Destra di Popolo.net

A SEI MESI DAL VOTO CROLLA IL CONSENSO PER ORBAN, LUI METTE LE MANI SUL PRIMO TABLOID D’UNGHERIA PER CERCARE DI RISALIRE LA CHINA

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

IL LEADER DELL’OPPOSIZIONE MAYAR: “VUOLE DISTRUGGERE LA STAMPA LIBERA PER EVITARE LA SCONFITTA… I SONDAGGI DANNO IL PARTITO DI ORBAN AL 37%, QUELLO LIBERALE DI MAYAR AL 48%

Di Viktor Orbán conosciamo i toni spavaldi con cui attacca a giorni alterna le istituzioni Ue, il volto fiero con cui sfila a fianco dei suoi alleati preferiti in Europa e non solo: Giorgia Meloni a Roma, Donald Trump negli Usa, da ieri in poi anche Andrej Babiš in Repubblica Ceca.
La verità però è che sul fronte interno Orbán è ben più fragile di quanto si pensi. In primavera l’Ungheria torna al voto e dopo 16 anni ininterrottamente al potere il leader magiaro rischia seriamente di vedersi sconfitto.
I sondaggi danno infatti nettamente in testa il partito Tisza guidata da Péter Magyar, un ex alleato di Orbán che lo scorso anno gli ha voltato le spalle lasciando Fidesz e dando vita alla nuova formazione, d’impronta liberale ma lontana da ogni «tentazione» di sinistra che Orbán avrebbe facilità ad attaccare. Gli ultimi sondaggi danno il Tisza (sigla per “Partito del Rispetto e della Libertà”) avanti 48% a 37% sul Fidesz.
Si spiega forse anche così l’ultima iniziativa che ha colpito il sistema mediatico del Paese, negli anni già pesantemente intimidito o portato «sotto controllo» dal governo. Nei giorni scorsi infatti Blikk, il tabloid più letto del Paese, è stato acquistato dal gruppo Indamedia, considerato molto vicino al premier.
Ufficialmente il gruppo svizzero Ringier dice di aver venduto le sue attività in Ungheria – oltre a Blikk ne fa parte anche l’edizione locale di Glamour – per pure «considerazioni economiche strategiche». E Indamedia s’assesta su un
linguaggio altrettanto tecnico sottolineando semplicemente di aver così rilevato un gruppo «con forti posizioni di mercato e brand di successo nel panorama mediatico ungherese». Ma per l’opposizione così come per gli stessi giornalisti del tabloid il senso politico dell’operazione è fin troppo evidente.
Blikk, che per il focus sul gossip e i titoli «sparati» ricorda un po’ il modello della Bild tedesca o di The Sun nel Regno Unito, s’è imposto da anni come primo portale d’informazione per gli ungheresi. E proprio per quell’impronta, spiega la studiosa Ágnes Urbán al Guardian, il suo bacino di lettori (tre milioni al mese sul sito, primo in edicola) è cruciale per Fidesz. Indamedia è controllata al 50% da Miklós Vaszily, un imprenditore pro-Orbán che guida già un canale tv privato filogovernativo, TV2.
Il direttore Ivan Zsolt Nagy ha rassegnato le dimissioni subito dopo aver saputo del cambio di proprietà ed è già stato rimpiazzato da Balázs Kolossváry. Tra chi rimane (forse), serpeggia lo sconcerto: «Ho avuto quasi un infarto quando ho saputo. Per me è moralmente inaccettabile», ha detto un giornalista di Blikk alla testata britannica. Caustico il leader dell’opposizione Magyar: «Orbán e i suoi temono talmente tanto una sconfitta elettorale che ormai non si preoccupano nemmeno più delle apparenze e spendono centinaia di miliardi di fondi pubblici in propaganda e per distruggere la stampa indipendente».
(da Open)

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X DI FINE CARRIERA, ELIA VIVIANI RISPONDE A VANNACCI: “MA QUALE DECIMA MAS, NON CONOSCI IL CICLISMO”. E ORA L’AZZURRO VALUTA VIE LEGALI

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

IL CICLISTA NON INTENDE CHE IL SUO ADDIO ALLA CARRIERA POSSA ESSERE STRUMENTALIZZATO E VUOLE TUTELARE LA PROPRIA IMMAGINE

