ FACILE
E adesso, cosa succede alla storia e agli occupanti del Leoncavallo? Dopo lo sgombero
esecutivo dello stabile di via Watteau 7 nel quartiere Greco, avvenuto nella giornata di ieri (ma l’operazione era prevista per il 9 settembre) dopo 31 anni di occupazione, sono in tanti a chiederselo. In primis l’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo, che da decenni animano il centro sociale più famoso del Paese. “Speriamo non sia la fine, per noi è un colpo al cuore”, ha commentato infatti la presidente
Marina Boer. “Trovo che il modo di concludere questa fase, ora, così, sia brutto e doloroso, una forzatura. Ma continueremo a cercare delle alternative”.
L’immobile, un ex cartiera a due piani, è stato così riconsegnato alla società proprietaria L’Orologio s.r.l., di proprietà degli immobiliaristi milanesi Cabassi, già risarcito dal Ministero dell’Interno lo scorso 26 marzo per oltre 3 milioni di euro a causa dei mancati sgomberi, rinviati centinaia di volte per “ragioni di ordine pubblico” e per consentire di portare avanti le lunghissime trattative tra Comune, occupanti e proprietari. Contrattazioni finite in un nulla di fatto? Non proprio. Sul tavolo resta infatti ancora aperta l’ipotesi di interesse per un immobile di proprietà comunale in via San Dionigi, zona Rogoredo/Porto di Mare. Ma a che punto è la questione?
L’occupazione della sede di via Watteau 7
Facciamo un passo indietro. Quella che fino a poche ore fa è stato il cuore del centro sociale Leoncavallo, in via Watteau 7 viene occupato nel 1994, dopo lo sgombero della storica sede originaria di via Leoncavallo 22 (quartiere Casoretto) occupata nel 1975: si tratta di un ex stabilimento tipolitografico in zona Greco, di proprietà della famiglia Cabassi che, per i primissimi anni, non richiede lo sgombero dell’immobile, che sorgeva in un’area sottoposta a vincolo di destinazione industriale (e quindi dal basso valore immobiliare).
Dal 2000 la famiglia Cabassi, proprietaria della struttura di via Watteau, torna però a chiedere insistentemente di rientrare in
possesso dell’immobile. Negli anni successivi viene più volte annunciato lo sfratto e lo sgombero, mentre le trattative proseguono con la mediazione dell’amministrazione comunale. Viene addirittura ipotizzata la costituzione di una cordata di “garanti”, tra i quali la famiglia Moratti.
Le trattative si riaprono con il sindaco arancione (ex deputato di Rifondazione Comunista) Giuliano Pisapia, nel 2011. Qui viene previsto uno “scambio”: a fronte della cessione della sede di via Watteau, col quale si doveva risolvere l’annosa questione del “Leonka”, la società L’Orologio dei Cabassi avrebbe avuto l’assegnazione di una ex scuola comunale in via Zama, da ristrutturare e destinare a scopi commerciali. Ma non se ne fa niente, e il sindaco Sala non porta più avanti la questione. I proprietari, stufi di aspettare, vanno così per le vie legali, chiedendo lo sfratto e un maxi risarcimento milionario al Ministero dell’Interno e all’associazione Mamme Antifasciste.
La possibile nuova sede del Leoncavallo in via San Dionigi
Dopo 20 anni di tentativi di mediazione, oltre 130 avvisi di sfratto e lo sgombero di ieri, resterebbe però ancora aperto (pur con molte difficoltà) il dialogo con il Comune di Milano. I gestori del Leoncavallo hanno infatti già presentato una manifestazione d’interesse pubblico per ottenere un altro spazio da 4mila metri quadri, l’immobile di proprietà del Comune ubicato in via San Dionigi (zona Porto di Mare/Rogoredo). Un percorso che, però, non si prospetta lineare. “Trent’anni di complessità culturale e logistica non si possono trasferire con
uno schiocco di dita, soprattutto in uno spazio che non è adeguato a ricevere quest’eredità”, sono state le parole degli occupanti. Lo stabile abbandonato necessita infatti di bonifica da amianto, nonché di importanti lavori di ristrutturazione e messa a norma: costi ingenti che non potrebbero certo gravare sul centro sociale, ma che dovrebbero essere sostenuti dallo Stato o da un intervento privato.
