Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
SI AGGIUNGE ALLA SQUADRA DI VESPA ANCHE CHIARA GIANNINI, A LUNGO FIRMA DEL “GIORNALE”, AUTRICE DI UN LIBRO BIOGRAFICO SU SALVINI E CHE IN PASSATO HA CURATO ALCUNI UFFICI STAMPA PER LA LEGA E C’È PURE ELISA CALESSI, UNA DELLE FIRME DI “LIBERO”
Bruno Vespa è accerchiato da meloniani. Nella squadra del programma Porta a Porta per la
stagione 2025-2026 approda un tris di giornalisti con un cursus honorum sicuramente gradito a Fratelli d’Italia.
Da Mediaset arriva Alessandro Usai, a lungo uomo macchina del “retequattrismo”.
È stato l’ispiratore di alcuni talk politici tra cui Controcorrente e Stasera Italia, testa d’ariete dell’informazione sovranista.
Usai è anche il cognato del ministro della Cultura Alessandro Giuli, avendo sposato la sorella Antonella (ora all’ufficio stampa della Camera dei deputati), si occuperà della gestione ospiti per Porta a Porta. Avrà un ruolo di primo piano, dunque, nella selezione dei volti nel salotto di Rai 1.
Arriva nella squadra di Vespa, come inviata di cronaca, Chiara Giannini, a lungo firma del Giornale autrice di un libro biografico su Matteo Salvini e in passato ha curato alcuni uffici stampa per la Lega. Completa la rosa dei meloniani Elisa Calessi, una delle firme del politico del quotidiano Libero diretto da Mario Sechi.
Vista così sembrerebbe che Fratelli d’Italia abbia creato un cordone di sicurezza per Vespa: non che ce ne fosse bisogno, ma con le elezioni ormai vicine meglio essere previdenti.
(da Domani)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
GLI ELETTI POTRANNO COLMARE LA LORO IGNORANZA DI MOLTE LINGUE: INGLESE, TEDESCO, FRANCESE, SPAGNOLO, ARABO, CINESE, RUSSO E GIAPPONESE…LE LEZIONI SI TERRANNO DAL LUNEDÌ AL VENERDÌ, DALLE 8.00 ALLE 20.00
Immaginatevi i nostri onorevoli deputati ripetere, come tra i banchi di scuola. Una scena che, di qui a breve, potrebbe non essere così lontana dalla realtà. Montecitorio ha appena indetto un bando di gara, da 70mila euro, per fornire ai deputati «corsi individuali di lingue straniere», con facoltà di attivazione anche «di corsi di gruppo».
Di inglese, innanzitutto. Ma per chi vorrà saranno garantiti anche di tedesco, francese, spagnolo, arabo, cinese, giapponese e russo. E non sarà un gioco da ragazzi per i nostri onorevoli: i docenti dovranno prevedere un test iniziale «composto di una parte scritta e una orale», sulla base del quale verrà concordato un programma.
Le lezioni si terranno dal lunedì al venerdì, dalle 8.00 alle 20.00, nei singoli uffici dei parlamentari, che dovranno garantire un numero minimo di presenze per proseguire il corso. Alla fine verrà compilato anche «un rapporto finale sull’andamento per ciascun partecipante». E si decideranno bocciati e promossi.
(da Domani)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
HA ISTITUITO UNA SORTA DI “MINI MINISTERO”, CON 60 DIPENDENTI, A CUI HA AGGIUNTO OTTO NOMINE “DI PESO”. UN BLITZ CHE HA FATTO INCAZZARE FITTO, CHE HA LA DELEGA AL SUD, AL PUNTO CHE È DOVUTA INTERVENIRE LA DUCETTA
Luigi Sbarra, ex segretario generale della Cisl e da cinque mesi sottosegretario alla presidenza
del Consiglio con delega al Sud, immagina già il suo futuro politico: un posto di rilievo nel prossimo governo Meloni, magari al ministero del Lavoro, dopo le elezioni del 2027.
Ma prima di quel traguardo, come ricostruiva ieri in un articolo sul “Fatto quotidiano” Giacomo Salvini, dovrà superare un ostacolo interno non da poco: lo scontro con Palazzo Chigi e con il suo predecessore Raffaele Fitto, oggi vicepresidente della Commissione europea.
