ADDIO A PHILIPPE LEROY, INDIMENTICABILE ATTORE FRANCESE ADOTTATO DAL CINEMA ITALIANO
UNA VITA AVVENTUROSA. UN UOMO AUSTERO E IRONICO, UN GRANDE INTERPRETE
Per milioni di spettatori è Yanez, l’amico di Sandokan, l’eroe dello sceneggiato di Sergio Sollima che nel 1976 tenne incollati davanti alla tv 30 milioni di italiani. Philippe Leroy, morto a Roma a 93 anni, era un uomo affascinante che ha avuto una vita avventurosa.
A quel ruolo, che lo rese un eroe popolare, amato da tutti, il cappello in testa, la sigaretta all’angolo della bocca, era rimasto molto legato: “Yanez sono io. È un personaggio che mi perseguita. Interpretandolo, mi sembrò di rivivere la mia vita. I sei mesi passati tra la Malesia e gli studi di Bollywood, comunque, sono stati i più straordinari di tutta la mia carriera. Nell’affidarmi il ruolo, Sollima mi fece un regalo”. Attore, paracadutista – la sua vera passione – ribelle, soldato, patriota, avventuriero, cittadino del mondo, scultore, l’aristocratico Philippe Leroy-Beaulieu, quasi duecento film alle spalle, è sempre stato innamorato della libertà. “Il paracadutismo” raccontava “l’ho scoperto tardi, nel 1986, e mi dispiace. A cinquemila metri d’altezza la terra è bellissima e non esiste nulla di più straordinario che volare”.
L’Italia, dagli anni 60, era diventata il suo paese: nel 1990 aveva sposato Silvia Tortora (scomparsa nel 2022); la notevole differenza di età fa notizia, ma è un grande amore. Da lei ha avuto due figli, Michelle e Filippo. Scherzava sul rapporto con la moglie, su quella donna “deliziosa, fantastica”, che si preoccupava per lui. “L’unico difetto è che mi dice cosa devo fare o indossare, pensa che sono rincoglionito”.
La vita come un’avventura
Rampollo di una grande famiglia, uscito dal collegio dei Gesuiti di Montplellier, spirito da avventuriero, Leroy parte per fare il giro dell’America con lo zaino in spalla.
A Parigi lo aspetta la maturità ma non è uno studente modello. Sfoglia, come scrive nell’autobiografia Profumi (Campanotto editore), il codice civile e penale. “Ero il perfetto buono a nulla, mi dicevano i parenti, ma è meglio essere un buono a nulla piuttosto che un ‘tocca tutto’, almeno così non si fanno danni. Iniziavo a praticare uno sport che farà di me un atleta, il rugby, che in seguito mi avrebbe consentito di rispondere alle provocazioni”.
A 21 anni Leroy è pronto per il servizio militare. Lo aspetta la guerra: Hanoi, Tonchino, le lunghe marce, la sete, la paura, le azioni fulminee (“Dopo tanti anni – scrive nell’autobiografia- mi ronza ancora nelle orecchie il grido disumano di quello che ho colpito in pancia”). Guarda la morte in faccia, ma il tenente Leroy è un uomo che sa vivere: ad Hanoi noleggia tutti i risciò a pedali e organizza una gara di corsa, ha una fidanzatina vietnamita. Scrive: “A volte con il tenente B. andavamo anche a fumarci una o due pipe di oppio, senza esagerare: eliminavamo così la pesantezza dei nostri corpi stremati. Lo incontrerò più tardi, in un bar degli Champs Elysées dove mi aveva dato appuntamento, per propormi di entrare nei ‘Baffuti’, come lui chiamava il Servizio segreto militare. Non se n’è più fatto niente. Mi sa che davo troppo nell’occhio”.
La scelta del cinema
Una vita estrema. Dal Costa Rica, dove raggiunge uno zio ambasciatore ai piccoli lavoretti, al ritorno come volontario sotto le armi – parte per la guerra in Algeria – Leroy cerca il suo posto nel mondo, spinto dalla curiosità. Il cinema gli spalanca le porte grazie all’amico Jean Becker, che gli presenta il padre Jacques con cui gira Il buco. Fare l’attore, quello che all’inizio considera “un lavoro da femminucce”, segna una svolta nella la sua vita. Col golpe in Algeria viene schedato, parte per l’Italia. Sono gli anni Sessanta, della Roma notturna, delle cene da Otello, del cinema d’autore. Leroy conosce tutti e inizia a lavorare.
Nel cinema capita per caso, nel 1961 Vittorio Caprioli gli offre Leoni al sole. Nel 1962 gira Senilità di Mauro Bolognini, quindi un film dietro l’altro: Una donna sposata di Jean-LucGodard (1964), Sette uomini d’oro di Marco Vicario (1965), La mandragola di Alberto Lattuada (1965), Il grande colpo dei 7 uomini d’oro ancora con Vicario (1966), Senza sapere niente di lei di Luigi Comencini (1969) Roma bene di Carlo Lizzani (1971).
Lo sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci di Renato Castellani, del 1971 è un altro grande successo. Con Liliana Cavani gira Il portiere di notte, Al di là del bene e del male e Interno berlinese. Attraversa tutti i generi, tra in titoli Il tango della gelosia di Steno (1981), State buoni se potete di Luigi Magni (1983), Un uomo, una donna oggi (Un homme et une femme : 20 ans déjà) di Claude Lelouch (1986), Montecarlo Gran Casinò di Carlo Vanzina (1987), Io e il re di Lucio Gaudino (1995), Vajont – la diga del disonore di Renzo Martinelli (2001), La terza madre di Dario Argento (2007), Il sangue dei vinti di Michele Soavi (2008), La legge del crimine (Le premier cercle) di Laurent Tuel (2009), Questione di karma di Edoardo Falcone (2017).
Il rapporto con i registi
Con alcuni registi ha buoni rapporti, con altri sono più difficili. ”Mi ricordo che con Godard feci un’enorme fatica. Stessa storia a teatro con Strehler… Mi sembrava di essere discreto, ma lui voleva essere costantemente adulato e protestava: ‘Non partecipi, non mi sei vicino, mi snobbi, non te ne frega niente’. Con me Giorgio fu brutale. Silvia fece da paciere. Sono viscerale… Detesto gli attori pretenziosi che si danno un tono e discutono solo del proprio mestiere. La mia vita va oltre il set”.
La sua vita, è vero, è un film molto più interessante delle storie che ha interpretato. “Non sono ricco e non me ne frega niente perché quando muoiono, i ricchi diventano come tutti gli altri. Sepolti. Sotto terra. Senza ricchezze… Ho sempre detestato l’attribuire valore ai soldi, alla proprietà, l’addormentarsi sognando una Porsche Carrera. Nella mia breve vita ho costruito cinque case con le mie stesse mani e non ho mai rimpianto di averle perse. So vivere sotto una tenda, anche se oggi mi fanno abbastanza male le ossa”.
Chiude il libro Profumi con la considerazione che “un attore è una cometa”. “Si comincia col dire: ‘Come si chiama questo giovane attore?’, ‘Philippe Leroy’. Seconda frase: ‘Toh, ecco Philippe Leroy’. Terza frase: ‘Oh! Assomiglia a Philippe Leroy’. Ultima frase: ‘Come si chiamava quell’attore?… Ma sì, dai, si lanciava col paracadute… per poi sparire per sempre con il seguente epitaffio: Philippe Lereoy-Beaulieu nato a Parigi il 15 ottobre 1930. Disperso”.
(da La Repubblica)
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