Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO DI “IZI” SUL MODELLO PROPOSTO DAL NEO-SINDACO DI NEW YORK: L’81,4% DI CHI VOTA CENTRO-DESTRA E’ FAVOREVOLE: SARANNO PURE LORO TUTTI “COMUNISTI”?
La stragrande maggioranza degli elettori italiani , quasi l’84%, è favorevole all’introduzione di una
imposta sui super patrimoni . È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, presentato questa mattina nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.
La “Mamdani tax” è dunque un provvedimento di redistribuzione della ricchezza che convince la stragrande maggioranza degli italiani, a prescindere dall’orientamento politico . Alla domanda sulla opportunità di introdurre una tassa
sui super patrimoni da oltre 10 milioni di euro ,una tantum, l’83,8 % degli italiani si dice favorevole e il 16,2% contrario .
Andando poi a vedere le scelte degli elettori secondo il voto, il risultato si discosta leggermente dalla media : tra coloro che si riconoscono nei partiti di governo l’81,4% è favorevole alla patrimoniale , mentre tra chi vota i partiti di centrosinistra (Pd M5S avs) l’84,5% dice sì alla tassa sulla ricchezza.
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
IL GIP: “FU UCCISIONE DI ANIMALE CON CRUDELTA’”… LA VERGOGNA DI UNA PROVINCIA CHE CONTINUA AD ELEGGERE UN SOGGETTO DEL GENERE
Il gip di Trento Gianmarco Giua ha respinto la richiesta di archiviazione del fascicolo sull’uccisione dell’orso M90, avvenuta il 6 febbraio 2024, presentata dalla Procura di Trento. Ne dà notizia l’Enpa in una nota. Nell’ordinanza con cui respinge l’archiviazione, il gip riconosce gli elementi indiziari per procedere nei confronti del presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti per il reato di “uccisione di animale con crudeltà”, secondo gli articoli 544 bis e 544 ter comma 1 del Codice penale.
L’esemplare di due anni e mezzo, qualche giorno prima, aveva seguito una coppia di escursionisti lungo un sentiero di 700 metri nei boschi di Mezzana, in Val di Sole. L’abbattimento, nella valle trentina, era avvenuto poche ore dopo il decreto firmato la mattina.
Il gip ha disposto l’imputazione coatta di Maurizio Fugatti, da formalizzare entro dieci giorni da parte della Procura, e l’iscrizione nel registro degli indagati del capo del Corpo
forestale del Trentino Raffaele De Col e del dirigente del Servizio foreste e fauna della Provincia di Trento Giovanni Giovannini.
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
UNO DEI PIÙ IRRITATI È IL RESPONSABILE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, PAOLO ZANGRILLO, CHE AVEVA CHIESTO DI EVITARE FUGHE IN AVANTI SUL TETTO DELLE INDENNITÀ DEI MANAGER PUBBLICI
L’aumento dello stipendio a 311mila euro all’anno ai vertici del Cnel, a partire dal presidente
Renato Brunetta, ha irritato mezzo governo, compresa la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
A palazzo Chigi e al ministero dell’Economia non hanno preso affatto bene la notizia, raccontata da Domani, sull’adeguamento-lampo dei compensi massimi al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Ufficialmente nessuno è uscito allo scoperto per evitare di aumentare le tensioni, ma i malumori sulla vicenda sono montati in privato.
Tuttavia, la vicenda va avanti, nelle stanze del Cnel, da un paio di mesi. Il provvedimento è votato l’11 settembre dall’ufficio di presidenza del Consiglio nazionale, guidato proprio da Brunetta,
e ratificata dal segretario generale a fine ottobre.
In quella sede che il ritocco delle indennità partirà dall’1 agosto (3 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della sentenza del Corte) e il recupero delle ulteriori indennità non erogate tra il 2024 e il 2025, quando c’era stato l’adeguamento Istat del tetto, passato dal 240mila euro a 256mila euro annui. Tutto fatto in casa, a Villa Lubin.
