Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
ANCORA TUTTO BLOCCATO ANCHE IN VENETO: LA MELONI CHIEDE UN IMPEGNO SCRITTO ALLA LEGA, A LASCIARE LA LOMBARDIA A FDI, NEL 2027. MA SALVINI PRENDE TEMPO
L’ultimo intoppo a destra per comporre il tetris delle regionali è la Campania. Sembrava
fatta per Edmondo Cirielli, ma il diavolo è nei dettagli. FI, che formalmente appoggia la corsa del viceministro degli Esteri, iper meloniano, adesso mette condizioni. E non lo fa con due peones, ma con il capogruppo al Senato, Maurizio Gasparri, che è anche il responsabile degli enti locali, e con il capodelegazione in Ue e numero uno del partito proprio in Campania, Fulvio Martusciello.
La richiesta, che gli azzurri presentano come «condizione imprescindibile», è questa: se Cirielli vuole correre da governatore, in una corsa complicatissima contro Roberto Fico, deve dimettersi da viceministro anche in caso di sconfitta. Restando consigliere regionale semplice. Un diktat che FdI respinge per ora al mittente: «Se mai non dovesse vincere, Edmondo resta viceministro», replicano ai piani alti di via della Scrofa.
Le esternazioni che arrivano dal partito di Antonio Tajani, ben cesellate e inserite in dichiarazioni titolate su altro, creano maretta a destra. Nell’ennesima giornata che avrebbe dovuto essere decisiva e invece, dopo una serie di telefonate tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Tajani, si risolve con un altro rimando.
Probabilmente a un vertice tra lunedì e martedì, dopo il voto in Calabria. Intanto, appunto, Gasparri mette a verbale: il centrodestra non farà come Matteo Ricci, che si è candidato nelle Marche e poi è rimasto europarlamentare da sconfitto.
«Per il centrodestra la regola è chiara: chi si candida per la presidenza di una Regione, resta su quel territorio anche nel caso di sconfitta per svolgere il ruolo di rappresentanza di chi lo vota. Le regionali sono un viaggio di sola andata»
Non fosse chiaro il messaggio, ecco Martusciello: «Edmondo deve prendere l’impegno che, se dovesse perdere, rimane in Consiglio regionale». Per FI, aggiunge il capo dei forzisti campani, «è una condizione imprescindibile». Segue un avvertimento severo: «Non si firma l’apparentamento se non c’è questa condizione». FdI come detto fa muro, anche se non pubblicamente.
Non è l’unica spina per la coalizione di governo, che ancora deve trovare i candidati in tre regioni al voto in autunno. Il Veneto salvo stravolgimenti andrà al leghista Alberto Stefani, ma FdI vuole garanzie sulla Lombardia. Scritte, nella nota finale che ufficializzerà i nomi. Salvini però chiede di evitare riferimenti precisi al Pirellone. Si tratta.
Nel Carroccio c’è nervosismo: per ora è congelato l’evento di lancio della campagna di Stefani, fissato per mercoledì al Gran Teatro Geox di Padova. I mal di pancia li esplicita il governatore uscente, Luca Zaia: «Attendiamo l’esito del tavolo nazionale, ma è innegabile che adesso ci voglia una decisione. Si sta andando oltre con i tempi? A me sembra evidente. Abbiamo meno di 20 giorni per presentare le liste».
Lo sfogo prosegue: «I cittadini hanno il diritto di conoscere a fondo i candidati presidenti, i candidati consiglieri e i programmi». Più chiaro di così. Le tensioni tra alleati affiorano anche al governo, dopo la scelta del sottosegretario agli Esteri, Giorgio Silli, che ha lasciato Noi moderati, il movimento di Maurizio Lupi, per traslocare in FI. Lo stesso Lupi gli ha chiesto, via agenzie stampa, di dimettersi.
«E lo farà», dicono sottovoce gli azzurri. Almeno sulla Puglia invece pare esserci una schiarita definitiva. Correrà Luigi Lobuono, ex presidente della fiera del Levante
(da Repubblica)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
IL DOCENTE DI DIRITTO INTERNAZIONALE ALLA SAPIENZA: “APPURATO CHE NON TRASPORTANO ARMI MA SOLO PERSONALE SANITARIO E MEDICINE, DEVE CONSENTIRE LORO DI PROSEGUIRE”
Nove barche cariche di medici, infermieri e giornalisti dirette verso la Striscia di Gaza. La missione congiunta di Freedom Flotilla Coalition, che da 18 anni sfida il blocco navale imposto da Israele, e di Thousand Madleens ha superato Creta. Partite da Catania e Otranto tra il 25 e il 30 settembre, le otto più piccole navigano all’ombra della Conscience, 68 metri e 1029 tonnellate di stazza. “Questo è un ospedale che galleggia – racconta al Fatto Vincenzo Fullone, portavoce italiano dell’ammiraglia -, trasportiamo materiali sanitari e farmaci da banco che non entrano a Gaza, i dottori a bordo lavorano giorno e notte per catalogarli in base all’uso. Stanno andando a dare il cambio ai colleghi di lì, che fanno turni infiniti negli ospedali o vengono uccisi. Molti sono palestinesi e rischiano il doppio rispetto a noi. E i giornalisti vanno a sostituire i reporter eliminati in questi due anni, perché non si spenga la luce su ciò che sta accadendo”.
