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PER RACCATTARE VOTI IN PUGLIA SALVINI HA IMBARCATO ANCHE IL “NUOVO” PARTITO SOCIALISTA E I DEMOCRISTI DELL’UNIONE DI CENTRO DI LORENZO CESA. IL TENTATIVO ALLE PROSSIME REGIONALI È QUELLO DI SUPERARE ALMENO FORZA ITALIA

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

“STIAMO UN PO’ ESAGERANDO”, SUSSURRA UN DIRIGENTE DI VIA BELLERIO

Nessuno faccia vedere al fondatur, Umberto Bossi, il simbolo della sua Lega nella lista in Puglia. Lui che aveva creato il contenitore delle lighe autonomiste per “spazzare via il vecchio pentapartito”, lui che inveiva contro i ladroni che stanno a Roma e che tuonava: “L’Italia è un paese fallito per colpa di democristiani, socialisti e comunisti”. Lui che definiva quelli della “banda bassotti” i socialisti milanesi, e non solo.
E che si, è vero, ha fatto da stampella ai governi berlusconiani animati proprio da ex democristiani ed ex socialisti, ma pur sempre camuffati sotto le insegne di Forza Italia o al massimo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini, con il quale litigava spesso infatti.
Ecco, nessuno faccia vedere adesso a Bossi che nel simbolo della Lega sotto il disegno di Alberto Da Giussano, il liberatore della Padania dalla vecchia prima repubblica, compaiono oggi il garofano rosso del “nuovo” Partito socialista e lo Scudocrociato con la scritta Libertas del partito di Lorenzo Cesa.
Ora passi che Salvini è disposto a tutto pur di raccattare voti al Sud (e anche al Nord), tanto che in Sicilia si è alleato anche con la “nuova “ Dc di Totò Cuffaro, l’ex governatore siciliano condannato per aver favorito la mafia. Ma mai si era visto il povero Alberto Da Giussano accanto ai simboli storici dei socialisti e dei democristiani. Eppure in Puglia, nel tentativo di superare almeno Forza Italia e dimostrare che la Lega è un partito nazionale, argomento sul quale il leader del Carroccio si sta giocando tutto, eccolo il simbolo monstre.
“Forse stiamo un po’ esagerando”, sussurra un dirigente di via Bellerio. Che non a caso spera che non lo veda il fondatore Bossi, che quando si infiammava a Radio Padana diceva frasi del tipo: “La gente che votava i democristiani, i socialisti e i comunisti, e che va avanti a votarli invece di spazzarli via a calci in culo, questi partiti che fecero fallire il paese, merita questa Italia. Questa era gente da tirar giù, da portare in piazza e fucilare, perché quando uno fa fallire un paese lo si fucila”.
(da agenzie)

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NEL QUARTIERE TUFELLO DI ROMA, UN GRUPPO DI GIOVANI NEOFASCISTI HA FATTO IRRUZIONE NEL LICEO BRAMANTE, OCCUPATO DAGLI STUDENTI: DA RIVOLUZIONARI A GUARDIE BIANCHE DEL SISTEMA CON LA VOCAZIONE DEGLI SBIRRI MANCATI

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

I RAID SONO AVVENUTI PER DUE NOTTI DI SEGUITO: LA SCUOLA E’ STATA DEVASTATA CON LANCI DI BOTTIGLIE E DISEGNI DI SVASTICHE SUI MURI. UN RAGAZZO E’ STATO AGGREDITO

Notti di violenza al liceo Bramante di Roma, nel quartiere Tufello, dove l’occupazione da parte degli studenti si è conclusa sabato scorso. Secondo quanto denuncia il collettivo della scuola in una lunga lettera a studenti, docenti e dirigente scolastico, sia durante la notte tra il 23 e il 24 ottobre che durante la notte tra il 24 e il 25 ottobre, gruppi di una quindicina di ragazzi riconducibili ad ambienti di estrema destra per via dei cori, è entrato nell’edificio urlando di voler ‘spaccare tutto’.
La scuola, durante la prima notte, sarebbe stata devastata con lanci di bottiglie e disegni di svastiche sui muri e nei corridoi. “Noi studenti siamo riusciti a indirizzare questo gruppo verso il giardino della scuola per allontanarli dall’edificio e prendere tempo”, affermano gli studenti del collettivo, secondo i quali un ragazzo sarebbe stato aggredito e ferito.
Successivamente, anche nella notte seguente, un altro gruppo di persone è arrivato nella scuola a volto coperto producendo nuove devastazioni. A quel punto gli occupanti hanno deciso di interrompere l’occupazione denunciando “gli attacchi inaccettabili e l’inacccettabile clima di violenza squadrista”.
“Basta violenza e incursioni neofasciste nelle scuole. Le istituzioni scolastiche devono restare spazi di libertà, rispetto e democrazia”, afferma il consigliere capitolino delegato all”edilizia scolastica, Daniele Parrucci, che aggiunge: “non è un caso isolato, basta rigurgiti neofascisti nelle scuole”.
(da agenzie)