Al centro della contesa c’è il nuovo Dipartimento per il Sud, creato a settembre con un emendamento governativo al decreto sulla Terra dei Fuochi. La norma — già contestata dal Quirinale per le modalità di approvazione, giudicate irrituali — ha istituito una sorta di “mini ministero” con sette uffici e sessanta dipendenti, metà provenienti dalla presidenza del Consiglio e metà da altre amministrazioni. A questo si aggiungono otto nomine dirigenziali di peso: cinque incarichi esterni, due direzioni generali e un capo dipartimento.
Ed è proprio sulle nomine che si è aperta la frattura. Sbarra avrebbe voluto piazzare nei ruoli chiave uomini a lui vicini, provenienti dal mondo Cisl e dalla sua ex segreteria. Fitto, invece, ha chiesto continuità amministrativa con la precedente struttura di missione per le Zes (Zone Economiche Speciali), di cui era titolare fino a pochi mesi fa.
Secondo fonti di governo, la presidente Giorgia Meloni è dovuta intervenire direttamente, imponendo a Sbarra di non “azzerare” l’apparato ereditato e di mantenere in carica alcuni funzionari già operativi.
Il caso più emblematico riguarda Giosy Romano, ex capo della struttura Zes e figura vicina al centrodestra campano. Sbarra avrebbe voluto sostituirlo, ma Fitto — che lo aveva nominato nel 2024 — si è opposto, ricevendo l’appoggio di Meloni. Alla fine Romano resterà a capo di una delle due direzioni generali, mentre l’altra sarà affidata a Lorenzo Armentano, già vice capo legislativo di Fitto e dipendente di Palazzo Chigi.
Il sottosegretario dovrà quindi accontentarsi dei cinque incarichi rimanenti, sui quali punta per rafforzare la sua squadra con fedelissimi come Lorenzo Tomasini, ex coordinatore nazionale della Cisl, e Giuseppe Di Giacomo, attuale capo della segreteria. L’obiettivo, dicono i suoi, è “portare dentro Palazzo Chigi la cultura pragmatica e sociale del sindacato bianco”. Ma per ora l’operazione è in salita.
All’interno del governo non mancano perplessità sul suo operato. In questi primi cinque mesi, lamentano alcuni colleghi, Sbarra si sarebbe limitato a presenziare convegni e tavole rotonde sul Mezzogiorno, senza imprimere una direzione politica concreta al nuovo dipartimento.
Nonostante ciò, Meloni continua a considerarlo una pedina strategica: la sua figura, radicata nel mondo cattolico e sindacale, serve a consolidare il consenso del centrodestra nel Sud in vista delle politiche del 2027.
È in quella prospettiva che Sbarra guarda al futuro con ambizione: una candidatura nelle liste di Fratelli d’Italia e, se il progetto andasse in porto, un posto da ministro del Lavoro.
(da Dagoreport)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
LA DIFESA DEL FRONTE CON DRONI E ARMI DI PRECISIONE REGGE. SENZA CONTARE LE PERDITE DI “MAD VLAD”: DALL’INIZIO DELL’INVASIONE A GENNAIO DI QUEST’ANNO, I SOLDATI RUSSI MORTI SONO STATI 137-228MILA. E A METÀ OTTOBRE IL BILANCIO È AUMENTATO QUASI DEL 60%
L’offensiva estiva russa sta volgendo al termine e lo zar non ha ottenuto un solo risultato di quelli annunciati. Pokrovsk, in pericolo da più di un anno, non è caduta. Sono ancora lì Kramatorsk, Kostjantynivka, Kupiansk e perfino Chasiv Yar. Il Donetsk ha una quota di filorussi più alta di molte altre regioni.
Ma non bisogna confondere la russofonia con la russofilia: anche se la percentuale di chi parla la lingua di Mosca nella regione magari non è scesa come nel resto del Paese, non è scontato che questo dato si traduca in sostegno politico. Dall’inizio dell’invasione a gennaio di quest’anno, le perdite russe ammontano a 640.000-877.000 soldati, di cui 137.000-228.000 sono morti. E a metà ottobre il bilancio era aumentato quasi del 60%, passando da 984.000 a 1.438.000 perdite, di cui 190.000-480.000 morti.
