SE MICHETTI CADE A FARSI MALE E’ LA MELONI
CON UNA SCONFITTA L’ALTRO DISPERATO LE PRESENTA IL CONTO
Il senso di Roma per Giorgia Meloni sarebbe un buon titolo per il romanzo breve la cui ultima pagina verrà scritta lunedì alle ore 15, quando nella capitale si chiudono le urne.
La leader di Fratelli d’Italia si trova un po’ fieramente e un po’ obtorto collo nell’angolo. Denuncia una conventio ad excludendum nei confronti suoi e del suo partito, si sente fieramente all’angolo, accusa il ritorno della strategia della tensione per incastrarla nelle maglie di un neofascismo di ritorno sul quale non riesce a prendere fino in fondo le distanze per convenienza elettorale e perché sa che molti dei suoi vi coltivano rapporti e connessioni.
Se c’è un significato politico nelle elezioni di Roma – oltre che il futuro prossimo del governo della città, s’intende – è quello che riguarda la leader della destra italiana.
Il suo campione peggio non poteva andare.
Enrico Michetti è inciampato sulla Shoah, sul complottismo, sull’igienico saluto romano, su bighe, centurioni e gladiatori ossessivamente diventato il benchmark della città che immagina.
Una serie di ruzzoloni in sequenza dal quale è uscito più che ammaccato, e che lascia trasparire un certo ottimismo nel campo avversario.
Quando ha fatto saltare l’ultimo di una lunga serie di confronti, che tra l’altro si giocava in casa, organizzato proprio da una fondazione di centrodestra, di telefonata in telefonata il caso è arrivato fino all’orecchio di Meloni. Raccontano che sarebbe sbottata: “Mi sono stufata di fare la segretaria di Michetti”.
Matteo Salvini ha capito l’antifona e ha iniziato a girare al largo. Una conferenza stampa con candidato e leader amici in mezzo alla settimana, poi via, su al nord a combattere per Varese e Trieste, per non mettere la faccia sulla possibile sconfitta: quella, per un po’ tutta la Lega, è un affare di Meloni.
Loro hanno voluto esprimere a tutti i costi il candidato, loro hanno selezionato rocambolescamente l’esperto di diritto amministrativo celebre in città per il podio che si è conquistato a Radio Radio, una delle emittenti più seguite in città e che da un paio di anni ha riempito i palinsesti di tesi no-vax e complottiste.
Il Carroccio in città è sceso al 6%, la presa sulla città svanita, la concorrenza con un alleato ben più radicato dentro il Grande raccordo anulare impossibile.
Con Forza Italia che è diventata quello che è diventata, è stata Meloni e l’intero suo partito a doversi sobbarcare Michetti nel tentativo di issarlo su fino al Campidoglio, in quella che potrebbe essere la battaglia che indirizzerà in un verso o nell’altro il futuro di Fdi.
Una vittoria di Michetti significherebbe uscire dall’angolo, dimostrare che il partito che ha la fiamma nel simbolo non semplicemente il rifugio della destra-destra, non semplicemente il polo di attrazione per chi non si riconosce nell’esperienza Draghi, non solo la rumorosa tribuna dalla quale urlare il proprio scetticismo su green pass e presunta dittatura sanitaria.
Dimostrare quel che gli avversari provano a smontare, ovvero che Fratelli d’Italia è un partito che ha tutte le carte in regola per governare, come dovrebbe essere normale per il primo partito italiano nei sondaggi.
Ma soprattutto è la via maestra per ribaltare i rapporti di forza nel centrodestra, una vittoria di una coalizione molto di nome e poco di fatto, che isserebbe Meloni a leader di una nuova fase dopo il lustro di egemonia salviniana, un patrimonio da investire nelle prossime elezioni del presidente della Repubblica, nella scelta dei candidati delle future tornate amministrative, nell’architettura delle alchimie delle elezioni politiche che verranno.
Michetti potrebbe però essere nel medio periodo una sventura, ricalcare le mai rimpiante orme del primo campione della destra a pigliarsi Roma, quel Gianni Alemanno che in città viene ricordato come spazzaneve, per lo scandalo delle partecipate e poco altro.
Ma queste alla fin fine sono cose che hanno poco riverbero oltre il Raccordo, nell’immediato sarebbe una vittoria decisiva, da soli contro tutti, volano di altre e ben più rilevanti conquiste.
Perdere avrebbe un effetto uguale e contrario. Un candidato imposto, difeso, sopportato e infine schiantato, la dimostrazione di una classe dirigente impalpabile se non inesistente, una selezione raffazzonata dei candidati e dei programmi per governare, uno schiaffo dopo essere partiti con un margine non trascurabile di vantaggio accumulato al primo turno.
E sarebbe una debacle difficilmente condivisibile con i partner di coalizione, che sono pronti a presentare il conto. L’uno per rivendicare nuovamente e una volta per tutte la leadership di quell’area politica, l’altro per cercare di bilanciare la trazione sovranista del centrodestra e riportarla in un alveo moderato e liberale, qualunque cosa ormai significhi questo termine dalle parti di Forza Italia.
Insomma, Roma è il banco di prova per capire se Giorgia Meloni e i suoi sono davvero “unfit to lead”, come dicevano di un altro prima di lei.
(da Huffingtonpost)
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