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TORINO, I DISORDINI PER IL VOLANTINAGGIO DEI GIOVANI DI GIOVENTU’ NAZIONALE DAVANTI AL LICEO D’AZEGLIO DIVENTANO UNA FARSA

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

DA UN LATO IL PRESIDIO DI POLIZIA A TUTELA DEI SEDICENTI MELONIANI, DALL’ALTRO LE PROTESTE DEGLI STUDENTI DELLA SCUOLA CHE NON LI VOGLIONO … POI ARRIVA LA SMENTITA DELLA FEDERAZIONE MELONIANA: “NON SONO NOSTRI TESSERATI”: MA ALLORA CHI SONO? CHI HA NOTIFICATO IL VOLANTINAGGIO ALLA QUESTURA CHE HA MOBILITATO DECINE DI AGENTI IN TENUTA ANTISOMMOSSA?

È stato denunciato per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale lo studente di 15 anni del liceo Einstein di Torino coinvolto questa mattina nelle tensioni con la polizia durante un volantinaggio di Gioventù nazionale ‘Gabriele D’Annunzio’.
Secondo quanto ricostruito, il giovane, portato via ammanettato, avrebbe colpito con calci e pugni un agente della Digos intervenuto per separare i gruppi.
Il ragazzo, dopo due ore in Questura, è stato affidato, in quanto minorenne, ai genitori.
Le tensioni erano scoppiate davanti all’istituto mentre i militanti di destra distribuivano volantini ‘contro la cultura maranza’, espressione usata per indicare giovani figli di immigrati, alcuni dei quali il 3 ottobre scorso avevano partecipato a violenti scontri a margine di una manifestazione pro Palestina davanti alla Prefettura.
Dalla federazione cittadina di Gioventù nazionale Torino è arrivata una presa di distanza dal gruppo coinvolto: “il volantinaggio all’Einstein è stato effettuato da elementi non tesserati alla federazione cittadina di Gioventù nazionale Torino”, si legge in una nota.
Gli studenti dell’Einstein in corteo intanto raggiungeranno piazza Castello per un presidio dopo i fatti di questa mattina. Tutto si è verificato ed è degenerato in poche decine di minuti al primo suono della campanella di lunedì mattina, 27 ottobre. “Quando sono arrivata a scuola c’erano già due camionette della polizia e un piccolo gruppo di ragazzi di Gioventù Nazionale per il volantinaggio contro la cultura maranza. Erano pochi e non erano tutti studenti, c’erano anche ragazzi più grandi di 20-30 anni – spiega a TorinoToday una rappresentante d’istituto –. Gli abbiamo detto ‘andatevene, qua non siete ben accetti’. Glielo abbiamo chiesto più volte e gentilmente, proprio per evitare conflitti”.
L’azione di volantinaggio ha però avuto seguito: “Non se ne sono andati e, insieme ad altri compagni, mi sono avvicinata con un bidone della spazzatura dicendogli che avrebbero potuto buttarli qui, ma nello stesso istante uno dei militanti di destra ha iniziato a strattonare un nostro amico. Gli abbiamo preso i volantini, li abbiamo strappati e buttati a terra. In quel momento è intervenuta la polizia”.
Pochi minuti che sono bastati a innalzare il livello di tensione, tanto da richiedere l’intervento della polizia, fisicamente presente in tenuta antisommossa, insieme alla Digos. Un “parapiglia” tra spintoni, cori e urla. La denuncia della rappresentante d’istituto: “Gli agenti hanno avanzato contro di noi spingendoci contro un muro. Due ragazzi sono stati afferrati per il collo e un nostro compagno, minorenne, è stato portato via”. Si tratterebbe di un ragazzo di 16 anni, fermato per essere identificato dalla Digos. Ravinale (AVS): “Chiederemo conto a Piantedosi. Non c’è alcuna buona ragione né giustificazione per l’intervento della polizia in tenuta antisommossa”
“Quanto avvenuto questa mattina davanti al liceo Einstein di Barriera di Milano a Torino è gravissimo e inquietante – sono invece le parole di condanna pronunciate da AVS –. Gioventù Nazionale, la giovanile di Fratelli d’Italia, stava volantinando contro la ‘cultura maranza’, come già avvenuto nelle scorse settimane al Primo liceo artistico, ed è stata oggetto di contestazioni per via del contenuto razzista di quel volantino. Non c’è alcuna buona ragione né giustificazione per l’intervento della polizia in tenuta antisommossa, che ha caricato gli studenti e portato via in manette un ragazzo di sedici anni tuttora, a quanto ci risulta, trattenuto in Questura”. E ancora, sempre in una nota: “Chiediamo il suo immediato rilascio e provvederemo a chiedere conto, con un’interrogazione parlamentare, al Ministro Piantedosi di quanto accaduto. Al Primo, studenti e docenti hanno respinto pacificamente il messaggio d’odio contenuto nel volantino, senza il verificarsi di incidenti. A fronte di ciò, la risposta del Ministero e della Questura è quella di far scortare i militanti della giovanile di Fratelli d’Italia da agenti in antisommossa, con licenza di caricare e arrestare minorenni?”
(da agenzie)