Il dato è di Kiev. E dunque di parte. Ma anche rivedendo la cifra al ribasso, le perdite russe non si sono tradotte in un corrispondente guadagno territoriale. Se poi si guarda la faccenda in un’ottica di lungo periodo, secondo una stima dell’ Economist, al ritmo degli ultimi 30 giorni la conquista di ciò che resta delle quattro regioni che Putin rivendica richiederebbe fino a giugno 2030.
Oltre al tempo, gli uomini. Anche se si prova a girare la medaglia o a guardare le carte dell’altro giocatore, il tavolo non è scontato. Un crollo delle linee difensive ucraine è improbabile. La costante sorveglianza con droni, abbinata ad armi di
precisione a lungo raggio, ha reso possibile l’accumulo di forze per entrambe le parti.
Ma se la tecnologia ha cambiato i vecchi manuali militari, resta una regola: chi attacca deve avere il triplo degli uomini di chi difende. Inoltre, anche se i russi hanno imparato a usare piccole squadre di uomini nella kill zone , poi hanno bisogno di uomini e mezzi per tenere le posizioni. Certo la war fatigue , il logoramento, e la carenza di uomini sono un problema per Kiev. Ma sono spine che potrebbero conficcarsi prima o poi anche nel fianco di Mosca. Quando è iniziata l’offensiva, i russi sono stati attirati da generosi bonus di arruolamento e la campagna di reclutamento del Cremlino ha superato quella ucraina di 10.000-15.000 unità al mese.
Eppure, perfino per un regime, nascondere i sacchi da morto e le tombe non è facile.
E, ancora, Putin non è Caterina la Grande che riuscì a imbrogliare i cosacchi: pure l’utilizzo di mercenari, vedi il caso della Wagner e di Prigozhin, non è semplicissimo da gestire. E perfino la zarina dovette fare concessioni abolendo la servitù della gleba.
Il boomerang Dalle trincee alle fabbriche.
Per quasi quattro anni, l’economia ucraina ha sofferto sotto i colpi dei missili russi.
Ma ha provato a reagire producendo in casa missili e droni relativamente economici e proponendo agli alleati europei droni a basso costo. Certo, l’economia russa è molto più grande di quella dell’Ucraina e non è affatto una tigre di carta come ha detto Trump a New York.
Ma non è nemmeno così florida come l’ha descritta il tycoon Perché se non è scontato che Pechino continui a foraggiare un alleato che, tutto sommato, fin qui ha portato a casa una guerra di logoramento, la forza di Mosca in termini produttivi è minuscola rispetto a quella degli alleati dell’Ucraina.
L’Europa non vuole armarsi e non vuole scendere sul campo di battaglia. Ma se costretta a farlo, la guerra ibrida di Mosca potrebbe trasformarsi in un boomerang che finisce dritto sul tetto del Cremlino. Con o senza i missili Tomahawk.
(da Corriere della Sera)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
“NON SI POSSONO NON AVERE DUBBI SU DOVE STIAMO ANDANDO. PER 250 ANNI ABBIAMO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ E SIAMO STATI UN ESEMPIO DI DEMOCRAZIA POSITIVA”
Sono apparsi fianco a fianco, Bruce Springsteen e Jeremy Allen White. Il Boss e il nuovo divo di
Hollywood che lo interpreta in Springsteen: Liberami dal Nulla, primo film autorizzato dal grande cantautore sulla sua vita, in sala dal 23 ottobre. Entrambi erano ospiti ieri di Fabio Fazio a Che tempo che fa sul Nove. In collegamento, hanno ripercorso le tappe che anche il film racconta, quelle dei due anni (dal 1981 al 1983) che portarono alla realizzazione del disco Nebraska.
Il film mostra come per il Boss sia stato necessario chiudersi in una stanza «con una orribile moquette arancione», come ha osservato Fazio, per elaborare i suoi demoni e dare vita a un disco tanto intimo.