Visto il trattamento riservato alla Global Sumud Flotilla è difficile pensare che alla nuova missione possa andare molto diversamente. Ma per gli organizzatori in questo caso il punto è politico: “Se Israele arresterà professionisti della sanità protetti dalle convenzioni internazionali, i governi dei loro paesi non potranno non intervenire con maggiore forza rispetto a quanto fatto con la Sumud”, spiega Michele Borgia, portavoce italiano della Freedom Flotilla.
Secondo il diritto umanitario, infatti, i medici sono persone protette e non possono essere arrestati per il solo fatto di esercitare la loro professione. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 prescrivono la tutela del personale sanitario “in ogni circostanza”. L’articolo 23 della IV Convenzione, ratificato da Israele, precisa che “Ciascuna Parte contraente accorderà il libero passaggio per qualsiasi invio di medicamenti e di materiale sanitario”, formulazione comunemente interpretata in modo da includere anche i sanitari stranieri.
I problemi non mancano. “Il diritto internazionale sul tema è ampio, ma Israele ha ratificato solo la IV Convenzione” – spiega Enzo Cannizzaro, professore ordinario di Diritto internazionale alla Sapienza -. E negli ultimi due anni l’ha violata continuamente e in maniera molto grave: attacca gli ospedali e distrugge i beni necessari per le cure. Il problema però resta il blocco navale. Quando fermerà le navi, Tel Aviv ribadirà ancora una volta che è legittimo”.
Tuttavia non è così. La Corte Internazionale di Giustizia ha confermato nel 2024 che l’occupazione imposta dallo Stato ebraico ai Territori Palestinesi è illegale e, di conseguenza, lo è anche il blocco marittimo. Nonostante ciò, Israele continua a imporlo, anche sulla scorta del “Rapporto Palmer” sulla strage della Mavi Marmara che nel 2011 definì l’embargo una “legittima misura di sicurezza per impedire che le armi entrino a Gaza via mare”.
Ma anche se il blocco fosse lecito, esso “deve essere attuato in conformità al diritto umanitario – spiega ancora Cannizzaro -, non può essere usato per affamare i civili e deve permettere il passaggio di aiuti umanitari”. Persino il Rapporto Palmer lo riconosce. Il paragrafo 33 del contestato rapporto indica che “il diritto consuetudinario rende illecito un blocco se il suo obiettivo è di affamare la popolazione ovvero di negare ad essa i mezzi essenziali per la sopravvivenza”. Spiega Cannizzaro: “Il blocco
navale ha lo scopo di arrecare danni all’economia del nemico. Ma è difficile che Israele possa nuocere alle finanze di Gaza più di quanto non abbia già fatto. Tel Aviv, inoltre, lo giustifica con esigenze di sicurezza al fine di evitare che Hamas si rifornisca di armi. Ma credo che neanche questa Flotilla, come la Sumud del resto, reca armi o strumenti funzionali allo scontro bellico”. In ogni caso “qualora anche il blocco fosse considerato legittimo – conclude il docente -, Israele dovrebbe abbordare le navi e, una volta appurato che esse non trasportano armi o materiali pericolosi ma solo personale sanitario e medicine, dovrebbe consentire loro di proseguire e far sbarcare il personale medico e i farmaci a Gaza”.
Intanto la navigazione prosegue. Una delle due barche della Freedom Flotilla Coalition, la Ghassan Kanafani, si è fermata a Creta per alcune riparazioni: la vela principale si è strappata e mentre veniva tirata in secco in porto ha subito danni allo scafo. La guardia costiera greca ha chiesto i documenti totali dell’imbarcazione e ha ritirato quelli del capitano, che non potrà ripartire fino a che lo scafo non sarà nuovamente certificato. E’ quasi impossibile che riprenda il mare. Neanche l’altra – Al Awda – è ripartita e probabilmente non lo farà. Conscience, intanto, prosegue sulla sua rotta. “Venerdì ci hanno raggiunto le 8 barche a vela di Thousand Madleens – conclude Fullone sull’ammiraglia -. Ora andiamo a sud, in direzione dell’Egitto.
Poi punteremo verso Gaza”. L’arrivo a ridosso della zona di mare che Israele considera di sua proprietà è previsto per mercoledì.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
LA STRIGLIATA DI “THE DONALD”, L’ULTRADESTRA CHE SCALPITA E L’OPPOSIZIONE PRONTA A SALVARE IL GOVERNO
«Bibi si è spinto troppo oltre e Israele ha perso molto sostegno nel mondo. Ora riporterò
indietro tutto quel sostegno». Così l’amico Trump, da Washington, prova a mettere fine all’idea diffusa che fra lui e Bibi, Benjamin Netanyahu, ci siano dissensi.
In un’intervista ad Axios il tycoon spiega che uno dei suoi obiettivi, con il cessate il fuoco a Gaza, è ripristinare la posizione internazionale di Israele, che resta isolato.