E ovviamente tutto legittimo dopo la sentenza di luglio della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la soglia per le remunerazioni pubbliche. La sorpresa è stata la tempistica rapidissima con cui ha operato Brunetta. E che era inaspettata anche dal governo.
La decisione ha prestato il fianco al fuoco di fila agli attacchi delle opposizioni con l’annuncio di un’interrogazione da parte del Movimento 5 stelle per avere un chiarimento direttamente dalla premier. «Cosa ne pensa il governo? Ce lo diranno la premier Meloni e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ai quali indirizzeremo un’interrogazione», ha detto il deputato Dario Carotenuto, che ha definito «indecente» l’operazione.
Anche perché l’attuale numero uno del Cnel è stato il paladino “anti-fannulloni” all’epoca del governo Berlusconi e ha definito il salario minimo di 9 euro all’ora: «Fa male agli stipendi», aveva detto.
La questione ha messo insieme tutte le minoranze. Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, che da mesi già contesta la reintroduzione dell’indennità a Brunetta (avvenuta all’interno di
un decreto dello scorso anno), si è ritrovato di fronte addirittura all’innalzamento del compenso. Così ha legato la vicenda alla manovra in esame al Senato: «Meloni non trova i soldi per aumentare gli stipendi al ceto medio ma li trova per aumentare il poltronificio di Brunetta».
Un pasticcio politico, dunque. Meloni predica da mesi prudenza a tutti i ministeri, quando si parla della gestione delle risorse pubbliche. Solo che nelle altre amministrazioni le sue parole restano inascoltate, anche da enti che si sono sempre più avvicinati al governo, come il Cnel di Brunetta.
Uno dei più irritati è il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, che da settimane ripete di evitare fughe in avanti sul tetto delle indennità dei manager pubblici dopo il pronunciamento della Consulta sul tetto dei 240mila euro all’anno.
Un appello rinnovato dopo il caso era esploso all’Inps (che aveva previsto indennità aggiuntive che sforavano il limite fissato). «L’aumento deve riguardare non oltre 10-12 manager pubblici», aveva già dichiarato. Una tesi che trova d’accordo Giorgetti. Si era vociferato di una circolare, almeno per frenare gli ardori dei manager più voraci. Ma agli atti non risulta alcun intervento legislativo. Il governo mastica amaro, ma di fatto resta inerte e ingoia le fughe in avanti. Ieri dell’Inps, oggi del Cnel.
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
PARLARE CON LE MILIZIE SIGNIFICA SOTTOSTARE AI LORO RICATTI: NEL 2025, FINO A ORA, SONO 52MILA LE PERSONE SBARCATE NEL NOSTRO PAESE DOPO ESSERE SALPATE DALLE COSTE LIBICHE (IN AUMENTO DEL 54% RISPETTO ALLO SCORSO ANNO). NUMERI CHE INIZIANO A ESSERE UN PROBLEMA PER PALAZZO CHIGI
Tanto strategica e necessaria quanto indomabile. Destreggiarsi in Libia, per il governo italiano, è più complicato del previsto. Troppi gli interessi in gioco per Roma: dall’energia ai migranti passando per la sicurezza. Ma a dominare sullo scacchiere libico, benché Giorgia Meloni provi a fare la voce grossa in ogni occasione pubblica utile, è la Turchia.
L’Italia è semplicemente un attore di secondo piano. E così il governo deve scendere a patti e compromessi con tutte le fazioni coinvolte. Ma accettare di parlare con le milizie significa soprattutto sottostare ai loro ricatti e mantenere un’ambiguità di fondo su tutti i dossier.