Che tutte le X del mondo non riportassero sempre a galla la memoria della Decima Mas era già ben noto, anche se forse non a tutti. L’ultimo pseudo-ricordo che aveva fatto esplodere il caso era stato quello della X disegnata con le braccia dal ciclista Elia Viviani, per festeggiare l’oro iridato nell’inseguimento a squadre in quella che – come aveva annunciato – è stata la sua ultima gara in carriera. A distanza di qualche giorno, l’atleta azzurro è tornato sull’accaduto dando la sua spiegazione: «Chi mi conosce e conosce il ciclismo sa perfettamente il significato di quel gesto».
Il post di Vannacci: «Un’altra Decima Mas»
La spiegazione, non dovuta, è diventata necessaria dopo un post dell’eurodeputato Roberto Vannacci. Secondo l’ex generale, il gesto di Viviani era proprio un richiamo alla Flottiglia militare italiana: «Un’altra decima per l’Italia», aveva scritto sui social. Le critiche erano piovute quasi immediatamente e da ogni parte, con testate giornalistiche e utenti anonimi che spiegavano che il
vero significato di quella X fosse la fine della carriera ciclistica per il Profeta. Un ultimo capitolo dolcissimo dopo 15 anni di fatica sui pedali.
La spiegazione di Viviani: «Ora valuto mosse per quel tweet»
Una decina di giorni più tardi, Viviani è stato costretto a tornare sulla questione in un’intervista a BiciSport: «Chi mi conosce e conosce il ciclismo sa benissimo il significato di quel gesto, e non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo».
Ha poi aggiunto che sta ancora ragionando su se e come muoversi nei confronti proprio di Vannacci: «Per quanto riguarda quel tweet valuterò se devo muovermi nei prossimi giorni, visto che sono appena rientrato dalle vacanze».
Una mossa, che sa di legale, per tutelare la propria immagine di sportivo e tenere ben separata la sua straordinaria carriera da qualunque valore politico che gli si provi ad appiccicare sopra impropriamente.

(da agenzie)

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LO SCORSO 19 LUGLIO NELLE CAMPAGNE CATANESI SI CELEBRAVANO LE NOZZE DEL FIGLIO DI TOTÒ CUFFARO CON IL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA REGIONALE GAETANO GALVAGNO (FDI) CHE SALTA LE COMMEMORAZIONI DI BORSELLINO PER INGINOCCHIARSI, METAFORICAMENTE, AL COSPETTO DEL REDIVIVO CUFFARO