Ma evidentemente questo non basta agli analisti delle relazioni internazionali. Che continuano a vedere una certa distanza fra i due vecchi amici anche adesso che si sono intestati, ciascuno a modo proprio, il successo (sia pure non certo) di questo piano di pace per Gaza e tutto il Medio Oriente.
L’ultima occasione per questa lettura viene dalle dichiarazioni del premier israeliano subito dopo le parole di Trump sul «fermare immediatamente i bombardamenti», venerdì sera.
Hamas aveva appena dato la sua risposta, sulla liberazione degli ostaggi e sull’accordo accettato «con riserva», e un funzionario israeliano (citato dal reporter israeliano-americano Barak Ravid) ha riferito di un Bibi «rimasto sorpreso» da quella richiesta. Sorpreso perché poco prima che Trump parlasse aveva detto ai suoi consiglieri di considerare la risposta di Hamas un rifiuto.
Nelle ore successive altri funzionari (anonimi come il primo) hanno spiegato al principale quotidiano israeliano che no, non è vero che il primo ministro è stato colto di sorpresa dalla richiesta di Trump. «Non c’è stata alcuna sorpresa, tutto è stato coordinato fra lui e il presidente Trump che hanno parlato prima dell’annuncio».
Qual è la versione più credibile? Nel video che lui ha registrato ieri sera per la stampa non fa cenno a nulla di tutto questo, non smentisce né conferma la «sorpresa» riferita nelle prime ore, né dice alcunché su telefonate fra lui e Trump prima delle dichiarazioni ufficiali sulla risposta di Hamas.
E c’è chi vede in questo andare oltre un messaggio per i suoi alleati di governo ultranazionalisti: lasciar credere, in sostanza, che lui abbia accettato la risposta di Hamas più per seguire l’entusiasmo dichiarato di Washington che per aver creduto davvero alle intenzioni di pace del movimento islamista.
Altri ci vedono invece quello che scriveva ieri il New York Times : «Netanyahu si trova ora schiacciato sia dalle preoccupazioni politiche interne sia dalla pressione geopolitica di Trump, delle nazioni musulmane e arabe del Medio Oriente e dei Paesi più lontani, che hanno accolto gli sviluppi di venerdì sera come se la pace fosse già scoppiata».
«Si ritroverà con tutto il mondo ad applaudire e dovrà spiegare perché è contrario», ha detto al quotidiano Usa Eran Etzion, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliana. E ancora: «L’appello del presidente al ritiro immediato dell’esercito israeliano — con conseguenti negoziati tra Israele e Hamas — non poteva essere accolto con favore dal primo ministro.
Questi negoziati saranno condotti alle condizioni di un cessate il fuoco, il che è contrario al progetto di Netanyahu». Di sicuro il premier israeliano ha un problema di stabilità del suo governo.
Da tempo, ma più evidente in queste ultime settimane. L’ultranazionalista ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ieri ha scritto su X che «la decisione di fermare l’offensiva a Gaza e di condurre negoziati per la prima volta senza essere sotto attacco è un grave errore. Una ricetta sicura per il temporeggiamento di Hamas e una crescente erosione della posizione israeliana».
Il suo collega Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, ha minacciato di lasciare il governo se «Hamas continuerà a esistere». Voci grosse ma il potere è difficile da abbandonare. E per ora una frattura vera non c’è.
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
“SE LE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI SONO DIVENTATE COSÌ FRAGILI È PERCHÉ HANNO TRADITO LA PROMESSA FATTA ALLE CLASSI MEDIE. DOBBIAMO RI-VALORIZZARE IL LAVORO CON LE SCELTE FISCALI, PERCHÉ OGGI TASSIAMO IL LAVORO PIÙ DEL CAPITALE E PIÙ DELL’EREDITÀ, E POI ALZARE I SALARI, E OCCUPARCI DELLE CONDIZIONI DI LAVORO”
Neanche cinquemila abitanti sulle rive della Garonne, nella campagna a un’ora di treno da Bordeaux, il piccolo comune de La Réole diventa uno dei nuovi e inaspettati centri della politica francese perché Raphaël Glucksmann tiene qui per tutto il weekend, molto lontano da Parigi, gli incontri e i comizi del suo movimento Place publique.
In una Francia sempre più divisa tra l’élite della capitale e il resto del Paese, l’eurodeputato parigino e cosmopolita Glucksmann vede nella provincia il territorio di una possibile riconquista progressista.
Alla vigilia della nascita o della morte immediata del governo Lecornu (che andrà in parlamento martedì), di nuovo in testa ai sondaggi a sinistra per l’Eliseo 2027, poco prima di salire sul palco Glucskmann parla del futuro della Francia e dell’Europa.
Dopo Barnier e Bayrou, il nuovo premier Lecornu riuscirà a non farsi bocciare? A quali condizioni voi della sinistra moderata accetterete di tenerlo in piedi?
«Rispetto alle nostre richieste, finora Sébastien Lecornu ha chiuso le porte in modo chiarissimo, e quando ha cominciato ad aprirle lo ha fatto in modo molto confuso.
Ci aspettiamo una rottura vera su questioni fondamentali come la giustizia fiscale, i salari troppo bassi, il potere d’acquisto. Non è normale che i macronisti continuino a esercitare il potere come se niente fosse cambiato, quando nessuno ha la maggioranza e tantomeno loro. Devono ascoltare le richieste dei francesi».