Lo dimostra la vicenda Almasri. Il torturatore libico, per stessa ammissione del direttore dell’Aise Giovanni Caravelli, è stato liberato per tutelare gli interessi italiani nel paese. Lo dimostra il memorandum che ci garantisce la “collaborazione” con la violenta guardia costiera libica, a cui forniamo strumenti e addestramento, entrato in vigore nel 2017 e recentemente rinnovato. Soldi e mezzi per evitare gli sbarchi in Italia.
E lo dimostra, infine, il proficuo impegno del governo Meloni nel dialogare con entrambe “le Libie”, quella della Cirenaica governata dal generale Khalifa Haftar e i suoi figli, e quella della Tripolitania in mano al premier del governo di unità nazionale, Abdel Hamid Dbeibeh.
In realtà anche in Cirenaica, ormai, la Turchia sta scalzando tutti i rivali. Nonostante l’Italia sia stata capace, negli ultimi anni, di mantenere rapporti stabili, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha saputo muoversi in maniera efficace garantendo investimenti con le sue colossali aziende statali in cambio di libertà di movimento nel paese. Una delle figure centrali, in questo, è stato l’ex capo dell’intelligence turca, Hakan Fidan, ora diventato ministro degli Esteri.
L’indebolimento della milizia Rada, che ha portato all’arresto di Almasri, è anche opera di Erdogan che sta chiedendo al premier Dbeibeh di dimostrare di essere un interlocutore affidabile a Tripoli. Per farlo deve sbarazzarsi di tutte le milizie. E un primo avvertimento è già arrivato ieri. «Il governo sta entrando in una nuova fase in cui le forze di sicurezza saranno ritirate dalle strade e le loro sedi saranno riunite in luoghi specifici», ha detto Dbeibeh.
Rapporti complicati
Chi frequenta gli ambienti diplomatici è convinto che, nel lungo periodo, la Libia sarà più necessaria all’Italia di quanto l’Italia sia necessaria alla Libia. In fondo, un eventuale vuoto lasciato da Roma può essere colmato da tutti gli altri attori internazionali. Per questo motivo Meloni si muove con cautela, utilizzando anche il soft power (il nostro paese ospita, ad esempio, le finali del campionato di calcio libico che, negli ultimi due anni, hanno fatto notizia soprattutto per la presenza dei capi delle milizie e disguidi di ogni tipo).
Un retaggio della gestione avviata dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, che ha spinto l’Italia a stabilizzare i rapporti con Tripoli perché da quella stabilità dipendono forniture energetiche, il controllo dei flussi migratori e la cooperazione sui dossier di sicurezza e intelligence. Dopotutto la Libia è il principale paese di partenza verso l’Italia. Nel 2025, fino a ora, sono 52mila le persone sbarcate nel nostro paese dopo essere salpate dalle coste libiche. L’88 per cento del totale e in aumento del 54 per cento rispetto ai dati dello scorso anno. Numeri che
iniziano a essere un problema per palazzo Chigi.
Nel breve periodo il nostro paese può garantire investimenti sul lato energetico e credibilità politica in ambito europeo a Dbeibeh e Haftar, ma la situazione può cambiare in ogni momento. Basta uno screzio diplomatico (l’arresto di Almasri o la figuraccia dello scorso luglio, a Bengasi, quando il governo di Haftar ha rimpatriato i ministri del Team Europe perché non volevano apparire in foto con i governanti della Cirenaica) per far saltare gli accordi presi.
I libici sanno perfettamente qual è il loro potere contrattuale, legato soprattutto alle riserve di gas e petrolio. Chi conosce bene la Libia sa che è la National Oil Corporation, l’azienda di stato energetica, a governare il paese. E la riapertura delle trivellazioni offshore in alcuni giacimenti che erano fermi da anni, ha aumentato il potere in mano a Tripoli
Le politiche italiane nel paese seguono un dossier a parte, gestito prettamente dai servizi di intelligence. Benché in Africa la premier punti tutto sul Piano Mattei, per la Libia, nonostante le narrazioni pubbliche, non è così. Nelle relazioni sullo stato di attuazione del Piano Mattei, Tripoli non è mai menzionata a differenza di altri paesi come Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto. A dimostrazione, ancora una volta, del ruolo centrale che gioca il paese. Ma se l’Italia ha un rapporto privilegiato gli altri, Turchia e Russia su tutti, hanno in mano ciò che vuole Meloni: potere.
