IL DESTINO DI UN MINISTRO INUTILE: TAJANI. IL DON ABBONDIO DEI PARIOLI
IL TITOLARE DEGLI ESTERI E’ UN PERSONAGGIO A META’ TRA TOM WAMBSANGS DI SUCCESSION E MICHAEL SCOTT DI THE OFFICE
«CONGRATULATIONS WORLD, IT’S TIME FOR PEACE», urla Donald Trump dal social Truth, la sua dependance da single dopo il divorzio con Elon Musk.
«We basically have two countries that have been fighting so long and so hard that they don’t know what the fuck they’re doing, you know what I mean?», rilancia qualche ora più tardi, dopo che Iran e Israele hanno violato il cessate il fuoco.
«They don’t know what the fuck they’re doing», scandisce bene al microfono mentre le pale dell’elicottero disturbano il suono come nei migliori degli action movie: non è né Leslie Nielsen che interpreta il presidente degli Stati Uniti in una commedia demenziale, né Logan Roy in una delle tante scene di Succession in cui spara fuck a tutto spiano, ma la cronaca di questi ultimi giorni di giugno piuttosto complessi.
Eppure, appena una settimana prima, dall’altra parte dell’oceano un ministro degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale con lo sguardo spaurito da coniglio che viene abbagliato dai fari di una macchina, così lo descrive un post su X con duecentomila visualizzazioni e molti like, si era fatto sentire forte e chiaro.
«Ho anche parlato con i ministri di Israele e dell’Iran che erano le otto… otto e mezzo di mattina, e ho detto loro: basta con l’escalation. Cioè, anche all’Iran ho detto “Non reagite più”, ho detto a Israele “Basta, fermiamo qua”», ha dichiarato inflessibile Tajani, Antonio Tajani. Dalla Ciociaria con amore.
Al posto giusto
Se Trump è un Logan Roy con meno charm e più potere, restando nella metafora HBO, Antonio Tajani è una sorta di creatura mitologica, a metà tra Tom Wambsangs e Michael Scott di The Office.
Per chi fosse rimasto indietro con due delle serie migliori degli ultimi vent’anni, Tom Wambsangs è l’uomo che, nella lotta sanguinosa alla successione del gruppo Roystar, colosso dell’informazione statunitense, da esterno alla famiglia simbolo del quiet luxury riesce ad accaparrarsi la leadership, scavalcando figli e consanguinei del caso.
Dopo la morte di Berlusconi senior, avvenuta quasi in concomitanza con la fine della serie, giravano divertenti montaggi che sovrapponevano la sigla di Succession alla torre Mediaset di Cologno Monzese e al logo del Biscione: al posto di Kendal, Roman e Shiv Roy, Pier Silvio, Marina e Barbara Berlusconi, Milano 2 batte gli Hamptons, i produttori lungimiranti all’ascolto ci facciano un pensiero.
ANSA
In questo parallelismo all’italiana, Tajani si colloca come uomo giusto al momento giusto, il fedelissimo della prima ora salito a bordo dell’Azzurra, nave della libertà nel lontano 1994 e rimasto al fianco del capitano, o meglio, del Cavaliere, persino quando
questo era già passato a miglior vita, nei manifesti elettorali in cui se ne evocava lo spirito. «Una forza rassicurante», diceva lo slogan, mentre i due si stringono i pugni che tendono al cielo, un po’ Titanic un po’ Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968.
E qui entra in gioco, pardon, scende in campo Michael Scott, il manager che punta a essere carismatico come Steve Jobs ma che risulta convincente come un fuffa guru di LinkedIn che usa parole come «mission» e «vision».
Perché se Forza Italia è il partito azienda per eccellenza, quello delle campagne elettorali fatte da Publitalia e dei gadget distribuiti porta a porta, del “meno male che Silvio c’è” e delle crociere promozionali, il suo leader non può che essere un cartellone pubblicitario ambulante, come del resto era noi-sappiamo-chi.
Berlusconi chi?
Tutto l’opposto, potremmo dire, dell’erede Tajani, che già in tenera età manifestava segni di malcelata sudditanza militando nell’Unione monarchica italiana e che tra tutte le qualità che gli si possono attribuire certo non sembra avere il dono della seduzione, del barzellettismo militante, dei sorrisi a centinaia di denti che abbagliavano gli interlocutori come quelli del suo amato predecessore.
Figlio di una professoressa di Frosinone e di un ufficiale dell’esercito, giornalista montanelliano, di lui Vittorio Feltri ha detto con la sua proverbiale pacatezza «un anonimo giornalista, un pistola qualsiasi». La sua formazione è al Torquato Tasso, uno di quei licei romani da cui, come vuole la vulgata, si forma la classe dirigente.