Senza contare che il bando pubblico dello spazio non è ancora stato pubblicato, verosimilmente a seguito della paralisi scatenata dall’inchiesta della Procura sull’urbanistica, rendendo l’intera operazione incerta e senza reali garanzie. Tutto può ancora essere, insomma. “Chiediamo alla Prefettura e alla Questura di Milano di unirsi al confronto già in essere tra le Mamme Antifasciste del Leoncavallo e il Comune per aprire un tavolo risolutivo sia sull’agibilità dello spazio di via San Dionigi e che sulla tempistica di questo trasferimento forzato, data la dilatazione dei tempi necessari per la bonifica del sito che presenta gravi criticità”, sempre gli occupanti.
(da Fanpage)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
IL SACERDOTE E LE SUORE, OLTRE ALLA PICCOLA COMUNITÀ CHE HA TROVATO RIPARO, SI OCCUPA ANCHE DEI MALATI DELL’OSPEDALE ANGLICANO
All’ansia, al rischio e all’atmosfera di pericolo imminente, padre Gabriel Romanelli e la comunità di 450 persone che assieme a lui e ai suoi sacerdoti vive dall’inizio dell’attacco israeliano assediata nella parrocchia della Sacra famiglia di Gaza city sono ormai rassegnati.
«L’intera Striscia di Gaza è pericolosa. Ancora di più, Gaza City. Si sentono bombardamenti in continuazione. Alcuni sono lontani, altri più vicini. Spesso cadono schegge. Questa mattina ci sono state esplosioni verso il lato sud dei quartieri di El Zeytoun e Shujaiah, a circa 400-500 metri dalla parrocchia», ha scritto ieri sera sui suoi profili social il sacerdote argentino, 55 anni, che a luglio era stato ferito quando un colpo di artiglieria sparato da un carro armato aveva colpito la chiesa, uccidendo tre delle persone rifugiate nel compound.
«Purtroppo, la guerra non solo continua, ma è entrata in una nuova e terribile fase. Le necessità di ogni genere per l’intera popolazione civile di Gaza sono urgenti. Non c’è stato alcun ordine di evacuazione in questa zona del nostro quartiere. Quest’area chiamata “Città Vecchia”, ancora all’interno del più ampio quartiere di El Zeytoun, non ha ricevuto un ordine di evacuazione», ha concluso.
Un “non” scritto a grandi lettere, per smentire le voci sbagliate circolate nei giorni scorsi sull’ordine di evacuazione che avrebbe raggiunto la parrocchia. Ma la smentita non basta a tranquillizzare gli animi su quello che potrebbe accadere alla piccola comunità, finora protetta dall’azione diretta del Vaticano, e a chi vive attorno ad essa e che finora — anche grazie agli aiuti condivisi dai sacerdoti è riuscito a sopravvivere. Primi fra tutti i pazienti e i medici dell’Ospedale Anglicano che si trova a poche centinaia di metri dalla struttura.
Da mesi, in Vaticano e nelle stanze del Patriarcato latino di Gerusalemme, da cui la parrocchia dipende, si ragiona su cosa fare qualora, come sembra accadere in queste ore, anche la zona della chiesa diventasse area di combattimenti attivi. Lo stesso padre Romanelli ha più volte escluso la possibilità di andare via. «Se anche volessimo sarebbe impossibile — ci aveva risposto l’ultima volta che lo avevamo interrogato su questo punto — qui ci sono bambini malati cronici, persone allettate, moltissimi anziani: non possono andare via, morirebbero. E né noi sacerdoti né le suore di Madre Teresa che li assistono siamo disposti ad abbandonarli».
A preoccupare in particolare sono i più di 50 “bambini farfalla”, affetti da una malattia genetica della pelle, che non possono muoversi perché morirebbero: le suore si prendono cura di loro da anni, ben prima dell’inizio di questa guerra.