(da editorialedomani.it)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
VANNACCI PERDE PEZZI AL NORD, LA BARDELLI ERA LA SUA ALFIERA A VARESE: “PENSAVO VOLESSE RADDRIZZARE IL MONDO AL CONTRARIO, INVECE MI SA CHE GLI E’ PIACIUTO”
Stefania Bardelli e il team Vidoletti Varese mollano il Generale. La leader del team racconta i
retroscena: “Fu richiamato all’ordine dalla Lega e da allora i rapporti si sono congelati. Questo mondo al contrario lo volevamo davvero raddrizzare”
Tra Stefania Bardelli e il generale Vannacci è la fine di un amore politico. Alla fine ha vinto la disciplina di partito, quel partito, la Lega, che ha candidato e fatto eleggere Roberto Vannacci al Parlamento Europeo. Un partito che ad un certo punto non ha più potuto tollerare l’iperattivismo della Bardelli e del suo team che nel nome del generale ha creato e fatto prosperare un movimento politico che con la Lega di Salvini non voleva avere nulla a che fare.
“Roberto Vannacci ci ha profondamente delusi – spiega in un comunicato Stefania Bardelli -. Questo mondo al contrario lo volevamo davvero raddrizzare, non rovesciarci al suo interno per non vederlo più capovolto. Per questo motivo, dopo un’attenta e condivisa riflessione, il Team Vannacci Angelo Vidoletti di Varese annuncia la propria uscita dall’associazione “Il Mondo al Contrario” e la conseguente chiusura del team a essa collegato”.
I retroscena di questa scelta stanno tutti nel “pasticcio di Morazzone”, dove Bardelli e il suo team stavano organizzando
un evento autunnale proprio con Vannacci e hanno ricevuto un brusco stop e il conseguente raffreddamento dei rapporti con il generale.
Ai taccuini di Repubblica Bardelli lo spiega senza giri di parole. “Vannacci aveva detto di si ma poi arriva la chiamata del segretario leghista provinciale Andrea Cassani, sindaco di Gallarate. Mi dice: “Se la sera volete farvi una bicchierata con lui, aperta anche ai nostri militanti va bene. Ma l’organizzazione dell’evento è del partito, perché Vannacci è un iscritto al partito”. Per presentare un libro bisogna chiedere il permesso alla Lega, le pare?. Il problema è che Vannacci ha deciso di lavarsene le mani, e quindi la serata è saltata”.
E ora? Abbiamo visto come la stessa Stefania Bardelli si sia avvicinata già ad un altro esponente politico “anti-sistema”, il “rossobruno” Marco Rizzo. Ma c’è una comunicazione che riguarda anche il suo team che non sembra aver finito il suo percorso, recita il comunicato: “Si comunica che il “Gruppo Angelo Vidoletti” – guidato dalla giornalista Stefania Bardelli – proseguirà il suo cammino in modo autonomo e indipendente, con rinnovata determinazione. Un percorso radicato nel territorio che continua con passione e al servizio della gente. Andiamo avanti a testa alta, felici di credere ancora nella coerenza, per scrivere insieme il futuro”.
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
PER L’AJA, “IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA NORDIO SI È ARROGATO UN POTERE CHE NON GLI COMPETEVA” … DOPO L’ARRESTO A TRIPOLI DI ALMASRI, LA CPI ATTENDE GLI ATTI DALLE AUTORITÀ LIBICHE PER CHIEDERE L’ESTRADIZIONE DEL GENERALE
La Corte penale internazionale «appena avrà la comunicazione ufficiale dell’arresto di Osama Njeem Almasri chiederà alla Libia la sua estradizione». Dall’Aia, fonti spiegano che «si segue con attenzione l’evolversi della vicenda». Per la giustizia internazionale il suo status resta sospeso.