Per esempio la tassa Zucman sui super-ricchi?
«Siamo riusciti a porre la giustizia fiscale al centro del dibattito pubblico, obbligando tutti a prendere posizione. Lecornu è contrario alla tassa Zucman? Noi non siamo ossessionati dal nome, possiamo valutare altre soluzioni che vadano però nello stesso senso, cioè rispondere all’indignazione dei francesi e obbligare i miliardari a partecipare allo sforzo fiscale. Per adesso quel che propone il premier non basta affatto»
Lei è noto per le prese di posizione internazionali e le battaglie contro le autocrazie di Russia e Cina, ma negli ultimi tempi parla molto più di lavoro, salari, potere d’acquisto. Come mai?
«Perché mi pongo la questione di come rafforzare le nostre democrazie occidentali di fronte all’avanzata dell’estrema destra, e il fattore fondamentale è il lavoro. In Francia, le classi attive votano in massa per il Rassemblement national.
Poi pensionati e studenti si mobilitano e riescono a porre un freno all’avanzata con il successo dei vari fronti repubblicani, ma questa è la situazione. Non riusciremo a fermare l’ondata populista se non ascoltiamo la frustrazione dei lavoratori e se
non li mettiamo al cuore del contratto sociale».
Insomma la sinistra deve ripartire dal lavoro?
«Sì. Se le democrazie occidentali sono diventate così fragili è perché hanno tradito la promessa fatta alle classi medie e popolari dopo la Seconda guerra mondiale: grazie al lavoro riusciremo a migliorare le condizioni di vita.
Ha funzionato grosso modo fino agli anni 90 o Duemila, ma oggi in Francia il lavoro non basta ad arrivare alla fine del mese, tanto meno a comprarsi una casa.
L’eredità è troppo importante, non è giusto. Dobbiamo ri-valorizzare il lavoro con le scelte fiscali, perché oggi tassiamo il lavoro più del capitale e più dell’eredità, e poi alzare i salari, e occuparci delle condizioni di lavoro. La Francia ha il record delle morti sul lavoro, è inaccettabile. E poi c’è anche una questione di identità che non va più ignorata».
Parla del patriottismo?
«Sì, dobbiamo riflettere, la sinistra moderata non deve abbandonare l’amore per la Francia all’estrema destra, o a Mélenchon, che in fondo un’idea, quando parla della Francia creolizzata, ce l’ha».
In Italia in questi giorni la sinistra è mobilitata soprattutto per la Flotilla per Gaza. Le priorità sono diverse in Francia e in Italia?
«Si può difendere il lavoro e anche uno Stato palestinese. Io critico il presidente Macron su quasi tutto, ma sul
riconoscimento ha fatto bene e ha avuto un peso sul piano di pace Trump. La premier Meloni ha fatto una scelta diversa».
Le priorità oggi sono di politica interna?
«Rifiuto la gerarchia, tutte le questioni sono legate. Se l’Europa è debole di fronte a Putin o Xi Jinping, è perché abbiamo smesso di essere società di produzione e del futuro. Io credo in una Francia potente, in un’Europa potente, l’unico modo è tornare a essere una società di lavoratori».
Quale linea terrà nei prossimi giorni cruciali, e nelle possibili elezioni?
«Una linea chiara e inderogabile: né con Macron né con Mélenchon».
Correrà per l’Eliseo?
«È ancora presto. Se lo farò, sarà per vincere».
(da “Corriere della Sera”)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
LA RISPOSTA ALLA DOMANDA: “TU DOV’ERI MENTRE UCCIDEVANO I BAMBINI”
Un ebreo con la kefiah, “manifesti” scritti su scatole di cornflakes, striscioni da Salerno
o da Lecco, un simbolo palestinese messo insieme con pezzi di tovaglia. Il racconto della giornata di Roma fa capire che bisognava proprio non esserci per cercare e l’incappucciato tra un milione di teste ed eleggerlo a portavoce-rappresentante. Non è l’odio per Meloni né l’antisemitismo che tiene insieme quel milione di persone ma lo sgomento per ciò che avviene sotto gli occhi del mondo
La bandiera cucita da nonna, i bus partiti all’alba, i cartelli di cui non si parla: vi racconto il corteo per Gaza. Quella marea umana risponde alla domanda: “Tu dov’eri mentre uccidevano i
bambini?”