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

GALVAGNO È IL RAPPRESENTANTE DI QUEL PARTITO, FDI, CHE FA DELLA LEGALITÀ LA PROPRIA NARRAZIONE

San Michele di Ganzaria, provincia di Catania. Qui è l’ombelico della Sicilia. Non Palermo, non via D’Amelio. È qui, tra le vigne ordinate della famiglia Cuffaro e i tavoli imbanditi per duemila invitati, che batte il cuore vero – impunito, sfrontato, orgoglioso – della Sicilia che conta.
Quella che comanda. Quella che, da sempre, si fa beffe del pudore civile e delle liturgie repubblicane.
Il 19 luglio, mentre l’Italia intera si stringe nel lutto rituale per la strage di via D’Amelio, mentre la memoria pubblica prova a tenere vivo il sacrificio di Paolo Borsellino, nella campagna catanese si celebrano le nozze del figlio di Totò Cuffaro.
Una data scelta con cura, non a caso. Perché in Sicilia non si comunica con le parole: si parla coi gesti, si urla coi silenzi
Quel giorno, il 19 luglio, diventa allora spartiacque e dichiarazione d’intenti: da una parte l’Italia che ricorda, dall’altra quella che festeggia; da una parte le istituzioni raccolt
davanti alla lapide di un magistrato ucciso dalla mafia, dall’altra un presidente dell’Assemblea Regionale, Gaetano Galvagno, che salta le commemorazioni per inginocchiarsi, metaforicamente, ma non troppo, al cospetto del redivivo Cuffaro, condannato per favoreggiamento a Cosa nostra.
Galvagno non è un cittadino qualunque. È il volto istituzionale più alto dell’Assemblea siciliana. È il rappresentante di quel partito, Fratelli d’Italia, che fa della legalità la propria narrazione muscolare e dell’icona Borsellino una bandiera identitaria.
Ma quando il dovere chiama, Galvagno non solo volta le spalle al dovere istituzionale e alla memoria delle vittime, ma si schiera apertamente a fianco del condannato. […] È indagato per corruzione, ma resta saldo al suo posto. Anzi, si mostra. Ostenta. Dimostra che, in Sicilia, il potere si misura dalla capacità di restare in piedi anche quando la morale cade in ginocchio.
Il messaggio è chiaro: la stagione delle stragi è finita, i morti sono nel cassetto, si può tornare a casa Cuffaro, si può rifare famiglia, potere, consenso. Anche la toga della figlia dell’ex governatore, oggi magistrata, aiuta.
Una toga che stona, in questo giorno, in questa festa. Che domanda silenziosamente: cosa avrà pensato lei, in quel 19 luglio? Che giustizia sogna, da quale parte della storia guarda?
Nel teatro di San Michele di Ganzaria, c’è tutto: la Sicilia della mala politica, quella del favoreggiamento istituzionale, quella della memoria selettiva e della corruzione sguaiata. C’è un’élite che si autoassolve, si abbraccia, si perpetua. È un sistema che si
tramanda, nonostante le condanne, le inchieste, gli arresti, le stragi. È la politica di laboratorio, che in Sicilia ha sempre avuto qualcosa di radioattivo: contamina, devasta, muta.
È per questo che la Sicilia è irredimibile. Perché anche quando prova a salvarsi, si autoassolve. Perché anche quando promette giustizia, cerca vendetta. Perché anche quando si dice riformata, resta fedele ai suoi antichi padrini.
Leonardo Sciascia lo sapeva: «La Sicilia è irredimibile. Ma bisogna continuare a lottare, a pensare, ad agire come se non lo fosse». È una preghiera laica, un testamento disperato. […] questa terra è irredimibile perché si è convinta che lo sia. Perché ha fatto della contraddizione una virtù, dell’ambiguità un codice d’onore. Perché ha scelto il vino di Cuffaro al sangue di Borsellino. E ha deciso che si può festeggiare anche il 19 luglio. Basta voler dimenticare. Basta volerci credere.
(da repubblica)

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MELONI COMMISSARIA SALVINI SUL PONTE SULLO STRETTO: DOPO LO STOP DELLA CORTE DEI CONTI ALL’OPERA, PALAZZO CHIGI AVRÀ L’ULTIMA PAROLA SUL DOSSIER: NIENTE PIU’ DELEGA IN BIANCO AL MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

SALVINI PREPARA UNA LEGGE DELEGA PER SEMPLIFICARE LE PROCEDURE IN MATERIA DI EDILIZIA E RIDIMENSIONARE IL POTERE DEGLI ENTI CHIAMATI A VIGILARE SUI PROGETTI. LE OPPOSIZIONI INSORGONO: “NON VANNO INDEBOLITI I CONTROLLI”

