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E ANCHE STAVOLTA IL GOVERNO NON HA APPROVATO UNA TASSA SUGLI EXTRAPROFITTI DELLE BANCHE

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

ECCO QUALI SONO REALMENTE LE MISURE CHE NON GARANTISCONO NEANCHE LE ENTRATE ANNUNCIATE, IN QUANTO IN BUONA PARTE VOLONTARIE E DI ENTITA’ MINORE … SOLO ANTICIPO DI LIQUIDITA’, LA DISTRIBUZIONE DEGLI UTILI SARANNO SOLO SU BASE VOLONTARIA E QUINDI NON CERTA, DALL’AUMENTO DELL’IRAP UNICA REALE ENTRATA, MA I MERCATI HANNO STAMANE GIA’ REAGITO CON UN CALO NEL SETTORE DEL CREDITO

“Non ci sarà nessuna tassa sugli extraprofitti delle banche”, ci ha tenuto ad assicurare il vicepremier Antonio Tajani, intervenuto durante la conferenza stampa a margine del Consiglio dei ministri che ha dato il primo via libera alla manovra 2026.
A chiarire in cosa consisterà il contributo richiesto a istituti di credito e assicurazioni ci ha pensato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che ha parlato di un “mix di misure di carattere strutturale e congiunturale”, nell’ordine: aumento del 2% dell’Irap, il rinvio delle dta fino al 2027 e un’imposta ridotta al 27,5%, anziché al 40%, per le banche che sceglieranno di distribuire gli utili maturati nel 2023 e messi a riserva.
Anche quest’anno la questione dell’aiuto da parte degli istituti di credito aveva innescato tensioni all’interno della maggioranza, specie tra Forza Italia e Lega. Per Tajani l’idea di tassare i ricavi extra delle banche resta un’ipotesi fuori discussione – “un’imposta da Unione Sovietica” l’ha definita – mentre Salvini pochi minuti prima del Cdm ribadiva che “chi ha di più deve dare di più”. Le banche “quest’anno chiuderanno con profitti per
oltre 50 miliardi di euro, se ne guadagneranno ‘solo’ 45…penso che sia una cosa utile anche per gli anni a venire”, ha detto.
Alla fine anche stavolta, non ci sarà nessuna tassa sugli extraprofitti. L’ultimo confronto notturno a Palazzo Chigi ha portato all’intesa tra i leader su come intendono ricavare da banche e assicurazioni le coperture necessarie per finanziare una parte degli misure in manovra e che dovrebbero ammontare, complessivamente, a 11 miliardi per il triennio 2026-2028 secondo quanto previsto dal Documento programmatico di bilancio. “Abbiamo chiesto una mano, non c’è nessun intento punitivo da parte nostra”, ha sottolineato Meloni.
Come dicevamo, gli interventi saranno tre. Innanzitutto le risorse arriveranno dal rinvio sulle Dta già previsto nella scorsa manovra e ora prorogato.
Parliamo di crediti di natura fiscale che le banche dovranno aspettare ad utilizzare, almeno fino alla fine della legislatura.
In questo caso però non ci troviamo davanti a un vero e proprio prelievo fiscale, ma piuttosto a un anticipo di liquidità, cioè una sorta di prestito che poi verrà restituito agli istituti.
Altre risorse dovrebbero arrivare dalla tassa pagata sullo svincolo delle riserve maturate nel 2023, che passerà dal 40% al 27,5%. Il taglio, secondo la logica del governo, dovrebbe incentivare le banche a distribuire gli utili messi a riserva e quindi, a farsi carico dell’imposta ridotta. Si tratterà comunque, di un’opzione volontaria, “discrezionale”, ha chiarito Giorgetti.
“Alle banche diamo la possibilità di liberare le riserve ad un aliquota più vantaggiosa poi se le banche li porteranno a riserva, li porteranno a riserva”, ha detto il ministro, che si aspetta “uno sforzo di sistema, perché il fatto che miglioriamo i rating ha effetto anche sulle banche”.
Dal momento che sarà un contributo volontario, resta però da capire se effettivamente le banche pagheranno e in caso, che cifre sarà in grado di recuperare il governo. Il rischio infatti, è che in pochi scelgano di optare per la tassazione ridotta e che tutti ciò possa tradursi in un gettito nullo o al di sotto delle aspettative.
Colpirà invece tutti gli istituti, indistintamente, l’aumento dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Un incremento di due punti percentuali che potrebbe far storcere il naso, ma che secondo Giorgetti è assolutamente sopportabile. “Riteniamo che l’impatto sia accettabile tenendo conto che abbiamo un sistema solido e profittevole come ha detto ieri Panetta (il governatore della Banca d’Italia, ndr) al G20”, ha detto.
Ma se una parte delle misure sono state “concordate” nelle interlocuzioni avute fino a poche ore fa, un’altra parte, come quella sull’Irap, saranno “accettate a malincuore”, ha detto il titolare del Mef. “A nessuno fa piacere pagare le tasse”, ha commentato. Ora la palla passa agli istituti, che valuteranno come accogliere la decisione del governo. Intanto una prima reazione è arrivata dai mercati questa mattina, in forte calo nel settore del credito, dopo la notizia dell’intesa.
(da Fanpage)