In corteo ho visto una signora con una bandiera palestinese cucita a mano con pezzi della tovaglia: “L’ha fatta mia mamma”. I bambini di una scuola elementare cantare: “Siamo il grido altissimo e feroce di tutti quei bambini che più non hanno voce”. Un ebreo con la kefiah. Una ragazza trasformare una lingua morta in una viva: “Cogito, ergo Sumud”, aveva scritto sul cartello. Sumud, la parola intraducibile per dire del resistere con perseveranza dei palestinesi, del ricostruire le case che i bulldozer dei coloni israeliani tirano giù. Ho visto cartelli scritti sul retro della scatola dei cornflakes, striscioni di ogni città con i suoi abitanti al seguito: Salerno per Gaza, La Sabina per la Palestina: “Mamma, ma Lecco non è lontanissima?”. “Sì”. Famiglie in pullman per ore, in marcia per ore, bambini in braccio, nonne scortate dai nipoti per stare dove bisognava stare: al fianco di chi non tollera che non si faccia niente per fermare il genocidio. Pigiati stretti, con chi come te non accetta di fare come se niente fosse mentre le bombe e la fame uccidono e chi sgancia quelle bombe spaccia lo sterminio per legittima difesa, sostiene che la distruzione di ogni ospedale e casa sia una necessità, che sparare ai civili in fila per il pane serva a garantire l’ordine, che bloccare le navi cariche di aiuti umanitari serva a far rispettare la legge. Che balle! Che scandalo! Come osano? Perché nessuno li ferma? Come non infuriarsi? Dove altro stare se non qui?
Non ho visto né la testa né la coda del fiume in piena che ha rotto gli argini del silenzio e della complicità. Seguivo il moto di gambe e zaini e cartoni trscinata dalla marea pacifica e risoluta e pensavo ai giornalisti che in questi due anni hanno fatto da scorta mediatica al genocidio. Pensavo che mentre noi eravamo lì a sventolare bandiere arrivate da Trento e da Bari loro erano in redazione o in salotto a descrivere il clima d’odio di un corteo al quale non aveva preso parte, a spacciare per odio il suo contrario: la compassione. A muovere il corteo era l’indignazione collettiva per lo sterminio di migliaia di innocenti, la rivolta contro l’oppressione e i suoi complici, la rabbia nei confronti di un governo che non fa niente per fermare il genocidio. Era palpabile, e bisognava proprio non esserci per raccontare la giornata cercando tra un milione di teste il vandalo, il teppista, il fiancheggiatore del terrorista, l’infiltrato incappucciato allontanato dai manifestanti, a eleggerlo rappresentante e portavoce di questo fiume umano di persone presenti per una ragione semplice: non si capacitano di come non si riesca a fermare Israele. L’ho detto e uno ha commentato: “I giornalisti dicano quello che vogliono, noi invece vogliamo quello che diciamo: basta genocidio“.
Vorrei rassicurarvi, colleghi che non c’eravate. La forza che gonfia questa moltitudine infinita e variegata e la tiene insieme
non è l’odio, non è il pregiudizio nei confronti di Giorgia Meloni, non è l’antisemitismo che agitate a sproposito per giustificare lo sterminio e la pulizia etnica in Palestina. È questo preciso sgomento: “Come può compiersi un genocidio sotto gli occhi del mondo?“. La forza che muove i cortei che da giorni riempiono le piazze non è quella che lancia una molotov ma quella che muove le mani che scrivono sul cartone “I popoli salvano i popoli” e “Il popolo italiano resta umano” e “Nicaragua con vos” e “Un Weekend lungo quanto un genocidio” e “I bambini contano ma fino a un certo punto” e “Che straminchia ho studiato a fare giurisprudenza se il diritto internazionale vale fino a un certo punto?”. L’energia che alimenta le manifestazioni per la Palestina è quella che muove la mano che cuce la bandiera di un altro per farne la propria, portarla in piazza, dire “Non in mio nome”, perché quando i figli, i sopravvissuti, ci chiederanno “Ma tu dov’eri? Anche tu lasciavi correre mentre ammazzavano i bambini come mosche?” bisognerà poter dire loro che No, io ho cercato di fermarli, io ho digiunato, pregato, smesso di pregare, perso il sonno, perso gli amici che lasciavano correre, fatto amicizia con chi era preoccupato come me, smesso di comprare il giornale che compravo prima perché sembrava non gli importasse niente dei civili morti e trovava sempre una giustificazione e io allora ho studiato, ho capito, ho boicottato, io ho cercato di bloccare tutto, io, papà e un milione di altre persone che quel giorno “La vedi questa foto? Abbiamo preso il pullman all’alba per andare a Roma. La vedi la bandiera? L’ha cucita nonna, con l’asciugamano, la tovaglia e il panno verde del tavolo da gioco“
(da il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
IL GENERALE ACCOLTO DAI FISCHI DI UN CENTINAIO DI CONTESTATORI
Livorno, simbolo storico della sinistra italiana, è diventata per un giorno la vetrina dell’estrema destra europea. Sul lungomare, all’interno del Grand Hotel Palazzo, si è infatti tenuto il “Remigration Summit 2025”, un incontro promosso dall’associazione Teseo Tesei, intitolata a un membro della X Mas, insieme alla Lega e ad alcune sigle del sovranismo internazionale, tra cui esponenti dell’Afd tedesca. Ospite principale Roberto Vannacci, generale ed eurodeputato, oggi vicesegretario della Lega e volto di punta della linea più dura del partito. La scelta di Livorno, spiegano gli organizzatori, non sarebbe casuale: “Saremo nella città più rossa, nella regione più rossa”, avevano annunciato, trasformando l’appuntamento in una vera e propria sfida politica e culturale; il convegno, che si colloca sulla scia del raduno di Gallarate dello scorso maggio e in vista del Remigration Summit 2026, è parte di un progetto che intende costruire una piattaforma comune tra movimenti identitari europei.
