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REFERENDUM SCOZIA: DALLA MONETA AL PETROLIO, AL WHISKY

BANCHE CHE SPOSTEREBBERO LA SEDE A LONDRA, MONETA DIVERSA DALLA STERLINA, PIU’ CARA MATERIA PRIMA IMPORTATA: PESANTI CONSEGUENZE PER L’ECONOMIA IN CASO PREVALGANO I SI’

A pochi giorni dal referendum definito “storico” dai movimenti indipendentisti di tutto il mondo e in una fase di grande incertezza, con sondaggi altalenanti, non è affatto chiaro che cosa succederà  nelle urne degli scozzesi giovedì 18 settembre.
Una cosa, però, è certa: nelle ultime settimane l’intero establishment britannico (anzi, inglese) si è sgolato per convincere gli abitanti a nord del Vallo di Adriano a restare con Londra.
“Ne va del vostro futuro”, hanno detto, più o meno all’unisono, il partito dei Tory capitanati dal premier David Cameron, il partito laburista con il suo leader, Ed Miliband, e persino i liberaldemocratici, guidati da quel Nick Clegg che è anche vice premier e che raramente prende una posizione su temi nazionali, preferendo discorsi e temi europeisti. Per il premier scozzese Alex Salmond (la Scozia già  da anni ha un suo parlamento e uno suo governo, pur all’interno del Regno Unito) e per il suo Scottish National Party è una questione di vita o di morte, la battaglia di una vita, la conclusione di un lungo percorso partito decenni fa e che si conclude anche per “gentile concessione” di Londra.
Che avrebbe comunque potuto escogitare un modo per impedire il referendum, non facendolo.
Ma a Holyrood, la collina di Edimburgo dove ha sede la politica scozzese, ne sono convinti: questa non è la conclusione, ma è solo l’inizio di una nuova stagione di indipendenza, in cui il popolo più fiero della Gran Bretagna potrà  finalmente correre sulle sue gambe.
A quali condizioni, però, nel caso dovesse passare il referendum?
Salmond pochi giorni fa ha detto: “Saremo orgogliosi di avere la regina Elisabetta II come nostra sovrana”. Esclusa quindi, nonostante in passato se ne sia parlato più di una volta, la costituzione di una repubblica.
I temi sono anche altri, chiaramente. Dal futuro della sterlina al petrolio, dai rapporti con l’Ue fino al whisky, vanto e ricchezza nazionale.
Il settore finanziario e la moneta
Al momento, Edimburgo è la seconda capitale finanziaria del Regno Unito, per un settore che vale circa il 9% del valore economico prodotto in Scozia.
Certo, il comparto manufatturiero continua a farla da padrone, ma solo nel 2009, poco prima che gli effetti dell’ultima crisi cominciassero a sentirsi, si arrivò a prevedere un imminente sorpasso su tutte le altre voci dell’economia scozzese proprio da parte della finanza.
In Scozia hanno sede la Royal Bank of Scotland (Rbs), forte di 300 anni di storia, e anche la Lloyds, nazionalizzata al 25%, ha qui gran parte delle sue attività .
Eppure, con la “minaccia” dell’indipendenza sul collo, molte realtà  finanziarie hanno promesso, in caso di vittoria dei “Sì”, di spostare la loro sede a Londra.
Compresa quella Rbs ora all’81% in mano allo Stato. I motivi sono chiari: troppa incertezza per la moneta, mancata chiarezza su quali regole governeranno banche e attività  finanziarie, il peso del governo centrale di Londra (anche in termini di azionariato) e soprattutto il timore di entrare a far parte di una nazione di soli 5 milioni di abitanti.
Certo, molto più ricca rispetto ad altri Paesi europei di simile grandezza e popolazione. Ma pur sempre ininfluente sui mercati europei e mondiali.