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LA “PATRIOTA” GIORGIA MELONI NON FUMA SIGARETTE ITALIANE

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

IL FUMO FA MALE AL SOVRANISMO… VOGUE FA CHIC, SONO PRODOTTE DALLA BRITISH AMERICAN TOBACCO

Erdogan le dice di smettere di fumare, ma Meloni, patriota fino al filtro, si accende una Vogue: sigaretta della British American Tobacco, la stessa che si è comprata le MS. Il fumo fa male, al sovranismo.
Lo ammetto, io da Giorgia Meloni, presidente del consiglio al maschile, anche se è una bella donna certificata da Donald Trump, mi sarei aspettato che partisse de capoccia contro Erdogan quando le ha detto che doveva smettere di fumare.
O quantomeno un’elegante e meno evidente ginocchiata in quelle palle turche. Che poi non si diceva “fumare come un turco”? Quale è il colmo per un presidente della Turchia? Dire al premier (maschile) italiano di smettere di fumare. E quale è il colmo per un presidente del consiglio italiano, sovranista, campanilista, nazionalista, ita(g)lianista, confinista, tutta a favooooore dei prodotti di origine nazionale controllata certificata ita(g)liana pura? Fumare le Vogue.
Sigarette oramai della BAT, la British american Tobacco, la stessa multinazionale che si è comprata le MS. E già, addio Nazionali, Nazionali senza filtro, addio Esportazioni, carine, piccole, minute, micidiali.
Ma comunque, anche se abbiamo perso le nostra bandierine nicotinose ci sono ancora sigarette prodotte in Italia, ad esempio le Chiaravalle, molto chiare verdi e dolci acque che fanno molto come se ti fumassi direttamente il Petrarca.
E invece, dopo che le hanno detto bionda, come le sigarette, la Meloni Italica, orgoglio della produzione Nazionale come la Gioventù che si riunisce ad Atreju, dopo che il turco (mamma li turchi) le ha detto di smettere, che fa? Si fa fotografare con le Vogue? Che poi, a pensarci, Giorgia è la testimonial perfetta per la Vogue, una sigaretta rivolta a un pubblico femminile, l’essenza di un brand di una ragazza de borgata che si fa da sola con un occhio allo Women’s Empowerment e l’altra allo stile un po’ jet set della donna che non deve chiedere mai, quell’aspirazione nobile alla scalata di un mondo maschile in cui brillare di biondaggine e stile guardando dall’alto in basso anche, che ne so, Anna Wintour, che lei però veste ita(g)liano perché Miuccia non vende e tu che fai, Giorgia? Mi fumi le Vogue? Come se, tipo, Anna Wintour fosse più importante di te? Ma ti devo spiegare tutto io, Giorgia? Ma comunque. Adesso io non lo so se tu ed Erdogan avete fatto, tipo, la combine sponsorizzatoria con tanto di foto a favore di paparazzo e se la BAT vi sta facendo il bonifico.
Vorrei solo porre alla tua Cortese Attenzione che in questo articolo il marchio Vogue e il marchio Bat sono ultracitati (ma anche il marchio italico Chiaravalle), quindi, se proprio volete, basta scrivermi una email e vi mando il mio IBAN.
P.S. Sono anche fumatore. Però non accetto stecche di Vogue: fumo il trinciato Pueblo ché mi sanno di revoluciòn o le sigarette American Spirit, quando le trovo, perché le fumava David Foster Wallace. Quindi i bonifici vanno benissimo. Al Vostro Buon Cuore.
Ottavio Cappellani
(da mowmag.com)