Imad Hammad Dardas vive in una tenda con altri 20 sfollati, tutti
ammucchiati su quello che fu il porto di Gaza. Mangiano una volta al giorno, nessuno ha medicine per niente. Ma lui dice che è fortunato: non deve scegliere se andare a sud, scappare senza rifugio, o restare. «Ho 60 anni, sono vecchio, fuori da Gaza non avrei nessuna chance. E qui non mi resta molto da vivere, se anche mi ammazzano, non temo la morte. Perciò non mi muovo», racconta seduto in una tenda bollente.
La grande invasione non è ancora cominciata, ma incombe.
L’esercito israeliano ha intensificato gli attacchi per aumentare la pressione su Hamas. In mezzo, i gazawi storditi, troppo deboli anche per fuggire. Lo fanno si, ma da un quartiere all’altro: «l’esercito bombarda al Zaytoun, e la gente si sposta a Rimal, colpiscono Jabalia al Balad e vanno ad al Shati», racconta il fotografo Ahmed Abu Ajwa, una specie di ping pong della sopravvivenza.
«La situazione è estremamente tesa, soprattutto di notte, solo pochi vanno verso sud, perché lì è sovraffollato, non ci sono servizi, aiuti, ed è pericoloso». La scelta è anche questione di anagrafe, e prospettiva. Suleiman Amer Suleiman Helles, per esempio, ha 28 anni, è povero, magro e disoccupato, ma una chance di vivere se la vuole ancora dare. Si è accampato a piazza Haidar, nella parte occidentale di Gaza City ed ora sta pensando di trasferirsi a sud «per proteggere la mia famiglia, siamo in 7». Se potesse, lui da Gaza se andrebbe subito. «Qui non c’è più speranza».
Yusra Tayeh, invece, di anni ne ha 63 anni, anche lei vive al
porto: «Non penserei mai di trasferirmi al sud se non costretta perché è difficile e costoso». Un litro di benzina è arrivato a 25 dollari, per chi ha la fortuna di avere contanti. Le auto sono poche, gli asini pure. Tayeh è esausta, come tutti: «Non abbiamo più forze, non ce la facciamo più». E poi però si ferma, vuole dire un’altra cosa, «questa è la mia patria. Magari dopo tutto questo dolore, troveremo una soluzione».
«È difficile capire cosa stia accadendo, ma non abbiamo nemmeno il tempo e il lusso di capirlo, a dir la verità, ci bombardano costantemente», spiega Ahmed. L’esercito ha diffuso ordini di evacuazione per alcune aree della città. Nel limbo, Marwan Hamed Khalid si prepara. Ha 45 anni, faceva il programmatore. Si è convinto che l’occupazione totale ci sarà.
(da La Repubblica)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
“NON SENTIAMO ALTRO CHE BOMBARDAMENTI ED ESPLOSIONI”
Arriva velocissimo, senza nessun preavviso, uno dei bombardamenti che stanno
colpendo in queste ore Gaza City. L’ha ripreso con il suo cellulare Mohammed Alamarin – pizzaiolo e operatore umanitario della Striscia – a pochi metri dal luogo in cui si è rifugiato insieme alla moglie e alle sue figlie, dopo essere stato nuovamente costretto a fuggire. In un altro video girato da Mohammed si vedono file di donne, uomini e bambini fuggire, senza niente in mano, con i soli vestiti addosso, alla ricerca di un luogo sicuro. In un altro filmato, che ha inviato a Fanpage.it, Gaza City è illuminata dall’ultima luce del giorno e in sottofondo si sente il rumore incessante dei colpi dell’artiglieria pesante israeliana.
La capitale dell’enclave è da settimane sotto assedio – prima la parte Est, poi la costa e adesso tutta la città. L’ha detto ieri mattina il primo ministro Benyamin Netanyahu: “Prenderemo Gaza anche se c’è accordo sulla tregua. Lo faremo comunque. Non c’è mai stato dubbio che non lasceremo Hamas lì”, ha dichiarato, dopo che anche un’inchiesta condotta dal quotidiano britannico Guardian in collaborazione con i giornali online israeliani +972 Magazine e Local Call ha dimostrato che l’83% delle persone uccise a Gaza sono civili. Dunque, Hamas non c’entrerebbe.