Parola d’ordine: “Remigrazione”
Il concetto di remigrazione è un’idea che evoca l’espulsione o la deportazione di massa degli stranieri dall’Occidente, inclusi quelli in regola, sulla base di criteri etnici, culturali e religiosi.
In sala, circa 150 persone hanno seguito gli interventi in cui si è parlato anche di “difesa dell’identità europea”, con richiami storici come l’assedio di Vienna del 1529 o il desiderio di “una nuova Lepanto”; il messaggio, ribadito più volte, è sempre lo stesso: riportare nei Paesi d’origine chi “non si adatta alle nostre leggi e ai nostri costumi”.
A rispondere alla provocazione, fuori dall’albergo, un centinaio di manifestanti che, disposti proprio di fronte all’ingresso principale presidiato dalle forze dell’ordine, hanno intonato cori,
sventolando bandiere palestinesi e un grosso striscione che recitava: “Fuori i fascisti da Livorno – Free Palestine”, definendo l’evento un insulto alla storia antifascista della città. E mentre le bandiere sventolavano fuori, alcuni giovani simpatizzanti della destra, prima di entrare in sala, hanno lanciato gesti di sfida e insulti verso i manifestanti; la situazione, così, si è fatta tesa, ma l’intervento tempestivo della polizia ha impedito lo scontro diretto. Per evitare contatti, Vannacci è entrato da un ingresso laterale.
Il nodo politico
Nei giorni scorsi il Partito Democratico locale e alcune sigle della sinistra avevano chiesto al Comune e alla Prefettura di vietare l’evento, definendolo “contrario ai principi costituzionali” e accusando gli organizzatori di propagandare teorie razziste. Ma dopo una valutazione congiunta, Prefettura e Questura hanno dato ugualmente il via libera, stabilendo che non vi fossero elementi tali da configurare reati o violazioni della Costituzione: “Non sono emersi incitamenti diretti all’odio o alla violenza”, è la conclusione delle autorità, che hanno ritenuto l’incontro non anticostituzionale. L’evento si è quindi svolto regolarmente, sotto stretto controllo di polizia e carabinieri.
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
“SONO MOVIMENTI CHE NON HANNO UN’ORGANIZZAZIONE E MAGARI NON VOGLIONO NEANCHE DARSELA. IL TEMA DIVENTA PROPRIO QUESTO: A CHI SPETTA DARE UNA FORMA POLITICA AL SENTIMENTO E COME” – “LA VIOLENZA VA CONDANNATA E NON VA MINIMIZZATA. GIORGIA MELONI È IMPEGNATA CON LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO? LA RISPOSTA DEVE ESSERE NON A CHI URLA PIÙ FORTE, MA LA TRANQUILLITÀ DI CHI INDICA SOLUZIONI”
In piazza a Genova c’era anche Sergio Cofferati, il “Cinese”. Uno che di mobilitazioni se
ne intende. Da segretario della Cgil riempì, nel lontano 2002, il Circo Massimo con tre milioni di persone a difesa dell’articolo 18: «Vedo, in tutte le manifestazioni di questi giorni, tutta un’altra storia rispetto a un’antica tradizione nelle relazioni tra partiti o sindacati e popolo. E sarebbe un errore mettere a questa storia le braghe di ciò che si conosce. Rischi di non capire “chi sono” e “cosa vogliono” quelli che manifestano».
Ecco, chi sono e cosa vogliono?
«Ho visto giovani e anziani, lavoratori e precari, alunni e professori. Figure diverse, tenute assieme però da un sentire comune su due temi: il rifiuto della guerra e la difesa dei diritti che la violenza uccide. Ho visto ieri anche incappucciati e frange radicalizzate, ma non si spiega solo con loro una manifestazione di quelle dimensioni».
Insomma, è scattato un movimento, dentro cui c’è di tutto, potabile e impotabile.
«La molla è l’indignazione per quel che sta accadendo e di anelito alla pace. E questo sentimento si manifesta in forme soprattutto spontanee. La mobilitazione non nasce da una piattaforma o da una dimensione “politica” in senso classico, se
non in parte. Vale per quella di venerdì e ancor di più per quella di ieri, che ha tratti di radicalità e di disordine ancora più marcati».
Che dimensione politica ha questo movimento?
«Sono più movimenti politicamente informi. Non è un giudizio, ma un dato di fatto. Infatti sono movimenti che non hanno un’organizzazione e magari non vogliono neanche darsela. Per questo il tema oggi diventa proprio questo: a chi spetta dare una forma politica al sentimento e come darla».
Qui però c’è un problema. Politica e sindacato si sono accodati. Come fa a guidare chi si accoda?
«Qui c’è la sfida vera. Non c’è dubbio: quelli sollevati – la guerra, i diritti – sono temi che dovrebbero riguardare la politica. Aggiungo: la grande politica. E invece, in questo caso, politica è arrivata dopo la dimensione sociale. Tuttavia questa crisi di rappresentanza non può essere una giustificazione. Bisogna misurarsi con la risposta».
Come?
«E i pilastri dell’azione cui sono chiamati partiti e sindacati, di fronte alla novità di una grande partecipazione, sono due, irrinunciabili: la ricerca del confronto e il rifiuto della violenza.