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COSA SUCCEDE SE PUTIN METTE PIEDE IN EUROPA? IL TRAGITTO RISCHIOSO DA MOSCA FINO ALL’UNGHERIA PER IL VERTICE CON TRUMP

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE: “DOVETE ARRESTARLO”… SE L’EUROPA NON FOSSE UNA BARZELLETTA DI STATI CACASOTTO, L’AEREO ANDREBBE INTERCETTATO E FATTO ATTERRARE PER POI PROCEDERE ALL’ESECUZIONE DEL MANDATO DI CATTURA

L’incontro annunciato ieri sera dal tycoon, non ha ancora una data, ma il Cremlino ha almeno confermato che ci sarà e che sarà entro due settimane. I dettagli ancora tutti da chiarire però sono diversi, a cominciare dal fatto che il presidente russo dovrebbe essere arrestato una volta atterrato in Ungheria, sulla base del mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja. Ipotesi che sembra morta sul nascere, visto che il padrone di casa Viktor Orban ha già fatto capire che accoglierà il capo del
Cremlino senza porre alcun ostacolo. Uno scenario che non fa altro che aumentare l’imbarazzo dei vertici dell’Unione europea, che spera in sviluppi concreti verso la pace in Ucraina, pur masticando amaro per l’arrivo indisturbato di Putin sul suolo europeo.
Il rebus sul viaggio per Budapest
Ma come ci arriverà Putin in Europa? Fatta eccezione per l’alleata Bielorussia, l’aereo che da Mosca dovrebbe portare a Budapest Vladimir Putin si troverà a passare sopra a Paesi Ue o comunque ostili alla Russia.
Come dovrebbero comportarsi questi? Il presidente russo e il ministro degli esteri Sergej Lavrov sono inclusi nelle sanzioni «sul congelamento dei beni, ma non specificamente su divieti di viaggio». A spiegarlo è la portavoce della Commissione europea Anita Hipper. «L’incontro non è stato confermato e non commenteremo gli scenari ipotetici, ma se dovesse accadere di fatto, non ci sono divieti di viaggio di per sé».
Riguardo alle sanzioni contro il leader russo, sottolinea Hipper, ci sarebbero «potenziali deroghe che gli Stati membri possono concedere, ma tali deroghe devono essere emesse dagli Stati membri individualmente».
La Cpi: «Arrestare Putin è un obbligo e una responsabilità»
Dal canto suo, la Corte penale internazionale ha confermato che i Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma hanno l’obbligo di arrestare Vladimir Putin. Tra questi c’è anche l’Ungheria.
La Corte dell’Aja ha spiegato che «si affida agli Stati per l’esecuzione delle sue decisioni. Questo non è solo un obbligo giuridico della Corte ai sensi dello Statuto di Roma, ma anche
una responsabilità nei confronti degli altri Stati parte dello Statuto». La Corte ha poi rimarcato che «non spetta agli Stati determinare unilateralmente la fondatezza delle decisioni giuridiche della Corte. Come stabilito dall’articolo 119 dello Statuto, “ogni controversia relativa alle funzioni giudiziarie della Corte è risolta con decisione della Corte”».
Le opzioni di viaggio per Putin
Sebbene nessuno si aspetti che Viktor Orban esegua il mandato di arresto nei confronti di Putin al suo ingresso in Ungheria, resta incerta la strada che il presidente russo prenderà per raggiungere il Paese magiaro. Lo spazio aereo dell’Ucraina è totalmente interdetto ai voli civili e i cieli di Moldavia e Romania presentano gravi criticità per il traffico aereo, anche militare, al punto che le autorità europee e internazionali consigliano di evitare questi corridoi per l’elevato rischio di incidenti, interferenze elettroniche o attacchi aerei.
Si valutano opzioni via terra, ma anche in questo caso servirebbero permessi straordinari per passare da Polonia e Slovacchia. Alcuni analisti ipotizzano allora un tragitto ibrido: un volo fino a zona tutto sommato neutrale (come la Serbia o una regione poco monitorata della stessa Ungheria) e poi un trasferimento su strada, da concludere nel minor tempo possibile.
(da agenzie)