Non sarà proprio una avocazione con un atto formale, per non creare turbolenze politiche e un danno di immagine al governo. Ma da adesso Palazzo Chigi seguirà con molta attenzione, per non dire che avrà l’ultima parola su tutto, il dossier del Ponte sullo Stretto.
Tradotto: il ministero delle Infrastrutture, nella sua parte tecnica e burocratica, non avrà più la delega in totale autonomia ad occuparsi dell’argomento, come fatto fin da oggi e con risultati che, sussurrano da Chigi, non sono stati ritenuti al momento soddisfacenti anche alla luce della bocciatura da parte della Corte dei conti della delibera Cipess che impegna 13,5 miliardi di euro per l’opera: con conseguente smacco di immagine per l’amministrazione, e il governo, ma soprattutto con il rischio che siano insormontabili i rilievi dei magistrati contabili che saranno resi noti a breve.
Matteo Salvini a sua volta sarebbe a dir poco irritato con la sua macchina burocratica. Una macchina che ultimamente ha commesso più di un passo falso costringendolo a intervenire per
metterci una toppa.
I malumori di Salvini e dei suoi fedelissimi sarebbero diffusi sulla struttura, perché «più volte siamo stati costretti a intervenire pubblicamente per errori commessi all’interno del ministero», dicono fronte Lega, citando alcuni burocrati di vertice che si sarebbero un po’ disinteressati di alcuni dossier oppure, in alcuni casi, avrebbero voluto strafare facendo invece tutto in proprio e commettendo pasticci.
Ecco, di fronte a uno scenario di commissariamento, o comunque “supervisione” degli atti del Ponte da parte di Palazzo Chigi, oggi Salvini ha difficoltà a battere i pugni sul tavolo per dire che invece il ministero Infrastrutture ha fatto tutte le cose a dovere.
Per Matteo Salvini è fondamentale far vedere a tutti che si va avanti. Oggi in Consiglio dei ministri è prevista la sua informativa sul ponte sullo Stretto di Messina, dopo lo stop arrivato dalla Corte dei Conti, che ha congelato il progetto.
Ieri il ministro delle Infrastrutture ha riunito al ministero i suoi tecnici per fare il punto sull’iter dell’opera simbolo e insistere sull’obiettivo della «posa della prima pietra», come sta facendo ormai da mesi. Poi ha ricevuto i rappresentanti dei Consigli nazionali di architetti, geologi, ingegneri e geometri.
E con loro si è confrontato anche sulla necessità di una legge delega per la riforma del testo unico delle costruzioni, snellendo le procedure in materia di edilizia. Perché «semplificazione» resta la parola d’ordine
A tutti i suoi interlocutori, Salvini ripete che non si farà fermare, tornando anche sul piano, di cui ha parlato ieri questo giornale, con cui la Lega vorrebbe sveltire le procedure e ridimensionare il potere degli enti chiamati a vigilare sui progetti, oggi in grado di rimandare l’apertura di un cantiere per anni.
Una volta chiusa la legge di bilancio, i leghisti partiranno alla carica: nel mirino ci sono diverse amministrazioni, come quella di vigilanza ambientale, le varie soprintendenze, l’Autorità di regolazione dei trasporti. Un percorso su cui sono impegnati il viceministro alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, e il collega con ufficio a Palazzo Chigi, Alessandro Morelli.
Questa furia semplificatrice preoccupa, invece, le opposizioni. Pronte a ostacolare un piano che «usa i presunti veti come alibi per indebolire controlli e soprintendenze, accentrare decisioni e aprire una pericolosa deregulation», spiega Lorenzo Basso, senatore Pd e vicepresidente della commissione Ambiente e Lavori pubblici di Palazzo Madama.
«Le grandi opere si accelerano con progetti maturi, valutazioni trasparenti e risorse certe – aggiunge – non con annunci, numeri non verificati e l’ennesima cabina di regia calata dall’alto». Altrettanto duro il giudizio del deputato del Movimento 5 stelle Agostino Santillo, vicepresidente della commissione Bilancio della Camera: «L’altolà della Corte dei Conti al ponte sullo Stretto ha palesato tutta l’allergia di Salvini ai controlli e alle procedure. Le infrastrutture per lui sono solo “cantieri elettorali”
(da agenzie)

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“GENNY” SANGIULIANO, CANDIDATO ALLE REGIONALI IN CAMPANIA PER FDI, INDOSSA UNA CRAVATTA ROSSA IN STILE TRUMPIANO E UN CAPPELLO CON LA SCRITTA “MAKE NAPLES GREAT AGAIN

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

LA REALTÀ SUPERA IL BAGAGLINO, I FILM DEI VANZINA E PURE QUALSIASI INTELLIGENZA ARTIFICIALE: L’EX MINISTRO TASCABILE IN FORMATO PASTORELLO DEL PRESEPE “MAGA”

Un maxi ordine di berretti rossi, con la scritta: «Make Naples great again».
L’ex ministro Gennaro Sangiuliano se ne è fatti preparare 500, declinando in salsa partenopea lo slogan «Maga» di Donald Trump.
Sangiuliano, candidato come capolista di Fratelli d’Italia alle Regionali in Campania, ha sfoderato il nuovo gadget trumpiano da regalare ai sostenitori a una cena elettorale all’Europeo Mattozzi, storico ristorante nel cuore di Napoli.
Il caso ha voluto che, a poca distanza dalla brigata meloniana, fosse seduta a tavola anche Angela Merkel con il marito: la coppia è infatti di casa da queste parti, complice anche il grande amore per Ischia.
E quando l’ex cancelliera tedesca è passata vicino ai supporter di Sangiuliano è stato anche improvvisato, in coro, «Funiculì, funiculà».
«Ho sempre stimato Merkel, leader che crede nei valori dell’Europa e dell’Occidente – racconta Sangiuliano -. Le ho detto che se ci fosse stata ancora lei alla guida della Germania, Putin forse non avrebbe invaso l’Ucraina così». E alla richiesta sulla possibile fine della guerra: «Ha alzato gli occhi al cielo», aggiunge l’ex ministro.
(da agenzie)