Una visione semplice ma profonda, che White ha voluto trasferire nel film: «Non è stato semplice interpretare un idolo così venerato, ma ho capito che il suo modo di fare musica è davvero iniziato nel periodo che abbiamo scelto di raccontare. Da lì credo di averlo iniziato a comprendere meglio. Inoltre, ho imparato a cantare e suonare la chitarra: è stata una grande responsabilità».
«Ha fatto un ottimo lavoro. Adesso licenzio Steven Van Zandt e dico che Jeremy lo sostituirà nella E Street Band». Parlando
invece del rapporto complesso con il padre, il cantautore ha detto: «Ho visto il film la prima volta con mia sorella e insieme abbiamo trovato il riflesso della nostra famiglia: è stata una esperienza profondamente emotiva». Ma a uno dei paladini del sogno americano, vissuto a sua volta, Fazio non poteva non chiedere cosa pensasse dell’America di oggi.
«È un momento in cui non si possono non avere dubbi su dove stiamo andando — ha ammesso Springsteen —. Per 250 anni abbiamo combattuto per la libertà e siamo stati un esempio di democrazia positiva. Abbiamo fatto tanti errori ma non abbiamo mai avuto una storia di autocrazia: farò del mio meglio e userò la mia piccola influenza per fare sì che le cose cambino».
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
“LA STAMPA”: “MELONI AVEVA PROMESSO LA RIVOLUZIONE CONTRO L’EUROPA MATRIGNA, I DIKTAT DEI MERCATI E I MITICI POTERI FORTI, INVECE HA VARATO 4 MANOVRE CHE SEMBRANO SCRITTE DA UN RAGIONIERE BRUSSELLESE DELLE RIFORME PROMESSE NON C’È TRACCIA”
Da oggi il governo Meloni sale sul podio dei governi più longevi della Repubblica: supera Craxi e si appresta, alla fine della legislatura, a sottrarre il primato a Berlusconi (di elezioni anticipate proprio non tira aria, vedrete). Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe arrivata a questo punto del film senza perdere un voto.
E chi l’avrebbe detto, rispetto alle premesse, che ci sarebbe arrivata così, praticamente senza nulla che lasci il segno.
Aveva promesso la rivoluzione contro l’Europa matrigna, i diktat dei mercati e i mitici poteri forti, invece ha varato quattro manovre che sembrano scritte da un ragioniere brussellese. L’unico vero risultato è di aver tenuto i conti in ordine (per fortuna). Per il resto è la cronaca di un ordinario galleggiamento su un Paese che, a sua volta, galleggia: né affonda né tantomeno va avanti, tra Pil ristagnante, agricoltura sofferente sui dazi e stipendi bassi. Delle riforme promesse non c’è traccia.
Al massimo una caterva di nuovi reati da dare in pasto alla curva, un centro in Albania che non funziona ma tiene alta la bandiera del cattivismo e la realizzazione del sogno di Berlusconi sulla giustizia.
Ecco, lo schema, sempre uguale a se stesso è: vicolo esterno fin dove necessario, misure e comiziacci identitari fin dove possibile anche per compensare, nel racconto, la rivoluzione tradita sull’economia. Che è poi lo stesso spartito seguito sulla politica internazionale.
Anche lì la premier ha tenuto (e non era scontato) il vincolo sull’Ucraina e, sia pur a bassa intensità, sull’Europa, allineandosi ove possibile sul resto a Trump, senza grandi sfracelli e senza grandi protagonismi. Dovrebbe accendere un cero ai santi di un’opposizione che si lascia trasportare dall’isteria sull’altrui racconto, senza sfidarla realmente sui fondamentali, dall’economia a un’idea di nuovo ordine mondiale. Così l’aiuta a sembrare, agli occhi della curva, un incrocio tra Trump e il
Duce, anche se il governo è più immobile di Mariano Rumor.
C’è da chiedersi perché, pur senza combinare un granché, il consenso non registri scosse. Magari la ragione è proprio che non combina un granché. In mancanza d’altro, appare tutto sommato tranquillizzante per un Paese che tira a campare, vuole il quieto vivere, simpatizza per Gaza ma fino a un certo punto, non rinuncia, come dice il proverbio, “alla via vecchia per la nuova perché sa quella che lascia, non sa quella che trova”. Insomma, un Paese che teme il peggio ed è stanco di avventure, dopo un decennio sull’ottovolante che ha suscitato grandi entusiasmi e repentini tonfi.