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IL CRIMINALE NETANYAHU TORNA IN CIMA AI SONDAGGI. CHI E’ L’EX ALLEATO CHE PUO’ SOFFIARGLI LA GUIDA DI ISRAELE

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

IL LIKUD E L’ESTREMA DESTRA DI RAFFORZANO, MA NESSUNO AVREBBE UNA CHIARA MAGGIORANZA

«Non è certo un tipo facile, ma in fondo è proprio questo che lo rende un grande». Arrivato in Israele per celebrare il successo dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza, Donald Trump ha reso ben più dell’onore delle armi a Benjamin Netanyahu: ne ha tessuto pubbliche lodi, pur senza rinunciare a pizzicarlo. Il premier israeliano, di fronte a lui alla Knesset, ha reagito con un sorriso largo così, mentre il leader Usa chiamava l’applauso per lui. Pochi giorni dopo appare chiarissimo il perché
Quell’endorsement fatto dall’architetto dell’accordo nel giorno che per gli israeliani ha significato la fine di due anni di incubo – il ritorno a casa di tutti gli ostaggi vivi, quindi quello delle decine di migliaia di riservisti chiamati al fronte – sembra aver già avuto il suo effetto. Per la prima volta dal 7 ottobre di due anni fa, quando Hamas fece strage nel sud di Israele lasciato sguarnito dall’esercito, Netanyahu torna ad essere il candidato numero 1 alla successione di se stesso.
Il suo Likud, secondo i primi sondaggi realizzati dopo il cessate il fuoco e le cerimonie trionfali con Trump in Israele e a Sharm el-Sheikh, sarebbe di nuovo chiaramente il primo partito del Paese.
Se si votasse domani, sarebbe accreditato di 27 seggi secondo la rilevazione condotta dall’istituto Midgam per Canale 12. Meno di quelli su cui può contare nell’attuale Parlamento, certo (32 sui 120 complessivi) ma in netta crescita (un mese fa la stessa proiezione ne accreditava 24).
Altri istituti demoscopici considerati più vicini alle destre israeliane dissentono da Migdam, nel senso che sentono il termometro ancora – e di molto – più pro-Netanyahu: il suo Likud avrebbe addirittura 34 o 35 seggi secondo rilevazioni (contestate) condotte da Yossi Taktika e Shlomo Filber rispettivamente.
La crisi di Smotrich, il balzo di Ben-Gvir
Strada in discesa per Netanyahu per restare in sella anche dopo le prossime elezioni, previste – a meno di scioglimento anticipato del Parlamento – a ottobre 2026, dunque?
Tra il dire e il fare sta di mezzo il mare. Perché chi naviga in
cattive acque sono invece i suoi alleati di ultra-destra. Il Partito sionista religioso di Bezalel Smotrich, in particolare, non passerebbe neppure la soglia di sbarramento del 3,25% e dunque resterebbe secondo tutti i sondaggi fuori dal Parlamento. Lasciando un vuoto incolmabile per la coalizione di destra-destra oggi al governo.
Sempre secondo il sondaggio di Canale 12, l’altro fomentatore anti-arabo di Israele, Itamar Ben-Gvir, porterebbe a casa ben 8 seggi – un balzo notevole considerato che nel 2022 entrò in Parlamento per il rotto della cuffia solo alleandosi con Smotrich. I due partiti che rappresentano gli elettori ultraortodossi infine – Shas e Torà Unita – avrebbero rispettivamente 9 e 7 seggi. Totale per la coalizione attualmente al governo: 51 seggi.
Ben 9 in meno di quelli necessari ad avere la maggioranza (i sondaggi cari alla destra, rilanciati dallo “scatenato” Canale 14, parlano invece di una maggioranza che si riconfermerebbe con 66 seggi).
Il ritorno di Bennett e l’alternativa (im)possibile
Sul fronte opposto – quello assai variegato che si oppone a Benjamin Netanyahu – molte cose sono in movimento, ma al momento resta tutta da verificare la possibilità di una maggioranza alternativa.
La variabile più attesa e che potrebbe smuovere le acque è il ritorno in campo di Naftali Bennett. L’ex alleato di Netanyahu, diventato poi suo rivale nel campo del centrodestra e premier per un breve periodo in un governo di “larghe intese” (2021-22), scalda da tempo i motori per il rientro e secondo tutti i sondaggi se così sarà tornerà prepotentemente al centro dei giochi. Canale
12 accredita la sua potenziale lista di ben 22 seggi, e perfino i sondaggisti filo-Netanyahu riconoscono che sarà lui il contendente più ostico.
Potrebb’essere proprio Bennett, che viene da un percorso politico chiaramente di destra, a porsi alla guida del frastagliato fronte anti-Netanyahu? Resta da vedere.
Ma in ogni caso anche qui la maggioranza sarebbe tutta da costruire. Perché la “stella” dell’ex capo di Stato maggiore dell’esercito Benny Gantz pare tramontata, tanto che la sua lista “Blu e Bianco” resterebbe fuori dal Parlamento.
Ci entrerebbero invece quelle di Yair Lapid (Yesh Atid – 9 seggi), dell’altro ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot (Yashar – 8 seggi), la sinistra guidata da Yair Golan (Democratici – 11 seggi) e l’altro ex alleato diventato rivale di Netanyahu nel centrodestra Avigdor Liberman (Israel Beitenu – 9 seggi). Totale, ammesso e non concesso che tale fronte prenda forma: 59 seggi. Ossia uno in meno del minimo utile ad avere una maggioranza.
Le alleanze “contro-natura” e il fattore Trump
L’unica, in quel caso, per ambire a formare un governo sarebbe appoggiarsi sul sostegno della lista araba/di sinistra Hadash e/o del partito arabo/islamista Ra’am. Strada scoscesa, anche perché esporrebbe facilmente la coalizione all’assalto mediatico delle destre, con un Netanyahu che avrebbe gioco facile ad accusare i contendenti di essere pronti a mercanteggiamenti ed alleanze “contro-natura” pur di cacciarlo fuori dal governo.
Scenari alternativi? Quello, ovviamente, di un governo di “larghe intese” che passasse magari tramite una
riappacificazione tra Netanyahu e Bennett. Trump, forse, ci metterebbe la firma. Ma in un Paese spaccato sulla figura di “Bibi” come Israele la fattibilità resta quanto mai da verificare. Di qui a un anno, d’altronde, quando si dovrebbe tornare alle urne, può ancora succedere di tutto, dentro e fuori Israele, e ciò che accadrà nella regione peserà fortemente sulle evoluzioni.
(da agenzie)