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INVECE CHE OCCUPARE LE SCUOLE PER GAZA, DEMENTI SEDICENTI “FASCISTI” LANCIANO BOTTIGLIE E ASSALTANO IL LICEO RIGHI DI ROMA OCCUPATO DAI PRO-PAL CON CORI INNEGGIANTI AL DUCE

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

SE CI FOSSERO ANCORA FASCISTI VERI IN ITALIA SAREBBERO I PRIMI A PRENDERLI A CALCI NEL CULO… DA RIVOLUZIONARI A GUARDIE BIANCHE DEL SISTEMA

«Duce, Duce». Con questo coro, un gruppo di giovani vestiti di nero e con il volto coperto ha assaltato il liceo Righi di Roma, occupato da giorni dagli studenti. Dopo il primo blitz di ieri sera, documentato da diversi video, un nuovo raid si è verificato anche questa sera, 4 novembre. «Hanno cercato di forzare le porte del liceo, hanno fatto lanci e intonato i loro cori. Sono stati respinti e cacciati dalla nostra scuola», riferiscono dal collettivo studentesco. Nella notte precedente, gli occupanti erano già stati sorpresi dal lancio di bottiglie e dal danneggiamento di auto e cassonetti presenti davanti all’istituto. Gli aggressori, una
quindicina in tutto, ieri hanno urlato slogan come «Boia chi molla» e inneggiato a Mussolini prima di darsi alla fuga, disperdendosi all’arrivo della polizia. Le immagini dell’assalto, riprese da alcuni testimoni, sono state diffuse sui social e rilanciate anche da diversi esponenti politici.
Il blitz finisce in Parlamento
Quanto accaduto ieri notte al liceo romano ha provocato sdegno politico. La senatrice del Partito Democratico Cecilia D’Elia ha parlato di «un fatto gravissimo che non può essere minimizzato», definendo quanto accaduto «un’aggressione politica, violenta e squadrista che deve essere condannata senza ambiguità». Insieme al collega Filippo Sensi, ha deciso di presentare un’interrogazione al Senato chiedendo al governo di «smettere di far finta di non vedere». Anche alla Camera, il deputato dem Andrea Casu ha annunciato un’iniziativa analoga, diffondendo sui social le immagini del raid fascista.
Occupazioni a macchia d’olio
L’occupazione del liceo Righi era iniziata il 22 ottobre per protestare, tra le altre cose, contro la cancellazione di un convegno sulla situazione in Medio Oriente, previsto all’interno dell’istituto ma annullato dopo le critiche del deputato leghista ultraconservatore Rossano Sasso. Intanto, la mobilitazione nelle scuole romane continua: ieri sono stati occupati anche due storici licei della capitale, il Mamiani e l’Aristofane. La dirigente del Mamiani, Tiziana Sallusti, ha annunciato che chiederà lo sgombero dell’istituto, invitando le famiglie a richiamare i figli a
casa «perché si trovano in una situazione di pericolo e illegalità». Nelle ultime settimane episodi simili a quanto accaduto nel Righi si sono verificati anche in altre città: al liceo Leonardo da Vinci di Genova, un gruppo di ragazzi aveva devastato i locali dell’edificio intonando slogan fascisti e nazisti.
(da agenzie)

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SONDAGGIO IPSOS PUGLIA: DECARO AVANTI DI 30 PUNTI, IL PD SOPRA FRATELLI D’ITALIA