Questa folla, anche se non vuole, va aiutata a darsi un assetto organizzato, facendo emergere la parte più propositiva e isolando l’estremismo. Chi è organizzato deve provare a farli camminare in questa direzione».
Dia un giudizio degli episodi di violenza di questi giorni.
«Vanno condannati, al pari di certi slogan antisemiti, perché in una democrazia tutte le opinioni sono legittime, anche le più radicali, con un unico discrimine: la violenza. E non vanno minimizzati, perché se il comportamento di una minoranza viene considerato banale o accettabile, esso può crescere. E questa crescita porta in sé due rischi».
Quali?
«Il primo è quello di sporcare le sacrosante ragioni di chi manifesta in modo pacifico e rispettoso. Secondo: ridurre il consenso attorno al tema, alimentando l’altrui riflesso d’ordine».
Vecchia storia la criminalizzazione del dissenso. Ci provarono ai tempi del suo Circo Massimo, utilizzando l’omicidio di Marco Biagi.
«Vedo impegnata all’opera anche l’attuale presidente del Consiglio. Allora andò male perché rispondemmo con una grande “forza tranquilla”, schierata in difesa dei diritti e della democrazia. Anche oggi la risposta deve essere non a chi urla più forte, ma la tranquillità di chi indica soluzioni e prospettive sui temi che hanno suscitato l’emozione collettiva delle piazze».
guerriglia alla manifestazione nazionale per la palestina di roma
Lei dice “confronto”. Non vedo chi possa guidare. Questo movimento considera la sua crescita come sbocco. Non
riconosce interlocuzioni.
«La cosa impressionante è che la rappresentanza tradizionale, in entrambe le manifestazioni, stava in mezzo a una platea di persone sconosciute. Queste persone non vengono a casa tua, devi essere tu in grado di proporre una discussione leale e trasparente e forme di organizzazione anche nuove. Se non lo fai, proprio perché “informe”, quella massa può essere soggetta a spinte nella direzione di una radicalizzazione».
Ecco, i contenuti. Tra essi magari c’è un giudizio sul piano di pace. Financo Hamas sta riflettendo. In Italia è stato liquidato come “colonialismo”.
«Da un lato è giusto che organizzazioni che si misurano sul tema della rappresentanza cerchino un calore sociale nei movimenti. Dall’altro è necessario che ci stiano senza perdere il contatto con la grande storia. Essere contro la guerra significa essere per i due popoli e per tutte le soluzioni che vanno in quella direzione».
Cofferati, però, diciamocelo. Non sarà che la Cgil ha cercato di supplire con la politica a un corpo sociale infragilito?
«Ci sono dei ritardi, e non da oggi. Penso al fatto che lo Statuto dei lavoratori è del 1970, non tutela una parte consistente del mondo del lavoro e non c’è verso che questo entri al centro della discussione.
Non do colpa alla Cgil, che anzi fa degli sforzi. Però penso che la Cgil dovrebbe provare a sollecitare anche Cisl e Uil sul tema
dei diritti».
Ma lei avrebbe scioperato?
«Lo sciopero è uno strumento antico, importantissimo, indispensabile. Non va abbandonato, bisogna usarlo ragionevolmente, nelle situazioni nelle quali è efficace. E va accompagnato anche da una dimensione politica che deve stare in campo, non necessariamente attraverso lo sciopero: iniziative, confronti, discussioni, manifestazioni. Non devi cambiare la natura dello sciopero se ne vuoi mantenere l’efficacia».
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
DA ALTERNATIVA AL SISTEMA A SERVI DI UN CRIMINALE… ALTRO CHE “BOIA CHI MOLLA” SIETE AL SERVIZIO DI UN BOIA
Un gruppo di circa trenta persone armato di caschi e bastoni ha assaltato ieri sera un pub a piazza Vittorio al grido di ‘Boia chi molla’. A essere presi di mira, alcuni avventori che si stavano rilassando ai tavolini del locale dopo la manifestazione della Palestina, tra cui due stranieri.
Paura ieri sera a Roma, nella zona di piazza Vittorio. Un gruppo di circa trenta persone col volto coperto e armato di caschi e bastoni ha aggredito alcune persone che si trovavano davanti a un locale in via Leopardi, di fronte agli ex magazzini Mas. Ad
avere la peggio, sarebbero stati soprattutto due ragazzi stranieri, colpiti con caschi e bastoni. A far allontanare il gruppo, dopo circa cinque/sei minuti di pestaggio, le grida degli altri presenti, spaventati dall’accaduto.
“Ero andata nel locale insieme al mio compagno e ai miei figli piccoli dopo il corteo per Gaza”, ha spiegato G. a Fanpage.it, ancora molto scossa per l’accaduto. “Verso le 23 ci siamo alzati per avviarci verso la macchina e tornare a casa quando abbiamo visto un gruppo di trenta persone bardate, con i caschi in testa e bastoni in mano, arrivare verso di noi cantando ‘Faccetta nera’ e ‘Boia chi molla’. In pochissimo secondi si sono avventati sulle persone che si trovavano all’esterno del locale, colpendole ripetutamente e accanendosi soprattutto contro due ragazzi stranieri. Il mio compagno e un altro ragazzo hanno provato a intervenire per calmare gli animi, dicendo che c’erano anche dei bambini in quel posto, e di andare via. Per tutta risposta gli hanno lanciato contro delle sedie, fortunatamente non prendendoli”.