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“IL GOVERNO SOVRANISTA HA TRASFORMATO RANUCCI IN UN BERSAGLIO”

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

SAVIANO ALL’ATTACCO: “LA DEMOCRAZIA E’ MORTA”

Saviano punta il dito contro chi «ha fatto di Ranucci un bersaglio» e «diffama, apre dossier, massacra». L’accusa dopo la bomba esplosa davanti alla casa del conduttore di Report
«Quello che è accaduto a Sigfrido Ranucci è partorito con una lunga gestazione di delegittimazione e isolamento». E tutto riporta «chiaramente a questo governo di estrema destra e alla cultura social», in cui la discussione è scomparsa e si è ridotta a
continui e insistenti attacchi. A poche ore dall’attentato contro il conduttore di Report, Roberto Saviano ha le idee ben chiare: «Chi colpisce un giornalista sotto scorta non sta cercando di fermare una persona, sta lanciando un avvertimento a tutti. L’attentato è il frutto di anni di campagne mediatiche costruite per isolare, infangare, distruggere civilmente chi osa indagare il potere».
Il governo e il rapporto con i giornalisti: «Massacro mediatico e diffamazione»
Tutto parte e finisce lì, il governo e i social media. Sul web «se non condivido defollowo», senza discutere. Questo governo, dice in un video social il giornalista, «se non condivide, ti toglie la trasmissione». Da anni, continua Saviano, «chiunque prenda posizione attraverso un’inchiesta, un’analisi, riceve un massacro mediatico personale, dossier, diffamazione, compromissione del proprio lavoro». Una situazione che accade solo quando il potere attacca i giornalisti: «Non può farlo, non può neanche chiedere al potere giudiziario di valutare ciò che sta dicendo un giornalista, perché sono elementi di grandissima sproporzione. La politica è potere, il giornalismo è un’altra cosa. A volte è sempre di più ufficio stampa del potere, altre volte invece è contropotere, è critica del potere».
Il parallelismo con la sua esperienza: «I responsabili forse pagheranno»
La conseguenza per Saviano è automatica: «Quando sei bersagliato continuamente come persona, diventi davvero bersaglio. Non solo negli insulti su uno schermo, non solo nei dossier sulla tua vita privata, non solo in uno spazio dove
cercano di ammazzare il tuo profilo civile». Il giornalista traccia poi un parallelismo con la sua personale esperienza: «A Ranucci la mia solidarietà e la consapevolezza che i responsabili pagheranno tra dieci anni se va bene. Io lo conosco bene, ci ho messo 17 anni per ottenere una sentenza contro il boss che mi ha portato via 20 anni di esistenza, forse di più». Il discorso si conclude con un discorso generale, che vale «a destra e a sinistra», contro il silenzio e la sordità della maggior parte delle persone: «La democrazia in tutto questo è morta e ne è prova la bomba che ha colpito è un uomo scortato».
(da agenzie)