Perché la Libia non ha eseguito il mandato di Cpi. Almasri sarebbe stato fermato in base a un provvedimento interno, e dunque, almeno per ora, non è tenuta a dialogare con l’Aja.
Nel frattempo, qualcosa si è mosso anche in Italia. Il 30 ottobre il governo ha consegnato alla Cpi i documenti che la Chamber aveva richiesto da mesi. Da quelle carte emerge un’amara constatazione: l’Italia ha violato i suoi obblighi internazionali. E lo ha fatto consapevolmente.
È la stessa Cpi a metterlo nero su bianco: «L’Italia ha impedito alla Corte di esercitare una sua funzione fondamentale: assicurare la presenza dell’imputato davanti ai giudici». Un’accusa pesante, accompagnata da una lista di omissioni e contraddizioni.
Almasri è stato rimpatriato in tutta fretta, con un volo di Stato, senza che la Cpi ne fosse informata. Solo dopo l’Aia ha saputo
che l’uomo, accusato di crimini contro l’umanità e torture, non si trovava più in Italia. La Corte d’appello di Roma ha dichiarato che la legge che regola la cooperazione con la Cpi ha finito per interferire con l’indipendenza della magistratura.
La denuncia è contenuta nel ricorso alla Consulta: i giudici sostengono che, in assenza della documentazione del ministero della Giustizia, non solo non hanno potuto decidere sul caso Almasri, ma sono stati messi nelle condizioni di non poter adempiere all’obbligo internazionale. In pratica, bloccati.
Un paradosso giuridico che la stessa Chamber ha definito «grave e chiaro». Perché l’Italia, in tutto questo, non ha mai riconosciuto di aver violato lo Statuto della Cpi. Anzi, ha continuato a difendere la propria condotta, invocando esigenze di sicurezza e persino un’inesistente priorità della richiesta libica su quella internazionale.
Per gli inquirenti, «il ministro della Giustizia si è arrogato un potere che non gli competeva». In particolare, Nordio avrebbe bloccato ogni azione giudiziaria, evitando di trasmettere i documenti necessari alla Corte d’appello. Per i giudici «l’Italia non ha agito con la dovuta diligenza e non ha utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per adempiere alla richiesta».
Non solo: ha fornito giustificazioni postume, smentite dai documenti ufficiali, e ha messo a repentaglio l’intera architettura della cooperazione internazionale.
Per questo motivo, nonostante la gravità della violazione, la maggioranza dei giudici dell’Aia, con un’opinione dissenziente durissima del giudice Socorro Flores Liera, ha deciso di rimandare un eventuale deferimento dell’Italia al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Un atto che, se confermato, marchierebbe l’Italia come Stato inadempiente nei confronti della giustizia penale internazionale. Ma per ora si resta nel limbo.
Di fatto la giustizia dell’Aia ha già parlato. E la sentenza, sebbene ancora senza sanzioni formali, è una condanna piena. Alla reputazione. Alla trasparenza. Alla coerenza di uno Stato che ha scelto, per convenienza politica, di chiudere gli occhi davanti alla giustizia internazionale.
(da Repubblica)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DELL’EROICA RESISTENZA DEI PATRIOTI UCRAINI A POKROVSK: “NON E’ VERO CHE SIAMO CIRCONDATI, E’ UNA BATTAGLIA URBANA NELL’ERA DEI DRONI”… UN RAPPORTO DI FORZE 8 A 1 A FAVORE DEI RUSSI, MA L’UCRAINA SCHIERA L’ELITE DELLE SUE FORZE E CONTRATTACCA
«Si combatte la classica battaglia urbana nell’era dei droni. Piccolissime unità, tre o quattro
uomini, si muovono tra le macerie e gli edifici ancora in piedi. È la sfida casa per casa, cantina per cantina, non sai mai cosa c’è di fronte a te, o dietro. Giornate stressanti, con il meglio dei battaglioni russi che sono penetrati nel centro città. Per ogni soldato nostro o loro l’incubo peggiore sono i droni. Nei cieli si sentono ronzare di continuo e non sappiamo se siano loro o nostri».