Il mood del Paese rispetto ad allora è cambiato: non è la rivolta, è l’astensione.
Lo è sin dalla vittoria, poco partecipata, di Giorgia Meloni. Lo è tutt’ora. È l’idea di una stabilità rassegnata e poco esigente.
In attesa che qualcuno sia in grado di risuscitare un entusiasmo non effimero, ci si accontenta di un governo che è specchio di questo umore.
(da La Stampa)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
SU MOLTI DEI CORPI CI SONO I SEGNI DELLE VIOLENZE CHE I PRIGIONIERI HANNO SUBITO: “CE NE SONO DI AMMANETTATI, DI BENDATI, QUALCUNO AVEVA LE MANI E I PIEDI LEGATI CON DELLE FASCETTE DI PLASTICA, ALTRI UNA FUNE ATTORNO AL COLLO” …LA MAGGIOR PARTE DELLE SALME PROVENIVANO DA SDE TEIMAN, LA BASE MILITARE ISRAELIANA RICONVERTITA A CAMPO DI DETENZIONE RIBATTEZZATA “LA PRIGIONE DELL’ORRORE”
All’ospedale Nasser danno i cadaveri in televisione. Le immagini si soffermano sui dettagli, le
dentature, le mani cristallizzate nella posizione innaturale di chi le aveva legate dietro la schiena, i volti anneriti e incrostati di sangue, alcuni con una corda al collo, altri bendati, i brandelli di vestiti, la biancheria, per i pochi che ce l’hanno ancora addosso: qualsiasi particolare che possa permettere agli spettatori, di riconoscere fratelli, padri, figli, cugini, amici.
Centocinquantatre salme palestinesi sono state portate all’ospedale Nasser in cambio dei resti dei 12 ostaggi deceduti
nelle mani di Hamas, durante la prigionia nella Striscia di Gaza. Israele non ha detto quasi niente della identità dei corpi che esse contengono, solo che fanno parte del gruppo di «360 terroristi gazawi» che il governo ha accettato di scambiare pur di riavere tutte le spoglie degli ostaggi.
Su ogni sacca c’è un cartellino con la data di arrivo a Khan Younis e un codice alfanumerico. Su molti cartellini le iniziali S.T., che secondo i medici indicano la provenienza: S.T. come Sde Teiman, la base militare israeliana nel deserto del Negev riconvertita, nel dicembre 2023, a campo di detenzione. L’«Abu Ghraib israeliana», come l’hanno ribattezzata gli attivisti dei diritti umani che denunciano le violenze e gli abusi subiti dai gazawi arrestati durante la guerra e lì rinchiusi in base alla legge marziale israeliana dei combattenti illegali, che permette la cattura senza processo e senza l’ostensione delle prove. «La prigione dell’orrore», come la ricorda chi ne è uscito.
La maggior parte dei cadaveri è stata tenuta nelle celle frigorifere, e infatti sono abbastanza integri, alcuni invece sono in decomposizione, probabilmente esumati da poco, come dimostra la sabbia nella bocca e sui vestiti. Addosso portano le tracce del racconto delle loro ultimo capitolo.
«Ce ne sono di ammanettati, di bendati, qualcuno aveva le mani e i piedi legati con delle fascette di plastica, altri una fune attorno al collo», dichiara a Repubblica Ahmed Dhair, direttore della Medicina forense all’ospedale Nasser. È il primario che riceve, dal suo team di sanitari, le analisi di ciascun cadavere. «Per ora sono solo ispezioni esterne, non facciamo le autopsie».
Nei giorni precedenti era circolata la notizia dell’esistenza di
salme con del cotone al posto degli organi. Non è confermata, ma la voce, nei reparti del Nasser, continua a girare
Fino a sabato le famiglie accorse al Nasser, senza sapere chi ci fosse in quelle sacche ma tutte con un disperso da ritrovare, avevano identificato appena dieci corpi. «Non abbiamo le strumentazioni adatte a facilitare il riconoscimento», spiega Dhair.