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I SOLDI DIMINUISCONO, I SALARI NON CRESCONO E VIVERE COSTA SEMPRE DI PIU’: STA FINENDO LA LUNA DI MIELE TRA GIORGIA MELONI E GLI ITALIANI

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO IL SONDAGGIO DI “DEMOS” IL GRADIMENTO NEI CONFRONTI DELLA DUCETTA È IN SENSIBILE CALO RISPETTO ALL’ANNO SCORSO. PUR RESTANDO LA LEADER PIÙ GRADITA, LA SORA GIORGIA SCENDE DAL 43% AL 37% … SEI ITALIANI SU 10 SONO CONTRARI AL TERZO MANDATO

Ci avviamo a un nuovo appuntamento elettorale, dopo il voto alle Regionali che, nelle Marche, in Toscana e in Calabria ha riconfermato i presidenti uscenti. Ciò che non potrà avvenire nel Veneto, in Campania e in Puglia. Dove i governatori uscenti non potranno rigovernare la Regione. Per il vincolo del “terzo mandato”.
Che, per questo motivo, oggi assume grande rilievo. E attualità.
Il sondaggio condotto da Demos, comunque, sottolinea come l’argomento sia condiviso dalla maggioranza degli italiani.
Quasi 6 cittadini su 10, infatti, ritengono giusto “vietare il terzo mandato”. Il 38%, al contrario, pensa che andrebbe “consentito”. Le ragioni che spiegano questo orientamento sono diverse.
E hanno spiegazioni “politiche”, ma, anzitutto, “anti-politiche”.
In quanto riflettono il sentimento diffuso che, da molti anni, ha spinto i cittadini a prendere le distanze dalla scena politica. E dagli attori che la occupano. È comunque significativo il profilo tracciato dalla mappa geo-politica.
Nella quale emerge la specifica presenza di persone favorevoli al terzo mandato. In alcune aree. In particolare, nel Nordest. In altre parole: “la terra di Zaia”. Dove la quota di chi si oppone a questa prospettiva è minoritaria.
Ma non di molto. Raggiunge, infatti, il 46%. E risulta, così, la più ampia, in Italia. Un territorio specifico. Anzi: “speciale”. Visto che intorno al Veneto vi sono Regioni a statuto “speciale”. Una situazione che il governatore vorrebbe riprodurre.
E per questo, al di là dell’impossibilità di potersi riaffermare come governatore, Zaia intende utilizzare queste elezioni come un’occasione per riaffermarsi.
Una sorta di “referendum” sulla sua guida, che dura da molto tempo. D’altronde, nel suo caso si dovrebbe parlare di “quarto mandato”, visto che è in carica dal 2010. Ma la legge nazionale del “doppio mandato”, in Veneto è entrata in vigore dal 2012. E l’intenzione del governatore (che continua a godere di consenso elevatissimo, come mostrano i sondaggi di Demos) è di andare “oltre”.
Se si valutano gli orientamenti in base alla posizione politica e alla preferenza di partito si delinea un profilo sostanzialmente chiaro e definito. Riflette la divisione fra maggioranza e opposizione. Il grado maggiore di scetticismo nei confronti del “terzo mandato” si osserva fra gli elettori dei partiti di opposizione. Il Pd, in primo luogo. E, quindi, il M5s.
“All’opposto”, nella base dei partiti di governo cresce il consenso per l’istituzione del terzo mandato. Soprattutto fra chi vota per i FdI. Unico elettorato che proponga un sostegno al terzo mandato maggioritario: 51%. Quasi il doppio, rispetto al Pd (27%).
Questi indici, comunque, riflettono il peso e il ruolo dei leader. Giorgia Meloni, infatti, nel sondaggio di Demos dello scorso settembre, risulta la più apprezzata fra i leader politici italiani. Anche se il gradimento nei suoi confronti è in sensibile calo rispetto all’anno precedente.
Pur restando la più gradita, scende, infatti, dal 43% al 37%. Ma rimane oltre 10 punti sopra alla segretaria del Pd, Elly Schlein.
Anche per questa ragione il percorso verso le prossime elezioni Regionali è importante.
Perché induce a guardare oltre il presente. Oltre domani. Verso il
futuro. Un futuro che, in Italia, è segnato da numerosi appuntamenti elettorali. Già dalla primavera del 2026, quando si dovrebbe votare in numerose città, molto importanti.
Fra le altre: Roma, Milano, Bologna, Torino e Trieste. Fino alle elezioni politiche, che avranno luogo nel 2027.
Insomma: ci attende un election day senza sosta. Un mese dopo l’altro. Un anno dopo l’altro.
(da Repubblica)