“Basta, non ho più energie”, ci ha scritto Mohammed ieri, “sto cercando un posto perché la situazione peggiora ogni minuto di
più. L’esercito israeliano adesso sta entrando in altre aree della città. È entrato ora da Jabalia, a nord di Gaza City, e da sud a Sabra, vicino al quartiere Zeitoun. Non sentiamo altro che bombardamenti ed esplosioni. Siamo tra le bombe continue e il caldo soffocante”.
Nella notte tra mercoledì e giovedì, centinaia di palestinesi nei sobborghi di Zeitoun e Sabra sono stati costretti a spostarsi verso la parte nordoccidentale della città, mentre le truppe israeliane hanno cominciato a operare nelle aree di Zeitoun e Jabalia, preparando l’occupazione per la quale verranno richiamati in servizio circa 60mila riservisti.
Almeno 30 palestinesi sono stati uccisi in tutta la Striscia dall’alba, 25 dei quali proprio a Gaza City, dove sono in corso bombardamenti sempre più intensi, secondo fonti mediche citate da Al Jazeera. Nelle stesse ore gli ospedali della Striscia hanno registrato altri due decessi causati da fame e malnutrizione. Sale così a 271 il numero complessivo delle persone morte di fame a Gaza negli ultimi 22 mesi, di cui 112 bambini.
“Se nessuno vuole fermare la guerra allora decideranno di ucciderci tutti e tutto questo finirà. Sto impazzendo e sono stanco. Corriamo da un posto all’altro e i bombardamenti ci inseguono. Il destino di Gaza City sarà come quello di Rafah: Moriremo in ogni caso. Non c’è soluzione a nulla. Penso solo a come essere in un posto dove le mie bambine possano vivere”, ci dice Mohammed poco prima che caschi la connessione, “non voglio essere un eroe, voglio solo sentire un po’ di sicurezza”.
Mohammed, come altre migliaia di persone a Gaza, è ancora in attesa che venga effettuata la sua evacuazione in Italia, il paese che più di un anno fa aveva approvato il suo visto di lavoro. “Ho paura”, conclude, “ho paura che quando la gente ascolterà la nostra voce, sarà troppo tardi”.
(da Fanpage)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
UN’ISOLA FERMA: AEROPORTI, PORTI, OSPEDALI ALLO SBANDO, MAGGIORANZA IN LITE CONTINUA, ASSESSORI TECNICI IMPALLINATI, REFERTI CHE ARRIVANO DOPO TRE MESI
Catania. Ministro Piantedosi, avanti!, prenda per mano il vicepremier Tajani e venga in Sicilia. C’è un altro Leoncavallo da sgomberare, una regione occupata legalmente da un presidente inesistente, Renato Schifani, una regione che resta sfrattata dalla modernità dove la pazienza è già sotto zero. E’ in riparazione, a due anni dall’incendio, l’aeroporto di Catania, due anni; è senza direttore generale, da gennaio, l’azienda sanitaria di Palermo; gli avvocati della regione (su mandato di Schifani) fanno ricorso al Tar contro il ministro dei Trasporti (alleato di Schifani); le gare pubbliche vengono arbitrate dagli ex colleghi di studio di Schifani, un presidente che manda ispezioni dell’Asl perché non trova in aeroporto il croissant vuoto a colazione. Serve altro? A Trapani oltre tremila referti istologici non sono
stati mai consegnati… Ministro Piantedosi, avanti!, dopo Milano, venga a sgomberare il Leonschifani.
Non è vero che tanto è la solita Sicilia e non è vero che è solo politica regionale. Uno dei porti strategici d’Italia, così direbbe la premier, uno dei porti decisivi del Mediterraneo, è stato affidato ieri all’ex europarlamentare della Lega, Annalisa Tardino, perché così si erano accordati Salvini e Tajani. Si sono spartiti il mare: a Forza Italia, il porto di Gioia Tauro e alla Lega, il porto di Palermo, solo che Schifani minaccia di impugnare la nomina, di ricorrere al Tar. Se non era informato è grave ma se lo fa da informato significa che non risponde più a Tajani, al suo partito, come di fatto lamenta la stessa Forza Italia in regione.