Tra gli illustri che hanno scarabocchiato i banchi prestigiosi di Via Sicilia: Giulio Andreotti, Vittorio Gassman, Carlo Verdone, Nanni Moretti, Paolo Mieli, Maurizio Gasparri, Luciana
Castellina. E poi lui, Tajani, lui che si è fatto battere da Walter Veltroni, con cui condivide la fede bianconera, al ballottaggio delle comunali nell’ormai lontano 2001, quando Roma viveva i suoi fasti e i sindaci non avevano ancora i social per scrivere i loro Ab urbe condita reel.
Nelle gallerie fotografiche di Umberto Pizzi, prezioso archivio analogico tra il nostalgico e il cafonal, Tajani abbraccia Francesco Cossiga, gira con la famiglia e un bel dalmata al seguito, bazzica sobriamente dalle parti del Gilda, istituzione della Roma by night, sfreccia su una Ferrari ma senza sbruffonaggine.
Lo sguardo è sempre un po’ preoccupato, la riga di lato, gli abiti sobri da pariolino gentiluomo, insomma niente a che vedere con quella milanesità rampante berlusconiana dentro cui si muove da oltre trent’anni e di cui adesso gestisce la pesante eredità politica che i figli del Cav., al contrario dei personaggi di Succession, hanno tenuto alla larga, salvo qualche sparuta dichiarazione.
Non proprio un leone
Perché Tajani, possiamo dirlo, non era nato con un cuor di leone, per citare la famosa litote manzoniana. La carriera politica del Don Abbondio dei Parioli, oltre al lungo corso europeo, è costellata di uscite infelici – e chi non ne ha, chiaro – ma anche da un mordente non proprio travolgente, per usare un’altra litote, applicato a contesti di estrema delicatezza come quello dei giorni recenti a cui fa fronte con una foto a dir poco scoraggiante.
Lo studio semivuoto dell’Unità di crisi della Farnesina, i computer spenti, uno screensaver di vent’anni fa, una pianta al centro del tavolo che sembra la cosa più viva di quella stanza. Quando tenta un’alzata di cresta da Bianca Berlinguer viene subito bacchettato, «capisco che non siete molto abituati a sentirvi fare delle domande», lui controbatte timido «non è che
posso avere la lezioncina», crisi rientrata.
Quando organizza eventi da lui ritenuti fondamentali per il ministero, come quello sul microbiota intestinale con tanto di prete e conduttrice di Elisir, genera non poche perplessità tra i funzionari della Farnesina. Per non parlare di quelle sue vecchie battaglie, «Tutti coloro che fanno uso di droghe pesanti hanno iniziato facendosi una canna» scriveva candidamente su Twitter nel 2019, omaggiando senza volerlo gli Offlaga Disco Pax, «gli amici del campetto passati dalle Marlboro direttamente all’eroina, alla faccia delle droghe leggere».
E poi ancora, il salario minimo che è roba da Unione sovietica, l’inaccettabile reddito di cittadinanza che va a «rom e stranieri», quel lungo sbrodolare di Benito Mussolini che ha fatto anche cose buone in diretta ai microfoni della Zanzara, palude non ancora bonificata, a differenza dell’Agro Pontino.
Botte di ferro
Non è poi così strano che oggi, alla luce della gravità del momento in cui ci troviamo, la sua posizione di figura centrale per gli equilibri internazionali, in un panorama in cui l’Europa sembra contare molto poco, l’Italia quasi niente, la sua presa tajaniana, risulti poco convincente.
«O porta sfortuna, oppure rinunci a fare queste dichiarazioni», gli ha detto Matteo Renzi in una delle sue performance da blastatore professionista del parlamento, riferendosi alle tante uscite del ministro che aveva scongiurato con convinzione un attacco israeliano all’Iran, poi anche uno spostamento dell’ambasciata da Teheran, sempre smentito o dalla storia in the making, come si dice in questi casi, o dal capo stesso del governo, nonché della sua coalizione. Nelle stesse ore, a decorazione del tutto, Matteo Salvini postava un video in cui raccoglieva giulivo fragole e peperoni del suo orto.
Chissà che effetto farebbe, una volta tanto, sentirsi in una botte
di ferro, invece che «un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro», citando sempre Manzoni, sempre a proposito di Don Abbondio, o senza nemmeno saperlo, di qualche ministro.
(da editorialedomani.it)
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