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DELMASTRO, UN ALTRO DISASTRO: IL SOTTOSEGRETARIO MELONIANO ALLA GIUSTIZIA HA VOLUTO COME NUOVO CAPO DELLA DIREZIONE GENERALE DELLA FORMAZIONE DEGLI AGENTI CARCERARI ANTONIO FULLONE

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

SI TRATTA DEL FUNZIONARIO IMPUTATO NEL PROCESSO SUI PESTAGGI AI DANNI DEI DETENUTI AVVENUTI IL 6 APRILE 2020 NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE

Alla fine Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia e padrone delle carceri italiane, è riuscito
nell’operazione più complicata. Dopo circa un mese dal nostro scoop, ha portato a casa la nomina più difficile. Come Domani aveva anticipato, ora è ufficiale, è stato scelto il nuovo capo della direzione generale della formazione.
Il nominato si chiama Antonio Fullone. Passerà il suo tempo diviso tra il prestigioso incarico e il processo che lo vede imputato come principale responsabile, fu lui a disporre la perquisizione straordinaria, del pestaggio del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Sul sito del ministero della Giustizia nella sezione formazione si legge il nome del nuovo dirigente responsabile, ma anche altro: «Nell’ambito della direzione opera la Scuola Superiore dell’esecuzione penale ‘Piersanti Mattarella’ il cui direttore è Antonio Fullone».
L’opera di restaurazione del quadro dirigenziale del Dap, il dipartimento del ministero della Giustizia che amministra il personale e le carceri italiane, è quasi completata.
Quella di Fullone, però, è una nomina che significa anche altro. Sono trascorsi cinque anni dal più grave pestaggio mai documentato in un carcere italiano. Era il 6 aprile 2020, quando quasi 300 agenti entrarono nell’istituto Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere e picchiarono i detenuti per oltre quattro ore.
Nel reparto Nilo andò in scena un pestaggio di stato. Da allora tutti i protagonisti sono tornati operativi e premiati. La nomina significa piena restaurazione.
Fullone, in quell’aprile 2020, da provveditore regionale dispose la perquisizione straordinaria che si trasformò in un massacro con il marchio di stato. Fatti per i quali è sotto processo per diversi di capi di imputazione, è lui il principale imputato anche perché il più alto in grado tra i funzionari coinvolti nel maxi processo in corso davanti alla corte d’Assise del tribunale casertano.
La procura gli contesta di aver disposto la perquisizione straordinaria pur non avendone i titoli e le competenze visto che spettava alla direzione del carcere. La sua difesa ha puntato sulle parole dell’allora capo del Dap, Francesco Basentini, che in aula ha spiegato la correttezza della decisione in ragione del contesto temporale in cui era maturata, visto che si era in piena emergenza pandemica.
Fullone risponde anche del reato di depistaggio. Le accuse sono ancora tutte da dimostrare, Fullone vanta un’esperienza importante, particolarmente impegnato nella tutela dei diritti dei detenuti fino al sei aprile 2020. Ma è evidente la questione di opportunità e il segnale che si manda all’intero mondo carcerario, sarà lui a occuparsi di tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria, anche degli impiegati civili.
Delmastro Delle Vedove non si è mai espresso in maniera critica sui fatti del 6 aprile 2020, nel giugno 2020 quando gli agenti erano già indagati per tortura, voleva addirittura tributargli l’encomio solenne.
La scelta serve anche a cancellare l’ondata di indignazione che aveva accompagnato la pubblicazione dei video delle violenze
da parte di questo giornale, immagini che avevano fatto il giro dei network anche internazionali
Una formazione che ora finisce nelle mani del principale imputato per quei fatti. Una casella cruciale nel funzionamento del dipartimento perché si occupa di quella formazione che viene evocata ogni quando un’inchiesta giudiziaria coinvolge gli agenti penitenziari.
(da Domani)

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DECINE DI DRONI UCRAINI HANNO PRESO DI MIRA STANOTTE MOSCA: GLI AEROPORTI DI DOMODEDOVO E ZHUKOVSKY HANNO TEMPORANEAMENTE SOSPESO LE OPERAZIONI