La passione di Schifani, da sempre, sono i segretari, tanto da prendere il suo, quello personale, e indicarlo commissario del partito in Sicilia, un partito che non si riunisce da due anni. Il segretario si chiama Marcello Caruso ed è un segretario che poteva vantare da consigliere comunale di Palermo la fortuna di 500 voti. Anche per l’Autorità portuale, Schifani avrebbe scelto un altro segretario, così come ha lasciato che la regione Sicilia scegliesse il suo ex socio di studio legale per presiedere una commissione che assegna appalti da 170 milioni. E’ da tre anni che Schifani guida questa isola sciagurata e da tre anni accumula cariche da commissario salvo poi scaricare le colpe sui sub commissari (che licenzia).
Il 25 luglio si è bloccata l’autostrada A19 e Schifani ha risolto il problema nominando altri due nuovi sub commissari per la
manutenzione (il commissario è lui) con tanto di nota altisonante: “Ho chiesto di accelerare sulle chiusure di nuovi cantieri”. E’ un metodo di non-governo e non è neppure nuovo, ma si immerge nel fasto dell’arretratezza e dello scialo. A giugno, la regione Sicilia ha speso mezzo milione di euro per il concerto “Gigi D’Alessio & friends” solo che nessuno, dal palco, gli ha detto “grazie presidente” e Schifani ha “parlato di inadempienza contrattuale”. Le sue gesta sono tutte raccolte dal giornale moschettiere “Buttanissima Sicilia”, la feritoia siciliana della libertà, di pensiero, insieme ad altre piccole, e demoralizzate, vedette, i soliti giornalisti coraggio e Don Quijote.
Se nessuno ha finora chiesto lo sgombero del Leonschifani è solo perché FdI in Sicilia è messa peggio di Schifani. E’ finito sotto inchiesta il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, di FdI, e per FdI (partito in Sicilia commissariato) “c’è qualcuno in regione, anche tra i nostri alleati, che spinge la stampa a parlare male di noi”. Oltre al metodo “è colpa di qualcun altro”, Schifani percorre l’altro, il metodo “dividi e campa”, sopravvivi. Sta recuperando l’ex assessore ed ex vicepresidente, leghista, Luca Sammartino, che si era dovuto dimettere perché interdetto dalle cariche (interdizione scaduta). Al momento questa regione è governata da un patto di sindacato Schifani-Totò Cuffaro-Raffaele Lombardo (in pratica la Sicilia di vent’anni fa) e il peggio è che c’è una città, Catania, che dice: “Schifani ce l’ha con noi” e un’altra, Palermo, che spiega: “Il problema di
Schifani è che vuole fare il presidente della Regione e anche il sindaco di Palermo”.
Da quando è presidente della regione uno dei suoi primi atti è stato togliere a Catania la sede presidenziale che aveva voluto l’ex presidente e oggi ministro, Nello Musumeci. Per il resto, Schifani ha scelto personalmente gli assessori tecnici, alla Sanità e all’Economia, che vengono puntualmente impallinati grazie al voto segreto. Si chiama governare, questo? Ministro Piantedosi, a Militello, al funerale di Pippo Baudo, mancava lei. L’ultimo autobus che porta a Catania, parte alle 17, e per lasciare il paese, di notte, i siciliani si fanno il segno della croce. Non si può definire strada. Ha ragione Giorgia Meloni che dopo lo sgombero del Leoncavallo ha dichiarato, “in uno stato di diritto non possono esistere zone franche”. Nello stato di Meloni non dovrebbe esistere un aeroporto che da due anni attende di essere riparato, due anni, e non dovrebbe esistere un ospedale senza direttore generale da sei mesi. Ministro Piantedosi, venga a sgomberare questa Sicilia centro sociale, spedisca Luca Zaia, come propone Pietrangelo Buttafuoco nell’intervista ad Aldo Cazzullo, lo spedisca a fare non il doge, ma il prefetto dolce, in Sicilia si dice duci, duci. Avanti, è il Leonschifani la spina della destra, il Leoncavallo al ficodindia.