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

DECARO 63,8% LOBUONO 33,1%… PD PRIMO PARTITO AL 23,5%

I sondaggi delle elezioni regionali in Puglia del 23 e 24 novembre incoronano Antonio Decaro. Il candidato del Campo Largo contro Luigi Lobuono del centrodestra è sopra di 30 punti rispetto al rivale. E il Partito Democratico è il primo partito, segue Fratelli d’Italia. Si presentano inoltre Ada Donno per Puglia pacifista e popolare, e Sabino Mangano per Alleanza civica per la Puglia.
Secondo i pugliesi il tema più importante è la sanità. Citata dal 58% degli intervistati di Ipsos, vede un picco di preoccupazione tra gli elettori di Decaro (lo cita il 64%, quasi paradossalmente trattandosi dell’erede di chi ha amministrato la sanità nella regione). Al secondo posto l’occupazione al 44%. Seguono i trasporti, mobilità e infrastrutture, e sicurezza, criminalità, lotta alla mafia. L’amministrazione di Michele Emiliano viene valutata positivamente dal 49% dei pugliesi, mentre un robusto 45% degli elettori esprime una valutazione negativa.
Decaro doppia il centrodestra
La partecipazione al voto vede il 39% degli intervistati sicuri di partecipare e il 17% che pensa che probabilmente si recherà alle urne. Probabilmente l’affluenza sarà del 43%. Decaro è stimato
al 63,8% dei voti validi, quasi doppiando il candidato di centrodestra che ottiene il 33,1%.
Gli altri due candidati insieme prendono il 3,1%. Per i partiti ottimo risultato del Pd (23,5%), superiore al 2020 e anche a quello delle Politiche 2022, seguito dalla lista Decaro (13,2%), dal M5S (8,7%, poco meno del 2020), da due liste civiche per Decaro (circa 6% ciascuna) e da Avs stimata al 5,6%.
(da agenzie)

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CHE FIGURACCIA INTERNAZIONALE PER IL GOVERNO MELONI: NOI RIMANDIAMO A CASA ALMASRI, E I LIBICI LO AMMANETTANO

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

LA PROCURA GENERALE DI TRIPOLI HA ORDINATO L’ARRESTO DEL GENERALE LIBICO, CON L’ACCUSA DI OMICIDIO E VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI

Osama Njeem Almasri è stato arrestato a Tripoli. A dare la notizia è l’emittente Lybia24. Nelle scorse ore, la procura generale libica ha chiesto l’arresto dell’ex generale e il suo rinvio a giudizio nel processo che lo vede indagato con l’accusa di aver torturato alcuni detenuti nel carcere di Mitiga e di aver provocato la morte di uno di loro.
Le accuse di tortura
Secondo i testimoni che hanno assistito all’arresto, scrivono i media libici, il generale capo della polizia penitenziaria rideva al momento dell’arresto. I pm avrebbero raccolto prove sufficienti per dimostrare le sevizie inflitte da Almasri ad almeno cinque detenuti. Uno di loro è morto in seguito alle violenze.
L’arresto in Italia e la polemica sul rimpatrio
Il generale libico Almasri è stato al centro di una polemica tutta italiana scoppiata a inizio anno, quando fu arrestato a Torino in seguito a un mandato della Corte penale internazionale. Il ministero della Giustizia non diede seguito al provvedimento e con una mossa molto contestata decide di rispedire Almastri a Tripoli a bordo di un volo di Stato. Quella vicenda portò a un’indagine del Tribunale dei ministri, fermata dalla mancata concessione dell’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento.

(da agenzie)

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LA FOGNA SOVRANISTA USA MASTICA AMARO PER LA VITTORIA DI MAMDANI: “ORA TRUMP DEVE CAMBIARE ROTTA”