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L’AIUTINO DEL PARLAMENTO È SERVITO: LA “SANTA” GUADAGNA ANCORA TEMPO: L’UDIENZA PRELIMINARE IN CUI SI DEVE DECIDERE SE MANDARE A PROCESSO DANIELA SANTANCHÈ PER LA PRESUNTA TRUFFA AGGRAVATA ALL’INPS È STATA “CONGELATA” ALMENO FINO AL 20 FEBBRAIO 2026

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

SOSPESO IL PROCEDIMENTO IN ATTESA DELLA PRONUNCIA DELLA CONSULTA (POTREBBERO PASSARE DA OTTO MESI A UN ANNO) SUL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE CON LA PROCURA, SOLLEVATO DAL SENATO, CHE VEDE AL CENTRO L’UTILIZZABILITÀ O MENO DELLE COMUNICAZIONI DELLA MINISTRA

Tutto congelato in attesa della decisione della Consulta. Il gup Tiziana Gueli ha sospeso fino al prossimo 20 febbraio l’udienza preliminare sul caso Visibilia per la presunta truffa ai danni dell’Inps, che coinvolge tra gli altri Daniela Santanchè.
Questo perché a fine settembre l’aula del Senato aveva approvato la proposta di sollevare un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale nei confronti della stessa Procura di Milano.
Oggetto del contendere, l’eventuale utilizzo delle comunicazioni della senatrice di Fratelli d’Italia nell’ambito dell’inchiesta. Da qui la decisione del gup di attendere la pronuncia della Consulta che è verosimile non arrivi prima di 7-8 mesi (quindi, in ogni caso, dopo l’udienza preliminare di febbraio che potrebbe essere ulteriormente rinviata).
Il caso è infatti rimbalzato da Milano fino a Roma: nella precedente udienza preliminare, i suoi legali Salvatore Pino e Nicolò Pelanda (che difendono sia lei che il compagno Dimitri
Kunz) avevano già chiesto al giudice di non utilizzare le conversazioni private intercorse tra Santanchè e alcuni dipendenti del gruppo Visibilia (realizzate tra il 2015 e il 2021 da parte di alcuni dipendenti).
Secondo gli avvocati, l’inutilizzabilità sarebbe motivata dalla mancata autorizzazione a procedere chiesta dalla Procura, visto che in questi anni la ministra del Turismo è sempre stata eletta in parlamento (prima alla Camera, dal 2018 al Senato).La senatrice di FdI è accusata, assieme ad altri, di aver ottenuto “indebitamente” la cassa integrazione in deroga nel periodo del Covid per 13 dipendenti del gruppo Visibilia per un valore di oltre 126mila euro e un totale di più di 20mila ore.
(da agenzie)

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DAI TOSSICI A GRILLO, “FLAVIO CURAVA LE ANIME”: ADDIO A UNO DEI SIMBOLI DI GENOVA, FLAVIO GAGGERO, IL DENTISTA AMICO DI RENZO PIANO E BEPPE GRILLO, DI CUI AI TEMPI D’ORO DEL MOVIMENTO ERA IL “CONFESSORE”