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

VARIE ESPLOSIONI SONO STATE SEGNALATE IN DIVERSE PARTI DI MOSCA E NELLA REGIONE CIRCOSTANTE: UN INCENDIO SAREBBE SCOPPIATO IN UN DEPOSITO DI PETROLIO A SERPUKHOV

Decine di droni ucraini hanno preso di mira stanotte Mosca, secondo il sindaco Sergey Sobyanin citato dai media locali. Le difese aeree russe hanno abbattuto finora circa 30 velivoli, riposta da parte sua l’agenzia di stampa Tass. Gli aeroporti moscoviti di Domodedovo e Zhukovsky hanno temporaneamente sospeso le operazioni in risposta alla minaccia.
Esplosioni sono state segnalate in diverse parti della capitale e nella regione circostante, secondo i canali Telegram russi. Non sono state segnalate vittime, mentre un incendio sarebbe scoppiato in un deposito di petrolio a Serpukhov. Ieri i raid russi su Kiev hanno causato almeno tre morti e oltre 30 feriti
nella notte.
La Lituania ha chiuso a tempo indeterminato i suoi valichi di frontiera con la Bielorussia, dopo che palloni aerostatici hanno violato il suo spazio aereo per la terza notte consecutiva.
Lo hanno comunicato funzionari di Vilnius, citati dai media locali. L’aeroporto internazionale della capitale lituana ha temporaneamente sospeso le operazioni per diverse ore a causa di uno o più palloni che volavano in direzione dello scalo. I valichi di frontiera con la Bielorussia sono stati chiusi a “tempo indeterminato” in risposta all’ultimo incidente, ha annunciato il Centro nazionale di gestione delle crisi (Nkvc) della Lituania.
(da agenzie)

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PER LIBERARE ALBERTO TRENTINI, IL REGIME DI MADURO, CHE DETIENE IL COOPERANTE ITALIANO DA QUASI UN ANNO, CHIEDE UNA TELEFONATA DELLA PREMIER ITALIANO. SAREBBE UN RICONOSCIMENTO FORTE PER IL DITTATORE DI CARACAS

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

C’È UN’ALTERNATIVA: I MILIARDI DI EURO DI CREDITI NON RISCOSSI DALLE AZIENDE ITALIANE A CARACAS. SVALUTARLI POTREBBE ESSERE CONSIDERATO UN SEGNALE DI DISTENSIONE PIÙ EFFICACE DELLA CHIAMATA