Il tenente colonnello 32enne Mykhailo Kmytiuk da Pokrovsk ci racconta gli scenari di quello che in questo momento è il campo di battaglia più sanguinoso e rilevante dell’intero teatro di guerra russo-ucraino. Mykhailo, nome di battaglia Michel, comanda la «Taifun», l’unità specializzata nell’utilizzo dei droni e inquadrata nei ranghi della Guardia Nazionale, si trova in questo settore dall’ottobre 2024: riusciamo a parlargli mentre si muove con la sua jeep.
Da Mosca dicono che siete circondati e Pokrovsk cadrà presto nelle loro mani. Gli ucraini stanno perdendo?
«La situazione resta difficile. Ma un poco meglio che tre o quattro giorni fa, abbiamo ricevuto rinforzi e nuove armi. La guerra urbana continua, molto crudele. Ma adesso per noi appare
più stabile e più sotto controllo di prima. Siamo anche riusciti a fermare l’attacco russo in zone limitrofe come Dobropillia. Ma è ovvio che Putin vorrebbe prendere tutto il Donbass per poi concentrarsi su Zaporizhzhia».
Come reagiscono i russi all’arrivo dei vostri rinforzi?
«Stanno attaccando e lo fanno intensificando i lanci di droni e bombe plananti, che vengono tirate dagli aerei lontano dal fronte e arrivano in planata molto veloce, difficili da colpire. Noi non abbiamo ancora risposte precise a questi tipi di arma».
Ma perché per voi ora andrebbe meglio?
«Sono arrivati i ricambi per migliaia di soldati che erano davvero esausti in tutte le unità, possiamo avvicendarci».
Mosca sostiene che siete totalmente circondati…
«Non è vero, possiamo ancora entrare e uscire dalla città, sebbene con enormi difficoltà. Anche per loro i movimenti sono complicati e molto pericolosi. Lo vedo tutte le volte che osservo gli schermi nel nostro bunker comando: è in corso una gigantesca sfida per il controllo dei cieli dominata dai droni».
In primavera noi giornalisti potevamo ancora visitare Pokrovsk, i russi si trovavano a una decina di chilometri dalle periferie orientali. Come mai verso fine luglio sono riusciti a entrare?
«Mosca ha bombardato con ordigni giganteschi, pesanti oltre tre tonnellate. Poi hanno inviato il meglio delle loro brigate, con unità speciali addestrate per la guerriglia urbana».
Si stimano 170 mila soldati russi concentrati nella zona. Concorda?
«Crediamo anche di più».
E quanti civili restano dei 60 mila abitanti originari?
«Purtroppo ancora tanti, credo 3 o 4 mila. Per noi rappresentano un problema: non sappiamo se stiano con noi, oppure con i nemici. Temiamo che chi resta diventi spia e informatore dei russi, rivelano ai loro cecchini le postazioni dei nostri soldati. Ogni volta che li incontriamo nelle cantine, nascosti, cerchiamo di parlare con loro, di capire cosa pensino, ma è difficile. E la domanda è sempre la stessa: perché restate, visto che la morte è tutta attorno a voi?».
Cosa può dire dei soldati caduti, davvero i russi perdono tanti uomini?
«Impossibile dare un quadro generale. Posso dire che la nostra unità nel suo settore ha di fronte un centinaio di soldati russi e in media ne uccide 2-3 al giorno, i feriti sono tra gli 8 e 12. Noi per lo più subiamo feriti perché siamo trincerati».