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

NEL SUO STUDIO SI POTEVANO TROVARE TUTTI: ANCHE I RAGAZZI TOSSICODIPENDENTI DI DON GALLO

Su quella poltrona, per decenni, ha curato i denti dell’archistar Renzo Piano (suo compagno di scuola) o di Beppe Grillo, che ai tempi d’oro del Movimento gli confessava anche le sue paure.
Ieri Flavio Gaggero, uno dei simboli di Genova, è stato salutato dai suoi cari. Se ne è andato a 88 anni, dopo aver curato i vip come gli ultimi, i ragazzi tossicodipendenti di don Gallo. Nel suo studio si potevano trovare tutti: teneva aperto fino a notte fonda e curava senza chiedere nulla in cambio.
«Flavio curava le anime», raccontano da Pegli. E ieri mattina tutti quelli che gli hanno voluto bene si sono ritrovati nella chiesa dell’Immacolata, gremita.
C’erano Renzo Piano, tornato da Parigi, e pure Beppe Grillo. Tanto era il feeling tra Gaggero e il fondatore M5S, che il dentista fu contattato da Pier Luigi Bersani perché organizzasse un incontro con Grillo dopo la «non vittoria» alle elezioni del 2013.
Una richiesta, quella dell’allora leader del Pd, che però sortì i frutti sperati. In chiesa scorrono le foto di una vita: c’è Gino Paoli, altro amico di sempre, e poi Paolo Villaggio, mentre da fuori città arrivavano Giorgio Albertazzi o Ornella Vanoni, anche loro clienti del dentista pegliese.
La messa è stata officiata da diversi sacerdoti, almeno sei, a tenere insieme simbolicamente i tanti mondi dei quali ha fatto parte Gaggero.
«Dentista degli ultimi», un impegno sociale lungo decenni in quello studio. A salutarlo c’erano anche Ferruccio Sansa, l’ultimo per il quale Gaggero si mise a disposizione, per la campagna elettorale delle Regionali nel 2020, e anche il viceministro leghista Edoardo Rixi.
(da agenzie)

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I BOSSIANI DEL NORD BENEDICONO IL “MODELLO TEDESCO” DI ZAIA, LO STAFF DEL “SENATUR” RICORDA CHE L’IDEA DI CREARE UNA LEGA “LOCALE”, DA FEDERARE A QUELLA NAZIONALE, FU IPOTIZZATA PER PRIMO PROPRIO DAL FONDATORE, AI TEMPI DEL GOVERNO BERLUSCONI E DEL PDL

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

LA MOSSA UFFICIALIZZEREBBE UNA DIVISIONE CHE È GIÀ NEI FATTI … L’ASSESSORE LEGHISTA VENETO ROBERTO MARCATO: “È L’UNICA SOLUZIONE PER TORNARE A ESSERE QUEL CHE ERAVAMO: UN SINDACATO DEL TERRITORIO, ANTIFASCISTA, A CUI LE “DECIME” NON INTERESSANO”

C’è una Lega in bilico, divisa da linee non solo geografiche: il Nord, con le sue radici territoriali, e il Centro-Sud, dove l’appeal identitario e nazionalista reclama spazio. Al centro Roberto Vannacci, vicesegretario leghista che tenta la spallata verso la destra radicale e che sembra incarnare – per molti dirigenti storici – lo spettro di un partito distante dalle origini.
In questo contesto, Luca Zaia – capolista in tutte le province del Veneto – continua a ragionare su un progetto di scissione: il
cosiddetto modello tedesco Csu-Cdu, a cui guarda con attenzione anche lo staff di Umberto Bossi, che ricorda come fu proprio il senatùr, ai tempi del governo Berlusconi e del Popolo delle Libertà, a ipotizzarlo per primo.
All’epoca la proposta era quella di una Lega come partito del Nord, affiancata a Forza Italia e ad An nel resto del Paese. Oggi, osservano i fedelissimi di Bossi, il modello viene riproposto all’interno della stessa Lega per adeguarsi al contesto territoriale, ma «la genialità dell’idea porta la firma di Umberto».
Non un esercizio retorico. Ma un tentativo di ridefinizione interna: due leghe confederate, una nordista, più territoriale e pragmatica, e l’altra a vocazione nazionale, capace di dettare la linea su temi politici e internazionali. Alla base del piano la consapevolezza che non solo si tratta di un passo auspicabile ma addirittura «necessario».
Parla di un «partito nel partito, con piena autonomia decisionale anche su liste, candidature e nomine» Roberto Marcato, assessore leghista in Veneto. «È l’unica soluzione per tornare a essere quel che eravamo: un sindacato del territorio, antifascista, a cui le “decime” non interessano».
Il concetto chiaro a tutti è uno: basta passi indietro per non dispiacere i colleghi del Sud. Dettaglio non da poco, il ritorno della parola “Nord” nel simbolo, per «restituire identità e radicamento».
Un progetto complesso, che richiede l’assenso di Salvini – al momento non intenzionato a concedere spazio.
Difficile, per ora, che ci siano slanci concreti , ma non è escluso che l’argomento possa tornare sul tavolo già martedì prossimo,
durante il Consiglio federale: un confronto, o forse una resa dei conti, tra la “linea Vannacci” e quella “tradizionale”, a partire dagli ultimi risultati elettorali e in vista delle regionali in Veneto. Nelle segreterie regionali del Nord se ne parla già.
La preoccupazione è per un’emorragia verso altri movimenti autonomisti, come il “Patto per il Nord” dell’ex Paolo Grimoldi. Ipotesi remota, ma che nessuno, oggi, si sente di escludere.
(da agenzie)