Il 15 novembre sarà passato un anno. Trecentosessantacinque giorni da quando Alberto Trentini è stato arrestato dal regime di Nicolas Maduro. Rinchiuso nel carcere di El Rodeo I, senza avvocato, è stato di fatto sequestrato dal regime come “vendetta” contro l’Italia, che negli ultimi anni non ha agevolato l’estradizione di oppositori che hanno trovato rifugio a Roma, primi tra tutti l’ex viceministro dell’Energia Gerardo Villalobos e l’ex ministro del petrolio Rafael Ramirez, archiviato dalla procura di Roma due settimane prima dell’arresto di Trentini.
Quest’ultimo ha potuto parlare al telefono con la famiglia una manciata di volte, l’ultima pochi giorni fa: fatto che fa sperare i nostri servizi in una positiva risoluzione a breve della vicend
I due governi non si espongono pubblicamente, ma secondo quanto ha ricostruito Domani, ci sono due dossier che potrebbero sbloccare l’impasse.
Sotto sanzioni e con l’economia in crisi nera da almeno un decennio, Caracas è alla disperata ricerca di riconoscimento internazionale. A maggior ragione adesso che Donald Trump, motivando la scelta con la necessità di combattere i narcos che usano il Venezuela come base, ha schierato i B-52 davanti alle sue coste e bombardato alcune imbarcazioni private in acque internazionali.
Fonti vicine al governo di Caracas dicono che per portare alla liberazione di Trentini basterebbe una telefonata tra Meloni e Maduro, o tra lui e Sergio Mattarella.
Una mossa politica molto difficile da fare, però: secondo fonti vicine a Palazzo Chigi, questa strada è infatti la più complicata. Il governo Meloni a gennaio scorso, fedele all’alleanza con gli Stati Uniti e la Commissione europea, ha dichiarato di non riconoscere il regime di Maduro.
I rapporti diplomatici tra Italia e Venezuela sono ai minimi termini, anche se recentemente un primo contatto ufficiale tra i due governi c’è stato. Il 25 settembre il vice ministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, ha telefonato alla sua omologa venezuelana, Andrea Corao, per ringraziarla di aver permesso all’incaricato d’affari italiano (non c’è scambio di ambasciatori tra i due paesi) di entrare in carcere per fare visita a Trentini.
Il riconoscimento politico sembra la strada più difficile, mentre ce n’è un’altra che – a Palazzo Chigi – è considerata più percorribile: la strada finanziaria.
La storica presenza dell’Italia in Venezuela, interrotta quasi totalmente dopo le sanzioni Usa, ha lasciato infatti miliardi di euro di crediti non riscossi. Soldi di aziende che hanno realizzato lavori in Venezuela, ma che la Repubblica bolivariana non ha mai pagato. O, almeno, non totalmente.
Abbiamo già raccontato nelle scorse settimane di Eni, che con i suoi 2 miliardi di euro di crediti verso la società petrolifera locale Pdvsa (dati di fine 2024) è il maggior creditore italiano di Caracas. La multinazionale guidata da Claudio Descalzi è controllata dal Mef, che potrebbe decidere di svalutare quei crediti più facilmente di quanto farebbero alcune aziende private.
Un credito rilevante è nelle mani di Webuild, Ghella e Astaldi. I tre nel 2011 hanno iniziato la costruzione in Venezuela di opere ferroviarie per 3,3 miliardi di euro. Nell’ultimo bilancio di Astaldi, ora in concordato preventivo, il credito che le aziende devono incassare da Caracas è quantificato in 433 milioni di euro: circa 140 milioni a testa. Webuild, Ghella e Astaldi (oggi Astaris) stanno tentando di ottenerli attraverso un arbitrato intentato a Parigi contro il governo venezuelano e l’Instituto de Ferrocarriles del Estado, la società ferroviaria di Caracas.
La vicenda va avanti da anni e il lodo è atteso per fine anno. Secondo quanto riportato nel suo bilancio, Ghella avrebbe anche dei crediti legati alla costruzione della metropolitana di Valencia, capitale dello stato del Carabobo e terza città del paese. […]
Investimenti incagliati in Venezuela riguardano anche la Tenaris della famiglia Rocca, presente in Venezuela da decenni per via dei legami della famiglia milanese con il Sudamerica. La somma totale dovuta da Caracas è di 137 milioni di euro. […] Tenaris ha vinto nel 2018 un arbitrato contro il governo venezuelano presso l’Icsid (International Centre for Settlement of Investment Disputes), istituzione creata dal Gruppo della Banca mondiale con sede a Washington.
Oggetto dell’arbitrato: l’esproprio di due controllate venezuelane di Tenaris, Tamsa e Comsigua. Al momento i Rocca e i loro soci si sono però dovuti accontentare di poco: 33 milioni incassati nel 2023 come riconoscimento per la nazionalizzazione delle due aziende, si legge nel bilancio della multinazionale.
Nella lista di chi in Venezuela ci ha rimesso qualche milioncino ci sono anche Danieli e il San Raffaele del gruppo San Donato. L’azienda ospedaliera deve ricevere ancora 2,7 milioni di euro dalla venezuelana Pdvsa: si tratta di un credito nato da un accordo del 2016 per la cura delle persone affette da patologie del midollo osseo
Danieli vanta invece qualche milione di euro di credito un impianto siderurgico progettato nel 2005 con la Sidor, equivalente caraibica della vecchia Italsider, e mai pagato.
Queste, dunque, sono le principali aziende italiane che attendono pagamenti dal Venezuela, e il totale vale oltre 2,5 miliardi di euro. Si vedrà se e come il governo Meloni riuscirà a convincere queste imprese, quasi tutte private, a rinunciare ai crediti per provare ad ottenere la liberazione di Alberto Trentini.
Di sicuro l’Italia sa di poter contare su qualche potenziale interlocutore a Caracas. Una si chiama Camila Fabbri, 30 anni, romana. Moglie del ministro delle Industrie e fidatissimo consigliere finanziario di Maduro, il colombiano Alex Saab, Fabbri è stata scelta dal regime come vice ministra della Comunicazione internazionale del ministero degli Affari esteri.
L’altro interlocutore forte è Rafael Lacava, italo-venezuelano, oggi governatore dello stato di Carabobo, dal 2007 al 2008 ambasciatore della repubblica socialista in Italia. È stato anche grazie alla sua mediazione, oltre a quella della Comunità di sant’Egidio, se nel maggio scorso l’Italia ha ottenuto la liberazione di Alfredo Schiavo, italo-venezuelano rimasto in carcere a Caracas per oltre cinque anni.