Ma quanti sono i vostri caduti?
«Abbiamo molti feriti leggeri e una media quotidiana di 2 o 3 gravi».
Putin vorrebbe occupare Pokrovsk entro la fine dell’anno: ci riuscirà?
«Mi sembra ancora una storia lunga. Certo è che i russi hanno tanti soldati e ne continuano a inviare»
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
REPORT: IN PIENA PANDEMIA IL COMPONENTE NOMINATO DA FDI NEL COLLEGIO PENSAVA A FAVORIRE IL PARTITO
“Gravi criticità per i pass vaccinali”. Così scriveva il Garante per la Privacy il 23 aprile 2021, nel pieno della pandemia, inviando un formale invito al governo Draghi a correggere il decreto “Riaperture”. Ma qualcuno sollecita a guardare l’ammonimento l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni, allora leader di Fratelli d’Italia, partito di opposizione tra i più duri contro l’introduzione del Green Pass.
Secondo documenti esclusivi in possesso di Report, che anticipa un’inchiesta in onda domenica, il componente del Collegio del Garante Agostino Ghiglia, nominato su indicazione di FdI, ha avvisato Meloni della decisione praticamente in diretta.
La leader di FdI avrebbe risposto con un messaggio laconico: “Visto, ora esco”. E poi “bravo“. Ghiglia – racconta l’inchiesta – avrebbe poi informato gli uffici del Garante di quell’interlocuzione.
La nota di Meloni esce solo dopo, ma è la prima e sola a commentare: “Il Garante per la Privacy boccia le cosiddette ‘certificazioni verdi’ introdotte dal governo Draghi e critica
duramente il decreto ‘Riaperture’ (…). È l’ennesima falla di un decreto inaccettabile, che calpesta le più elementari libertà degli italiani e che Fratelli d’Italia contrasterà con forza in Parlamento e non solo”.
M5s: “No Garante come Colle Oppio”
L’anticipazione di Report provoca il commento dei parlamentari M5s in Commissione Vigilanza Rai. “La coincidenza pare essere la musa prediletta della famiglia Meloni. Secondo quanto emerge da un’anticipazione della prossima puntata di Report, il 23 aprile 2021, mentre il Garante della Privacy ‘indipendentè ammoniva il governo Draghi sul Green Pass, pare che Agostino Ghiglia sentisse l’irresistibile bisogno di avvisare Giorgia Meloni, allora leader dell’opposizione più rumorosa sul tema. E lei, come in una sceneggiatura ben scritta, rispondeva: ‘Bravo, ora escò. Tempismo perfetto, quasi da cinema”, dicono gli esponenti del partito di Giuseppe Conte.. “Da allora, la corrispondenza di amorosi sensi tra Ghiglia e Fratelli d’Italia sembra aver messo radici profonde – aggiungono -. È curioso come, dopo la recente visita di Ghiglia ad Arianna Meloni – proprio il giorno prima della sanzione inflitta a Report – la stessa Arianna non abbia sentito l’urgenza di proferire parola. Anche oggi Arianna Meloni risponde domani? Forse a casa Meloni il gioco preferito è davvero quello del silenzio: chi parla perde. Ora la domanda è semplice: Giorgia Meloni continuerà a fingere che non sia successo niente, o deciderà finalmente di spiegare se considera ‘indipendentè un Garante che le scriveva in privato su provvedimenti così delicati? E che fa visita alla sua sede di partito il giorno prima della sanzione a Report? Una cosa è certa: ribadiamo con forza la richiesta di dimissioni immediate di Ghiglia e dell’intero Collegio del Garante. Perché la privacy degli italiani non può essere amministrata come una succursale di Colle Oppio“.