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“NO ALL’USO DELLA FAME COME ARMA DI GUERRA”: PAPA LEONE INFILZA NETANYAHU CHE È TORNATO A CHIUDERE IL VALICO DI RAFAH

Ottobre 17th, 2025 Riccardo Fucile

“SEMBRA ALLONTANARSI QUEL CONSENSO ESPRESSO DAGLI STATI CHE CONSIDERA UN CRIMINE DI GUERRA LA FAME DELIBERATA. IL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO VIETA SENZA ECCEZIONI DI ATTACCARE CIVILI E BENI ESSENZIALI PER LA SOPRAVVIVENZA”

Papa Leone XIV è intervenuto alla Fao per l’ottantesimo anniversario dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura che ha sede a Roma.
Un compleanno segnato dalle guerre, e Robert Francis Prevost ha voluto rimarcare che «gli scenari dei conflitti attuali hanno fatto riemergere l’uso del cibo come arma da guerra».
Il Papa non parla solo di Israele, ma sicuramente ha anche la Striscia di Gaza in mente quando sottolinea che «sembra allontanarsi sempre più quel consenso espresso dagli Stati che considera un crimine di guerra la fame deliberata, come pure l’impedire intenzionalmente l’accesso al cibo a comunità o interi popoli», e che «il diritto internazionale umanitario vieta senza eccezioni di attaccare civili e beni essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni».
Il Papa nato a Chicago viene accolto dal direttore generale della Fao, il cinese Qu Dongyu, saluta l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, sudcoreano, stringe la mano a una sorridente Giorgia Meloni.
Arriva quando se n’è appena andato Sergio Mattarella: «È un triste paradosso», ha detto il Capo dello Stato, «che proprio mentre crescono le conoscenze, le risorse e le potenzialità tecnologiche, anche con rilevanti applicazioni al settore agricolo, assistiamo a nuovi scenari di carestia, a inaccettabili sperequazioni e a un regresso di quel sistema multilaterale, unico paradigma in grado di dare vere risposte a questi bisogni»
Papa Leone è in piena sintonia con Mattarella. Il non detto è che i tagli dell’amministrazione Trump mettono a repentaglio molti programmi di sostegno ai paesi in via di sviluppo.
Se nelle scorse settimane il Papa ha preso a bersaglio Elon Musk e i suoi profitti strabilianti, se, sulla scia di Francesco, ha voluto dedicare la sua prima esortazione apostolica all'”amore per i poveri”, alla sede della Fao su viale Aventino torna sul nodo delle sperequazioni attuali: «Come possiamo continuare a tollerare che si sprechino ingenti tonnellate di alimenti mentre moltitudini di persone si affannano per trovare nella spazzatura qualcosa da mettere in bocca?», domanda, «come spiegare le diseguaglianze che permettono a pochi di avere tutto e a molti di non avere nulla?».
E, ancora, «come possiamo dimenticare tutti coloro che sono condannati alla morte e alla sofferenza in Ucraina, Gaza, Haiti, Afghanistan, Mali, Repubblica Centrafricana, Yemen e Sud Sudan, per citare solo alcuni dei luoghi del pianeta in cui la
povertà è diventata il pane quotidiano di tanti nostri fratelli e sorelle? La comunità internazionale», scandisce Leone, «non può voltarsi dall’altra parte». A partire dalla Casa Bianca.
(da agenzie)

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