Il capitale prenderebbe il volo e quei 466 miliardi di sterline di valori in mano a banche e attività  finanziarie scozzesi (circa 590 miliardi di euro) si ridurrebbero di molto, visto che solo 46 miliardi provengono da investitori, correntisti, risparmiatori e aziende scozzesi. Poi, la sterlina. Tenerla oppure no? E, in caso negativo, adottare l’euro?
Salmond vorrebbe mantenere il pound, Londra risponde che non avrebbe senso ma alterna secchi “no” a più teneri “vedremo”.
Di sicuro, un’unione monetaria sarebbe “difficilmente realizzabile”, come ha detto il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney.
La Scozia dovrebbe infatti accantonare enormi riserve monetarie per poter continuare a usare la sterlina britannica.
Soldi che non saprebbe dove trovare, visto che gran parte dei proventi del petrolio non rientra nell’economia scozzese, andando invece a ingrassare le società  energetiche.
Il whisky, a rischio una manna per le esportazioni
Un’industria che dà  lavoro, direttamente, a 35mila dipendenti, dando da vivere alle loro famiglie (circa 100mila persone in totale) e in più va considerato l’indotto.
Il whisky scozzese, che fece le sue fortune grazie ai film di Hollywood, rappresenta l’85% delle esportazioni agroalimentari scozzesi, in un’area poco fortunata dal punto di vista climatico e dove, comunque, anche il cereale per la produzione di questa bevanda alcolica deve essere importato dall’Europa del sud.
Il whisky porta alla Scozia 4,3 miliardi di sterline all’anno (circa 5,5 miliardi di euro), ma nelle ultime settimane le aziende produttrici si sono ribellate all’idea dell’indipendenza. Centinaia di produttori di whisky hanno lanciato petizioni e raccolte firme, per scongiurare il rischio di un affossamento dell’industria.
E non è detto che, giovedì prossimo, sia proprio il loro voto (e quello dei loro dipendenti e famiglie) a condizionare l’esito del referendum.
Il mercato del whisky è al 90% internazionale: soprattutto India, Stati Uniti e altri paesi che hanno avuto legami con l’impero britannico.
Il problema è che, con una Scozia almeno temporaneamente al di fuori dell’Unione europea, verrebbero meno quelle agevolazioni fiscali fra paesi importatori di whisky e Ue che finora hanno fatto ricca l’industria.
Ancora, si teme che l’uscita dalla sterlina possa far aumentare il prezzo alla produzione, anche perchè, appunto, gran parte dei cereali arrivano proprio dall’Unione europea. Infine, questione di non poco conto, verrebbe meno quella grande opera di promozione svolta dalle ambasciate britanniche in tutto il mondo.
Il petrolio, oro nero o maledizione?
Il Mare del Nord è ricco, ricchissimo di petrolio. Ma quanto durerà ?
Nelle ultime settimane, la lotta attorno al petrolio è stata anche una guerra di previsioni. C’è chi dice che durerà  al massimo fino al 2040, chi, ancora, sostiene che — con grande gioia degli indipendentisti — circa cento nuovi giacimenti debbano essere ancora scoperti. British Petroleum (Bp), che in questi mari la fa da padrona, ha detto che l’indipendenza sarebbe una follia.
I già  alti costi per l’estrazione del petrolio scozzese non farebbero altro che crescere, questa la tesi delle aziende del settore.
Mettendo a rischio una parte di economia di Edimburgo che si basa proprio sull’oro nero. Per esempio Aberdeen, città  nel nord della Scozia seduta su un mare di petrolio, è al momento il centro urbano britannico con il più alto Pil pro capite.
Un report di pochi mesi fa la definiva come il miglior luogo per avere fortuna, dopo Londra chiaramente, nel Regno Unito.
Ma le aziende, appunto, temono che tutta questa manna possa finire.
Il problema principale per gli scozzesi — ed è anche su questo che puntano gli indipendentisti — è che solo una minima parte dei proventi dal petrolio va a finanziare il welfare e lo stato sociale di quest’area.