Non si sa esattamente chi siano, se sono tutti miliziani di Hamas che hanno partecipato al pogrom del 7 Ottobre e poi al conflitto, come sostengono le autorità israeliane, o se tra essi ci sono civili di Gaza colpiti dalle bombe, o anche qualcuno morto mentre era in stato di detenzione a Sde Teiman. «Solo su sei sacche abbiamo trovato un cartellino con l’indicazione del nome, e abbiamo pure scoperto che due nominativi erano sbagliati», dice il capo della medicina forense del Nasser
Quindi si va a occhio, a tentativi, frugando nei sacchi bianchi per trovare i dettagli. Cadavere numero “H6nmc, 15/10/2025”, appena estratto dal camion dei gelati, usato dagli operatori dell’obitorio come deposito temporaneo. «Non abbiamo altro spazio, del resto, le celle frigorifere dell’ospedale sono già piene». La sacca è aperta, affiora la testa di un uomo congelato, rigido come un pezzo di legno. Il tanfo della decomposizione attira le mosche e allontana i curiosi. I medici si proteggono con le mascherine per il Covid.
Ci sono sette sacche su sette brande, e Nada Zoghra, venuta da Gaza City, è china su quella col cartellino “H6nmc”, trasferita al Nasser il 15 ottobre. Sta cercando suo padre Mohammed, sparito due anni fa. Attorno al cadavere ci sono Nada e sua madre, le
due donne si concentrano sulla faccia che è una maschera nera senza più connotati, toccano il collo della statua contorta, parlano tra loro sottovoce. La mamma collassa a terra, è proprio suo marito Mohammed. Nada l’aveva già capito da un po’ e piangeva in silenzio. «Mio padre era solo un autista, e ora non sappiamo niente, né dove, né quando, né come è stato ucciso hanno ucciso. Ci vuole del sadismo per non fornire informazioni così importanti a una famiglia in lutto».
(da La Repubblica)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
UNGHERIA E SLOVACCHIA VOTANO CONTRO
Via libera del Consiglio Ue allo stop delle importazioni di gas russo entro il 2027. I ministri dell’Energia dei 27 paesi Ue hanno approvato la proposta della Commissione europea con due soli voti contrari, quelli di Ungheria e Slovacchia, che non solo sono i più dipendenti dalle forniture di Mosca ma sono anche quelli politicamente più vicini al Cremlino.
«L’Ue potrà ottenere la sua indipendenza energetica. Per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento ai suoi cittadini e, non da ultimo, per sostenere l’Ucraina», scrive sui social Dan Jorgensen, commissario Ue all’energia.
La tabella di marcia di Bruxelles e la spinta di Trump
La tabella di marcia proposta dalla Commissione europea si compone fondamentalmente di tre fasi: dal primo gennaio 2026 sarà vietato firmare nuovi contratti, entro il 17 giugno 2026 dovranno terminare gli accordi a breve termine già in corso, mentre entro il 31 dicembre 2027 dovranno cessare anche quelli a lungo termine. Lo stop al gas russo rientra nella più ampia strategia ribattezzata «RePowerEU», lanciata da Bruxelles all’indomani dell’invasione dell’Ucraina per ridurre la propria dipendenza energetica dalle esportazioni di Mosca, in particolare per quanto riguarda gas e petrolio. Ad accelerare i piani della
Commissione europea ha contribuito poi il pressing di Donald Trump, che negli ultimi mesi ha più volte intimato ai governi europei di smettere di comprare gas russo: in parte per smettere di finanziare la macchina da guerra di Vladimir Putin e in parte per poter compensare le mancate importazioni con il Gnl prodotto proprio dagli Stati Uniti.
L’Ungheria si oppone: «A rischio la nostra sicurezza energetica»
Bruxelles non ci ha pensato due volte ad ascoltare il monito di Washington. Lo stop al gas russo, infatti, non solo può contribuire a riappacificare i rapporti tumultuosi con l’alleato d’oltreoceano, ma è visto come un tassello fondamentale per rafforzare la sicurezza energetica e passare a un’economia fondata sull’energia pulita.