Novembre 5th, 2025 Riccardo Fucile

TRA CARICATURE, SFOGHI E PROPOSTE DI REAZIONE

È una brutta botta quella che si trova a incassare oggi Donald Trump, ed il partito repubblicano da lui ormai egemonizzato. Ad appena un anno dalla vittoria alle presidenziali, dall’Election Day svoltosi ieri arrivano segnali politicamente preoccupanti. Certo al voto sono andati solo alcuni territori del Paese, e per eleggere amministratori locali. Ma i risultati sono chiari: un’onda blu Democratica che si espande anche oltre città e Stati tradizionalmente progressisti, per esempio alla Virginia, strappata con Abigail Spanberger ai Repubblicani.
Il boccone più indigesto però è senza dubbio quello che viene da New York. Perché Zohran Mamdani, 34 anni, musulmano e socialista, ha stravinto, e a furor di popolo (oltre 1 milione di voti) nella città dello stesso Trump, nella metropoli che ospita Wall Street ed è il simbolo stesso del capitalismo americano. Senza contare che negli ultimi giorni di campagna elettorale era entrato a gamba tesa il presidente Usa in persona: «Votate Cuomo, meglio il cattivo Democratico del comunista», aveva detto alla fine apertamente agli elettori (suoi, e non solo) dopo aver minacciato a più riprese di tagliare i fondi a New York e mandare i soldati della Guardia Nazionale se avesse vinto Mamdani.
Qualcuno l’ha ascoltato, visto l’evidente ingrossamento dei voti per Andrew Cuomo dal bacino Repubblicano presidiato da Curtis Silwa (41,6% contro 7,1% rispettivamente, a spoglio quasi ultimato). Ma non è bastato, neanche lontanamente. Ora il mondo MAGA fuma di rabbia, e cerca con ansia risposte e soluzioni per scongiurare una sconfitta alle elezioni di mid-term del prossimo anno, e sullo sfondo alle presidenziali 2028 nelle quali Trump – a meno di colpi di testa costituzionali – non potrà ricandidarsi.
Trump per ora abbozza. Negli scarni Truth della notte di Mamdani, si limita a sottolineare come sulla scheda elettorale non ci fosse certo lui, e incombesse se mai l’ansia da shutdown (il bilancio federale bloccato dalla faida tra partiti al Congresso). «E ora comincia…», è il suo ultimo, un po’ criptico messaggio. A dare aperto sfogo a rabbia e amarezza è invece la pancia del mondo conservatore, newyorchese e non solo.
«La mela rossa», titola a tutta pagina questa mattina il New York Post, dipingendo Mamdani come un socialista pronto a governare la città dal prossimo 1° gennaio con le dottrine di Karl Marx: falce e martello, insomma. Il quotidiano conservatore dà voce così allo sconcerto di una fetta della popolazione della città – nella comunità ebraica e in quella del business è già partito da settimane il tam-tam su un trasferimento più o meno di massa, magari verso Miami.
Scenari evocati nelle prime reazioni anche da altri dirigenti Repubblicani. «Un minuto di silenzio per New York», twitta provocatorio il governatore del Texas Greg Abbott. «Complimenti New York. Avete appena eletto uno che disprezza l’America e tutto ciò per cui è nata», gli fa eco il deputato dell’Arizona Andy Biggs.
Chi ci va giù più pesante di tutti però è il suo collega della Florida (appunto) Randy Fine, già distintosi nelle scorse settimane per aver proposto di togliere la cittadinanza Usa a Mamdani e rispedirlo da dove viene, in Uganda. «Gli immigrati che odiano l’America hanno eletto un comunista musulmano jihadista. New York è caduta. L’America è la prossima se non fermiamo questo».
Reazioni di pancia a parte, Trump e i suoi sanno però che per evitare che «l’America sia la prossima» – ossia di perdere le elezioni nazionali del prossimo anno e soprattutto del 2028 devono capire cos’è andato storto nel voto di ieri, e raddrizzare la rotta. E nella cerchia ai vertici del mondo MAGA c’è già chi prova ad indicare le correzioni necessarie. Anche per Trump. «Ci hanno rotto il c**o in New Jersey, Virginia e New York», nota senza troppi giri di parole Vivek Ramaswamy, già candidato all
primarie dei Repubblicani per la Casa Bianca, poi cooptato da Trump alla guida del Doge con Elon Musk. «Ci sono due lezioni chiave per i Repubblicani, ascoltate bene», spiega quindi Ramaswamy in un video postato sui suoi social. Primo, «la nostra parte deve concentrarsi sull’affordability», concetto chiave della campagna di Mamdani contro il carovita imperante a New York. Tradotto: «Rendere il sogno americano accessibile, ridurre i costi: dell’elettricità, della spesa, della salute, della casa. E spiegare come intendiamo farlo». Secondo, smetterla di occuparsi di questioni identitarie (identity politics): «Non è roba per noi, non funziona per i Repubblicani, quello è il gioco della sinistra woke. A noi non interessa il colore della tua pelle o la tua religione, c’interessa la sostanza: questo è quello che siamo». Gli strateghi di Trump – e dei suoi potenziali successori – iniziano a prendere nota.
(da Open)

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