(da ilfoglio.it)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
CASO UNICO NELLA STORIA D’ITALIA PER NUMERO RISIBILE DI CONFERENZE STAMPA VERE, CON DOMANDE E RISPOSTE: LA PAURA DI CHI NON E’ ALL’ALTEZZA DEL RUOLO
La presidente del consiglio italiana seduta alla destra del presidente americano in una
riunione internazionale: un sogno per la pletora di capi di governo che si sono succeduti nel tempo che anelavano ad un invito a Washington. In realtà, da anni gli incontri internazionali hanno avuto una fortissima accelerazione e sono diventati routine. Con risvolti a volte curiosi. Basti pensare che un presidente del consiglio improvvisato come Giuseppe Conte venne catapultato nel giro di poche settimane dal suo tranquillo studio di avvocato al vertice del G7, nel giugno 2018. E da allora ha conquistato, ricambiandola, la “simpatia” di Donald Trump, espressa nel suo endorsement per il nuovo governo giallo-rosso.
Tuttavia le simpatie del presidente americano sono volubili e
Meloni dovrebbe evitare di enfatizzare le paroline dolci che le riserva Trump. Basta poco per passare dal paradiso agli inferi ( chiedere a Elon Musk…) . Oltre agli incontri americani, la nostra premier presidia la scena internazionale a 360 gradi. Forse nessuno ha incontrato tanti rappresentanti di paesi esteri quanto lei. In certi momenti sembrava una trottola in giro per il mondo a stringere mani. Niente di male che la capa del governo instauri, mantenga o rafforzi contatti bilaterali. Qualche ricaduta positiva può sempre materializzarsi. Tuttavia c’è qualcosa di troppo in questo vorticoso andirivieni. Dato che il tempo non è dilatabile oltre le 24 ore, a Meloni, inevitabilmente, manca il tempo per dedicarsi ad altro, vale a dire alla politica nazionale. E a rendere conto ai cittadini della sua attività.
La presidente del consiglio è un caso unico nella storia d’Italia per numero risibile di conferenze stampa vere, con domande e risposte. Il motivo di tanta ritrosia l’ha confessato al caro Donald, l’altro giorno, nell’audio rubato a Washington: ha paura della stampa.
In effetti, la grintosa ed assertiva leader, che vuole incutere soggezione a tutti con un atteggiamento accigliato e bellicoso, è in realtà una tremebonda primula, terrorizzata dalla sola vista di taccuini e registratori. E quindi si rifugia nei consessi internazionali per proteggersi dalla torma di giornalisti che la insegue. Sarebbe tempo che la presidente del consiglio superasse il trauma di Cutro quando la conferenza stampa all’indomani di quel drammatico naufragio si trasformò in un suo naufragio
comunicativo.
La paura è giustificata dalle mille domande scomode che i giornalisti potrebbero porle. Ad esempio, perché il governo italiano non vuole riconoscere lo stato di Palestina e non prende alcuna iniziativa, nemmeno simbolica, contro il governo Netanyahu; perché non adotta il salario minimo come nella maggioranza degli altri paesi; perché ha reso così difficile il reddito di cittadinanza tanto che nemmeno il poco che è stanziato viene tutto richiesto; perché ha sottratto dai fondi Pnrr destinati agli asili nido una quota consistente per dirottarla altrove; perché ha tagliato i fondi alla sanità; perché ha agito in maniera diametralmente diversa nelle due operazioni del risiko bancario favorendo una cordata rispetto all’altra. Sono solo alcune delle tante questioni alle quali, in un paese normale, la leader dovrebbe rispondere. Invece Meloni, come il suo vero mentore, Silvio Berlusconi, si rifugia nei media amici per annunciare senza contraddittorio la sua favola bella di un paese prospero e felice. Non sente il brontolio sordo di insoddisfazione che sale, di cui danno conto tante ricerche, e che ha la sua manifestazione più preoccupante (per ora) nell’impennata dell’astensionismo.
Solo il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, pur con alcune cadute di stile e qualche forzatura, fa opera di verità. La Meloni rancorosa, che per tanto tempo soffiava di rabbia contro tutto e tutti accampando una vita di torti di una povera underdog, ha lasciato la scena ad una Meloni timorosa, che sfugge ai
confronti pubblici, nascondendosi dietro le gonne di Trump e degli altri leader internazionali.