L’aggressione, secondo quanto riportato da G., sarebbe andata avanti circa cinque minuti. “È stato orribile, dentro il locale c’era una bimba piccola che si era addormentata mentre i genitori cenavano, ero terrorizzata potesse farsi male e le succedesse qualcosa. Fortunatamente ho saputo che si sono riuscite a nascondere”.
Al locale erano presenti diverse persone che quel pomeriggio avevano partecipato alla manifestazione per la Palestina. Un corteo enorme, al quale hanno partecipato un milione di persone secondo quanto riportato dagli organizzatori, che ha sfilato da Porta San Paolo a piazza San Giovanni. Proprio nella zona di piazza Vittorio, al termine della manifestazione, si sono registrati dei pesantissimi scontri tra polizia e manifestanti. Sempre nel pomeriggio, in via Napoleone III, un gruppo ha cominciato a lanciare delle bottiglie verso la sede di CasaPound, a cui i militanti hanno risposto con lancio di oggetti.
“Hanno aggredito le persone con le kefiah e quelle con la bandiera della Palestina, ma soprattutto si sono accaniti con i due ragazzi stranieri prendendoli a cascate. Ho provato a fermare una volante della polizia che passava, mi hanno detto che avrebbero segnalato la cosa alla centrale operativa e che sarebbero intervenuti i colleghi, ma lì non è mai arrivato nessuno almeno fino a che c’ero io. Quella squadraccia neofascista se n’è andata dopo cinque minuti buoni, nonostante ci fossero bambini terrorizzati e glielo avessimo pure detto”.
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2025 Riccardo Fucile
SONO I SOLITI, DA ANNI: PENETRANO IN TUTTE LE MANIFESTAZIONI PER POI CERCARE LO SCONTRO CON LE FORZE DELL’ORDINE … I MOVIMENTI PRO-PAL “UFFICIALI” LI HANNO CACCIATI DAL CORTEO
Oceano Gaza. Questo il colpo d’occhio, ieri a Roma, dove un milione di persone sono
scese in strada per la Palestina.
Il corteo nazionale per Gaza ha raggiunto numeri record. Poi sono arrivati loro, i professionisti del disordine che hanno cercato disperatamente di trovare uno spazio sin dall’inizio.
Ma non ci sono riusciti. Gli organizzatori degli eventi, più o meno in tutta Italia, hanno imposto le loro regole: si rispettano i percorsi concordati con le forze dell’ordine, si rispettano le regole, si porta avanti un dissenso determinato ma pacifico.
Ieri, nella Capitale, gli incappucciati sono stati cacciati dalla piazza tra urla, fischi e qualche vivace discussione. «Dovete andarvene, non ci rappresentate. Così rovinate la causa. Non si può combattere la guerra facendo la guerra». E qualcuno è stato anche costretto a scoprirsi il volto: «Fatti vedere, mettici la faccia se vuoi fare casino. Ci sono anziani, bambini, ma siete impazziti? Lotta violenta, perché mai?».
Emarginati dal corteo anarchici, antagonisti e violenti vari volevano lo scontro. A prescindere. Di Gaza, in fondo, non importa nulla: l’obiettivo è attaccare la polizia, creare il caos.
Le forze dell’ordine hanno bloccato alcuni violenti davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Da lì, la chiamata alle “armi”. Il gruppo “nero”, circa duecento persone, si sposta da quelle parti. Lancio di petardi, bombe carta, bottiglie di vetro e così via. Due auto, di cui una delle forze dell’ordine, date alle fiamme, cassonetti incendiati per creare delle barricate. Polizia, carabinieri, guardia di finanza li respingono con idranti, lacrimogeni e cariche.
I tafferugli vanno avanti sino a tarda sera. L’obiettivo è trovare un blindato da assaltare oppure occupare la stazione Termini, ma mancano i numeri e così gli incappucciati si disperdono per le
vie della Capitale.
Alcuni vanno all’Esquilino, altri sotto la sede di Casapound. Lì la scena sfiora il grottesco. Anarchici e antagonisti lanciano delle bottiglie e qualche petardone contro il palazzo, i fascisti del terzo millennio, come amano definirsi, rispondono con altre bottiglie dalle finestre. «Codardi», urlano da un lato. «M***e», reagiscono dall’altro. Le schermaglie durano qualche minuto.
Chi sono questi professionisti del disordine? Anarchici e militanti dell’ala più dura di alcuni centri sociali. Sono arrivati da Torino, Milano, Piacenza, Bologna, Firenze, Trento, pochissimi romani.
Prima dell’inizio del corteo, la polizia, impegnata in controlli in città e ai caselli, aveva indentificato 105 persone. Sedici sono bloccate: negli zaini avevano bastoni, petardi, maschere antigas e così via. Altre 136 persone sono state identificate al termine della giornata. Sedici i fermati e un arresto. Quaranta gli agenti contusi durante gli scontri.
(da La Stampa)
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