(da agenzie)

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IL DIRETTORE DELLA “STAMPA” METTE ALLA BERLINA IL CAMALEONTISMO DELLA SORA GIORGIA: “DOVREBBE SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE, MA L’IDEA STESSA DI PRENDERE UNA DECISIONE LA TRAUMATIZZA, CONDANNANDOCI AL RUOLO DI RUOTA DI SCORTA”

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

“NON AMA BRUXELLES MA FA QUELLO CHE BRUXELLES DICE. SCELTE CHE AVREBBE POTUTO FARE UN PREMIER DI SINISTRA. O PERSINO MARIO DRAGHI” …“SMANIOSA DI POPOLARITÀ, CHE COSA VUOLE DAVVERO LA PREMIER? QUALE TIPO DI MONDO IMMAGINA? E PERCHÉ, NEI SUOI DISCORSI PUBBLICI, INVOCA SEMPRE I VALORI OCCIDENTALI E MAI QUELLI EUROPEI?”

La frase più sgradevole di queste ultime confuse settimane europee l’ha pronunciata il cancelliere tedesco Friedrich Merz, presidente della Cdu, l’Unione Cristiana Democratica, tendenzialmente un moderato, in ottimi rapporti con Palazzo Chigi. «Lavoriamo sui rimpatri di massa. I migranti sono pericolosi, le vostre figlie lo sanno».
Le “Tochter gegen Merz”, le figlie contro Merz, hanno marciato davanti alla sede della Cdu per prendere le distanze da questa generalizzazione sgangherata, razzista e velenosa come ogni generalizzazione.
«Non parla a nostro nome», hanno gridato, segnalando una volta di più la distanza pericolosa che anche nei paesi democratici divide chi guida da chi ambirebbe ad essere ragionevolmente guidato.
Ripensavo al quadro berlinese sentendo parlare alla Camera Giorgia Meloni che spiegava convintamente quanto lei, e dunque noi, sia decisamente contraria all’abolizione del diritto di veto nell’Unione, quella norma, che consente a qualunque paese dei ventisette di impedire in solitudine agli altri ventisei di fare ciò che ritengono giusto.
L’Ungheria (esempio casuale) non è d’accordo? Si fermano i motori. Problema piuttosto serio con l’Europa «sotto attacco e alle prese con la necessità di difendersi» (citazione di Mario Draghi).
Ora, che cosa unisce l’infelice intemerata di Merz e il catenaccio burocratico rivendicato da Meloni? Sintetizzando male, la paura.
E la mancanza di una visione. In sostanza, il contrario di quello che serve.
Merz ha paura dell’Afd. L’estrema destra tedesca cresce a dismisura nel voto e nei sondaggi sventolando le solite bandiere: no all’Islam, no agli stranieri. Sono gli xenofobi nazionalisti suprematisti bianchi a dettare l’agenda e il cancelliere Cristiano Democratico (fa sorridere), invece di prendere le distanze si adegua
La paura di Meloni? Quando rivendica il diritto di veto lo fa per due motivi: un antico, e ormai forse involontario, riflesso conservativo antieuropeista che le consente di assecondare meglio la sua passione per la Casa Bianca trumpiana, e un’ammirazione, rivendicata, per Viktor Orban e il suo autoritarismo nazionalista che presumibilmente invidia.
Dovrebbe scegliere da che parte stare, ma l’idea stessa di prendere una decisione la traumatizza, condannandoci se non all’immobilità per lo meno al ruolo di ruota di scorta.
Nel caso della nostra Presidente del Consiglio l’indecisione e l’incoerenza finiscono paradossalmente per rivelarsi una virtù. Non ama Bruxelles – ricordate l’immortale: «per questi signori la pacchia è finita»? – ma, come dimostra la risicata manovra da diciotto miliardi, fa quello che Bruxelles dice.
Non abbassa l’età pensionabile, al contrario la alza. Non riduce le accise. E non mette più in discussione la moneta. Per giunta chiede sacrifici a banche e assicurazioni. Scelte che avrebbe potuto fare, identiche, un premier di sinistra. O persino Mario Draghi.
Meloni è una sorta di Giano bifronte della politica, penetrante ed esitante, smaniosa di popolarità, regina di una dialettica spiccia, efficace e diretta, capace di esaltare gli osannatori a cottimo ma anche di affascinare i più fragili, che un tempo cercavano rifugio in una sinistra logorata dalla dilapidazione dell’ovvio.
Ma la domanda di fondo rimane: che cosa vuole davvero la premier? Quale tipo di mondo immagina? E perché, nei suoi discorsi pubblici, invoca sempre i valori Occidentali e mai quelli europei?
La prima risposta è che per lei nazione, popolo e Trump vengono prima. Peccato. Perché in un Vecchio Continente in cui la Francia sta colando a picco, la Germania è in crisi economica e alle prese con i rigurgiti nazionalsocialisti, l’Italia potrebbe diventare il centro di un nuovo Rinascimento.
Sic stantibus rebus, persino la presenza del diritto di veto (che olo un matto può amare in astratto) diventa una mini-garanzia per il futuro. Pensate ad uno scenario in cui l’Afd fosse alla guida della Germania e Le Pen si insediasse all’Eliseo. A quel punto l’idea del diritto di veto diventerebbe persino rassicurante.
Il punto vero è che l’Europa avrebbe bisogno di obbligarsi a ciò che non ha: una Costituzione condivisa. Senza non si sta in piedi. Diritti e doveri devono avere un bilanciamento. Le maggioranze vanno protette dai piccoli e i piccoli vanno protetti dalle maggioranze.
Aspettando Godot, ci possiamo rifugiare negli accordi rinforzati. Nella costruzione di piccole federazioni sentimentali che individuano terreni comuni – la Difesa per i Volenterosi – e si organizzano in modo autonomo. Non era così che doveva essere. Ma è così che è.
Navighiamo a vista, con una premier che tiene i piedi in due scarpe, affascinata da un Donald Trump che, mentre si arrovella per imporsi con un incostituzionale terzo mandato che scatenerebbe la guerra civile, dà l’impressione di essere uno di quegli uomini che si ubriacano con te per poi tradirti meglio. Davvero Meloni, con la sua evidente rapidità di pensiero, si trova a suo agio in questo clima da osteria?