(da editorialedomani.it)
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Agosto 22nd, 2025 Riccardo Fucile
PIANTE, FRIGOBAR, CALICI, VASSOI E ARREDI VARI
E va bene la pugna quotidiana, i veleni, le gaffe e pure gli inciampi, penali nel caso Almasri. Per non dire della guerra ad alta intensità con i suoi ex colleghi magistrati sulla riforma della separazione delle carriere. Epperò nonostante le asprezze da battaglia, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si conferma bon vivant a casa, in quel di Rovigo, ma pure in via Arenula, ossia al ministero sede di lavoro ma anche residenza. Che da quando c’è lui è un angolo di Paradiso: se gli uffici del Guardasigilli sono stati riarredati di tutto punto, pure l’appartamento a lui riservato ora può dirsi infatti attrezzato alla grande: l’ultimo acquisto ordinato dal capo di gabinetto di
Nordio, la “zarina” Giusi Bartolozzi riguarda la siepe che metterà al riparo il ministro dagli occhi indiscreti dei vicini. E che siepe!
Il 2 luglio, nelle stesse ore in cui Nordio ci metteva il carico contro le toghe del Massimario della Cassazione (per la stroncatura del decreto sicurezza), la capo di gabinetto Bartolozzi pensava a come rendere liete le ore di riposo del Guardasigilli facendo partire una richiesta “riguardante il completamento del punto verde presso l’appartamento riservato al signor ministro preso atto dell’esigenza di realizzare una barriera verde in continuità con le essenze vegetali già collocate lungo il perimetro del terrazzo”. Esigenza da lei motivata vista “la necessità di assicurare un’adeguata riservatezza visiva in considerazione di edifici limitrofi con affaccio diretto sul terrazzo di pertinenza dell’alloggio riservato”. Ora a prova di occhi indiscreti e di pollici sin qui molto poco verdi grazie a piante e fioriere in quantità, senza badare al centesimo. Mica come per i frigobar: nel 2023 ne era stato acquistato uno da 470 euro per alloggio del ministro, ma poi c’era stato il bis con la richiesta di poterne comprarne altri tre.
Questo prima dello stop al preventivo ridotto a un solo altro frigidaire, causa urgenza di “contenere la spesa” e forse anche qualche battuta viste le intemerate alcoliche del ministro (vedi articolo sotto). Anche perché per tutto il resto la mannaia della spending review non era scattata, almeno a compulsare gli ordini di spesa: 663 euro per bicchieri, brocche e vassoi. Altri 13 mila
per la fornitura di arredi vari e poi la macchina del caffè, le cialde e altri costi minori come quello per la “fornitura vasellame per ministro”. Piatti da portata? Boh: il costo è stato di 373 euro. Venendo agli ultimi mesi su ordine di Bartolozzi è stato disposto l’acquisto di un nuovo telefonino “con prestazioni elevate e batteria di lunga durata da assegnare con sollecitudine al ministro” (1.750 euro) e sempre con urgenza, è stato disposto l’acquisto di un vaso bianco con 3 orchidee doppio stelo (180 euro più Iva) “per l’esigenza di rappresentanza istituzionale”. L’ultimissima spesa riguarda invece il terrazzo dell’alloggio di Nordio.
L’ordine del 2 luglio con la richiesta di procedere all’acquisto di piante e fioriere per oltre 5 mila euro: 20 vasoni per 40 esemplari di laurus nobilis con un’altezza a prova di costume adamitico. Si tratta infatti di piante da 240-250 cm acquistati insieme ad altre dieci dello stesso tipo “da impiantare in sostituzione degli attuali esemplari attualmente essiccati”. Per non correre rischi oltre ad argilla e terriccio (e concime) è stata disposta anche la spesa per l’acquisto e la messa in opera di due impianti di irrigazione automatica.
Gli acquisti per rendere fruibile il terrazzo giardino delle delizie erano partiti molto prima: a febbraio 2024 era partito l’ordine per gli arredi da esterno (1.159 euro più Iva) dopo che l’operazione punto verde era iniziata a gennaio con l’acquisto e messa in opera di “dieci fioriere con essenze arboree” (un paio di migliaia di euro di spesa messi in conto al capitolo del ministero per gli
acquisti di cancelleria e stampa). Piante poi, a quanto pare, finite male: lasciate, loro sì, a patire la sete.
(da ilfattoquotidiano.it)
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