Non per niente Aberdeen registra anche la più grande sproporzione e la minore redistribuzione di reddito fra lavoratori. E redistribuire i proventi, di questi tempi, è l’ultima preoccupazione di Londra. Così la battaglia del petrolio potrebbe essere una maledizione per gli “unionisti”.
Anni di politiche sbagliate potrebbero portare gli scozzesi a votare per l’indipendenza.
Le ragioni degli scozzesi
Le ragioni degli indipendentisti sono riassumibili in una semplice dichiarazione, quella che John Swinney, uno dei pezzi grossi dello Scottish National Party, ha fatto al Guardian pochi giorni fa: “Penso che faremo un lavoro migliore governandoci da soli invece che subire decisioni prese dal governo britannico”.
Un discorso che non fa una piega ma che si basa anche su convinzioni più forti. Innanzitutto, la Scozia vuole uscire dai fantasmi della deindustrializzazione degli anni Ottanta, voluta anche e soprattutto da Margaret Thatcher, ancora odiatissima a nord.
C’è la convinzione, fra Glasgow ed Edimburgo, che dopo di lei nessuno degli esecutivi di Londra abbia mai fatto abbastanza.
Poi c’è il discorso del petrolio. I proventi non sono mai stati utilizzati per alleviare il disagio dei fuoriusciti dalle miniere e dalle industrie pesanti.
Anche qui Londra avrebbe le sue colpe, secondo gli indipendentisti, che sono convinti di poter porre rimedio quando, finalmente, avranno in mano le industrie dell’oro nero. Infine, c’è anche una questione di orgoglio: a Westminster, sotto il Big Ben, dove comunque la Scozia a detta di tutti gli inglesi è sovra-rappresentata, vengono prese troppe decisioni sugli scozzesi, spesso penalizzandoli.
La mancanza di una vera copertura di rete Internet superveloce nelle aree rurali, la carenza di infrastrutture come strade e ferrovie (Aberdeen non ha nemmeno una tangenziale degna di questo nome che possa alleviare il carico sull’autostrada) e il senso di trovarsi “ai confini dell’impero” che pervade gli animi degli scozzesi, soprattutto nelle Highlands e nelle isole, remano contro il potere di “Londra ladrona”.
Ogni discorso riconduce a una sindrome da figlio reietto che ora cerca di trovare la sua rivincita.
Infine, e non è cosa di poco conto, visto che è una logica comune a molti altri movimenti di opposizione europei, è in campo la questione dell’austerity.
A Edimburgo le politiche di taglio della spesa sono state molto più forti e “impattanti” che non nel resto del Regno Unito.
Il welfare è sempre stato un pozzo senza fondo nelle aree più povere della Scozia. E Londra, chiaramente, ha iniziato a tagliare proprio da lì. Il Paese ora vuole riprendere in mano il suo presente e cercare di costruirsi un futuro.
Fuori o dentro l’Unione europea, alla fine, non importa più di tanto. Chiaramente, Salmond vorrebbe entrare nel recinto comunitario il prima possibile, anche se Paesi come Spagna e Belgio, alle prese con movimenti indipendentisti molto forti e arrabbiati, potrebbero porre il loro veto e, nel caso, servirebbero molti anni a Edimburgo per potersi associare a Bruxelles.
Ma, appunto, anche senza l’Unione europea la Scozia aspira a diventare “un mix fra Norvegia e Arabia Saudita”, come diversi esponenti dello Scottish National Party hanno detto più volte.
Ricchezza e welfare norvegese (Paese fuori dall’Ue), rigore e controllo saudita. Insomma, una nuova nazione di sinistra ma anche con regole ferree e stringenti.
Ora, si attende solo il risultato delle urne

Daniele Guido Gessa
(da “il Fatto Quotidiano“)

This entry was posted on domenica, Settembre 14th, 2014 at 21:20 and is filed under Europa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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