Eppure, è proprio di sicurezza che parla il governo ungherese per motivare il suo voto contrario al Consiglio Ue. «Per noi l’approvvigionamento energetico non ha nulla a che fare con la politica, ma riguarda la nostra posizione geografica e la realtà fisica. L’impatto reale di questo regolamento è che la nostra fornitura energetica sicura in Ungheria verrà uccisa. Non parlo dell’aumento dei prezzi. Parlo della sicurezza dell’approvvigionamento energetico perché ora stiamo eliminando gradualmente le rotte di approvvigionamento verso l’Ungheria. Le infrastrutture rimanenti, fisicamente e in termini di capacità, non sono in grado di rifornire il Paese», ha detto il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2025 Riccardo Fucile
AMMANETTATI, PICCHIATI E DETENUTI IN VIOLAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE… LA PROCURA DI ROMA DOVRA’ ACCERTARE ANCHE EVENTUALI RESPONSABILITA’ DEL GOVERNO ITALIANO
L’attivista barese Tony La Piccirella, che alcune settimane fa ha preso parte alla Global Sumud
Flotilla, ha denunciato Israele. Nell’atto presentato dal legale di La Piccirella, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, si ipotizza, tra gli altri, il reato di tortura da parte delle autorità israeliane dopo l’abbordaggio e il trasferimento degli attivisti nel porto di Ashold.
Il testo ricostruisce le fasi successive al fermo delle barche e parla di una «completa violazione dei diritti umani» dei circa 300 attivisti. La denuncia di La Piccirella segue di pochi giorni quella del Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che aveva accusato Israele di «azioni criminali contro i cittadini
italiani e pugliesi».
L’arresto degli attivisti
Nella denuncia, presentata alla Procura di Roma competente per reati contro connazionali avvenuti all’estero, si legge che, al momento del fermo, i militari israeliani hanno identificato gli attivisti, «poi li hanno privati di tutti gli effetti personali, dopodiché li hanno perquisiti imprimendo gratuita violenza fisica, motivo per cui ad alcuni attivisti è stato rotto un braccio». Nelle 17 pagine del testo si afferma che «i militari hanno ammanettato gli attivisti dietro la schiena con delle fascette di plastica molto strette e li hanno obbligato gli stessi a stare piegati, faccia a terra» per poi portarli «verso un piazzale assolato» e «costringendo gli equipaggi a stare in ginocchio con i bagagli dietro le spalle e a guardare sempre in basso, impedendogli di muoversi e di parlare, dando dei colpi sulla testa a chi si rifiutava».
Acqua non potabile e scaglie di metallo nel pane
La denuncia di La Piccirella ripercorre poi le condizioni di detenzione dello stesso attivista, costretto, «insieme ad altre 12 persone, in una cella di circa 12 metri quadrati, con solo 3 letti a castello per un totale di soli 6 letti, dove pertanto lui e metà dei presenti sono stati costretti a dormire in terra».
Nel carcere, si aggiunge, il solo accesso all’acqua era dal rubinetto del bagno dove però usciva liquido «di colore opaco e di un sapore rancido». Inoltre, gli attivisti hanno «rinvenuto delle scaglie di metallo di circa 1 cm nel pane portatogli il primo giorno». Il legale riferisce che «sia La Piccirella che altri attivisti hanno avuto una costante sensazione di stordimento e stato
confusionale nei giorni di detenzione, ed hanno a tal fine ipotizzato che il cibo agli stessi somministrato o l’acqua del lavandino contenesse qualche sostanza medicinale».
Le responsabilità del governo italiano
Nella denuncia, l’avvocato chiede di ai pm italiani di accertare anche «eventuali responsabilità del governo italiano per essersi sottratto all’obbligo giuridico di proteggere i propri cittadini, nella misura in cui già a Tunisi e a sud di Creta c’erano stati attacchi con i droni in conseguenza dei quali il governo aveva inviato a protezione una fregata, e poi senza alcuna giustificazione – si legge – ovvero senza nemmeno arrivare in prossimità delle acque territoriali su cui Israele esercita illegalmente il blocco navale, lo stesso è venuto meno alla posizione di garanzia assunta, quando era ormai noto che Israele avrebbe agito nonostante le imbarcazioni fossero a 70/80 miglia marittime dalla costa».
(da agenzie)
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