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2025 Riccardo Fucile
LA SENSAZIONE DIFFUSA È QUELLA DI UN PAESE DIVENTATO “TOSSICO”, DOVE IL COSTO DELLA VITA, L’INSICUREZZA E LE TENSIONI SOCIALI, CRESCONO SENZA CONTROLLO … TRUMP C’ENTRA, MA FINO A UN CERTO PUNTO: È IL MODELLO AMERICANO A ESSERE IN CRISI
Secondo un recente studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato da StudyFinds, quasi i due terzi
dei giovani americani stanno seriamente prendendo in considerazione l’idea di lasciare il Paese.
Il sondaggio, che ha coinvolto cittadini di età compresa tra i 18 e i 34 anni, ha rivelato che circa il 63% di loro ha pensato almeno una volta di trasferirsi all’estero, segno di un crescente senso di insoddisfazione nei confronti della direzione in cui si muove la società americana.
Anche tra i genitori, la percentuale resta elevata: oltre la metà, il 53%, ha dichiarato di aver valutato la possibilità di emigrare. La ricerca descrive un fenomeno che non si limita alle nuove generazioni, ma che riflette una tendenza più ampia nella popolazione adulta, sempre più disillusa rispetto al cosiddetto “sogno americano”.
Il desiderio di andarsene non nasce da una sola causa, ma da un insieme di fattori economici, culturali e psicologici. La sensazione diffusa, secondo i ricercatori, è quella di vivere in un Paese diventato “tossico”, dove il costo della vita cresce senza controllo e la qualità complessiva dell’esistenza è percepita in calo.
L’insicurezza sociale, le tensioni politiche e la polarizzazione ideologica hanno contribuito a creare un clima di esasperazione collettiva, aggravato dal senso di stagnazione economica e dalla difficoltà di costruirsi un futuro stabile.
Per molti giovani, gli Stati Uniti non appaiono più come una terra di opportunità, ma come un sistema ingessato, in cui la mobilità sociale è sempre più difficile e i costi per realizzare progetti di vita – come acquistare una casa, formarsi, crescere una famiglia – sono diventati proibitivi. Lo studio cita proprio l’aumento dei costi dell’abitazione, dell’istruzione universitaria e dell’assistenza sanitaria tra i motivi più ricorrenti alla base del desiderio di fuga.
Questi elementi, uniti a un mercato del lavoro competitivo e stressante, spingono molti giovani a guardare con interesse a modelli europei o canadesi, percepiti come più equilibrati e solidali. Non si tratta soltanto di un desiderio economico, ma anche di una ricerca di qualità della vita: orari di lavoro più sostenibili, tutele sociali più forti, servizi pubblici efficienti e una maggiore stabilità esistenziale. Un dato che emerge con chiarezza è il rifiuto della cultura del “lavorare fino allo
sfinimento”, a favore di una visione più armoniosa del rapporto tra tempo, benessere e realizzazione personale.
A preoccupare gli analisti è l’impatto potenziale di questo atteggiamento sulla coesione sociale e sul capitale umano americano. Se un numero crescente di giovani istruiti e qualificati decidesse effettivamente di trasferirsi all’estero, gli effetti sul mercato del lavoro interno e sulla capacità innovativa del Paese potrebbero essere rilevanti. Inoltre, il crescente distacco emotivo verso la propria nazione segnala un malessere generazionale più profondo: la percezione che gli Stati Uniti non siano più in grado di garantire quelle condizioni minime di equità, sicurezza e prospettiva che per decenni ne hanno alimentato il mito.
Alcuni studiosi citati da StudyFinds sottolineano che il fenomeno va letto come un campanello d’allarme politico e culturale: una parte della gioventù americana non si riconosce più nei valori fondanti della nazione, e preferisce guardare altrove per costruire la propria identità e il proprio futuro. In un Paese storicamente segnato dal mito della “terra promessa”, il fatto che milioni di cittadini giovani immaginino di andarsene rappresenta un ribaltamento simbolico di enorme portata.
(da /studyfinds.org)
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