Andrea Malaguti
per “La Stampa”

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“REPORT” RIVELA CHE IL MINISTERO DELL’AGRICOLTURA DI LOLLOBRIGIDA HA FINANZIATO (SENZA GARA D’APPALTO) CON 120 MILA EURO UNO STAND ALLA FIERA DEL FUNGO PORCINO DI LARIANO, COMUNE DEI CASTELLI ROMANI. LA SOCIETA’ A CUI SONO FINITI I SOLDI È STATA APPENA FONDATA DA UNA EX BARISTA DI LARIANO E DA SUO MARITO

Ottobre 27th, 2025 Riccardo Fucile

A INDICARLA E’ STATO MARCO ABBAFATI (NOTO COME “MARKINO DJ”), FIGLIO DEL PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE “FUNGO PORCINO” E SEGRETARIO DELL’ASSESSORE AL BILANCIO DELLA REGIONE LAZIO, GIANCARLO RIGHINI (ESPONENTE DI FRATELLI D’ITALIA) … IL COLMO E’ CHE I FUNGHI UTILIZZATI ALLA FESTA SONO, PER IL 90%, IMPORTATI DALL’EST EUROPA

Un piccolo comune, Lariano, ai Castelli Romani, che diventa un laboratorio di potere. Un ministero che finanzia gli amici degli amici per una festa di paese, la sagra del fungo porcino, nel nome dell’italianità. Peccato che i funghi, probabilmente, arrivino da molto lontano, dall’Est Europa.
Tra le storie raccontate ieri sera da Report ce n’è una che punta al ministero dell’Agricoltura e al ministro Francesco Lollobrigida.
Il dicastero ha finanziato senza gara d’appalto, con 120mila euro di fondi pubblici, un grande stand al centro della fiera del piccolo borgo romano, assai caro ai vertici di Fratelli d’Italia. All’interno del padiglione sono stati organizzati corsi e degustazioni: diecimila euro al giorno
Ma il punto, semmai, è un altro. I fondi serviti per l’allestimento sono andati alla Evolution Trade, una società appena nata, intestata a Giulia Castellano, ex barista di Lariano, e al marito Emilio Fabbri, pubblicitario che sui social ostenta lusso e ricchezza. Non è esattamente un colosso del settore. Come ha documentato Report, in città nessuno ne ha mai sentito parlare.
E la sede non dà più sicurezza: si trova nello studio di un commercialista di Velletri che ammette si tratti soltanto di un
domicilio fiscale. Come si è arrivati allora a questa società? «Li abbiamo indicati noi, perché sono la nostra società di riferimento», dice a Report Marco Abbafati, da molti conosciuto come Markino dj.
È il figlio del presidente dell’Associazione Fungo Porcino, Bruno, e il segretario dell’assessore al Bilancio e all’Agricoltura della Regione Lazio, Giancarlo Righini, esponente di Fratelli d’Italia.
«È un’iniziativa del tutto compatibile con il ministero, è nel piano di comunicazione», ha detto Lollobrigida. «Poi c’è la parte amministrativa che seguono gli uffici». Ma oltre alle spese c’è anche la beffa. Secondo quanto ricostruito nel servizio di Andrea Tornago, non c’è alcuna prova che i funghi porcini protagonisti della festa di Lariano vengano effettivamente dai boschi dei Castelli. Anzi: «Almeno il 90 per cento viene importato. Quindi arrivano principalmente dai Paesi dell’Est. […]».

(da agenzie)

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