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ALITALIA IN CRISI PER COLPA DEGLI ERRORI DEI CAPITANI CORAGGIOSI CHIAMATI NEL 2008 DA BERLUSCONI

LA TRAGICA GESTIONE E IL BUCO MILIARDARIO, LE SCELTE SBAGLIATE E I FAVORI ALLA CONCORRENZA

A tarpare le ali di Alitalia non è stato l’avvento delle compagnie low cost, ma le scelte scellerate dei Capitani Coraggiosi chiamati da Silvio Berlusconi per salvare la compagnia di bandiera. Senza i danni causati dal Piano Fenice firmato da Cai — in base al quale l’ex Alitalia ha abbandonato il mercato infrauropeo, rinunciando volontariamente a un tesoro di circa 10 milioni di passeggeri per concentrarsi sul mercato domestico a tariffe non competitive — oggi l’Italia non sarebbe il Paese europeo col maggior tasso di penetrazione di vettori a basso costo.
Un “regalone” che ha permesso in meno di dieci anni a Ryanair e simili di accaparrarsi il 52% dei voli nazionali, il 58% dei voli infraeuropei e il 60% di quelli intraeuropei (dati 2016).
Ciò che ancora oggi viene indicato come la causa della crisi della ex compagnia di bandiera, sarebbe quindi l’effetto delle sue politiche industriali.
Sono alcune delle conclusioni contenute in “Alitalia e il mercato del trasporto aereo”, il dossier elaborato dal Dipartimento di Scienze Economico aziendali (Di.Sea.De) dell’Università  Statale di Milano Bicocca.
Uno studio ancora inedito — che Business Insider Italia ha potuto leggere in anteprima — firmato dal professor Ugo Arrigo, che ha il merito di smontare molti dei luoghi comuni spesso associati alla vicenda Alitalia.
L’analisi nasce dall’esame di tutti i bilanci della compagnia dal 1947, anno della fondazione, ai giorni nostri. «In realtà  ci fermiamo al 2015, perchè i bilanci e i numeri del 2016 non sono ancora stati forniti dagli attuali commissari (Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, ndr», spiega il Professore.
Non uno qualsiasi Arrigo, ma la “Cassandra” che già  a settembre 2008 aveva previsto l’attuale debacle del vettore.
E il relativo nuovo salasso per le casse pubbliche, che per non lasciare a terra gli aerei, hanno appena accordato alla compagnia un prestito ponte da 900 milioni, oltre ad altri 80 milioni l’anno per 1600 cassaintegrazioni.
Un’ennesima iniezione di contante che segue quella versata per la crisi del 2008 (quando nacque Cai) e del 2014 (che portò in regalo gli arabi di Ethiad).
In entrambi i casi, i privati godettero dell’aiuto dello stato, mettendoci molto poco di tasca propria: i Capitani coraggiosi nel 2008 versarono complessivamente 427 milioni (la valutazione degli asset ceduti dall’allora commissario Augusto Fantozzi fu 1.052 miliardi, ma 625 milioni risultarono un accollo di debiti), mentre Etihad nel 2014 versò 388 milioni cash, ma pretese, come vedremo, la cessione di cinque preziosi slot (il permesso ad atterrare e decollare in un aeroporto in una specifica data e orario)sull’aeroporto londinese di Heathrow e del 75% di Millemiglia.
Complessivamente Capitani ed Ethiad rilevarono Alitalia con 815 milioni complessivi
Per capire perchè Alitalia si sia ritrovata alla terza iniezione di capitale in meno di otto anni, è utile analizzare il flusso delle perdite dal 1947 a oggi.
Si scopre così che tra il 1947 e 2007 — ultimo anno a gestione pubblica, espresse in euro 2016 (rivalutazione fatta con l’indice del Pil nominale) -, queste ammontano a 6,5 miliardi, valore che si riduce a 5 miliardi conteggiando gli 1,5 miliardi di tasse versate dalla compagnia allo Stato. Colpisce che sino alla decisione di smantellare l’Iri (1993), le perdite cumulate di Alitalia sono zero al lordo delle tasse.
I 5 miliardi di perdita al lordo delle tasse si creano infatti nel periodo tra lo smantellamento di Iri e la gestione diretta da parte del Tesoro (scelta incomprensibile in quanto il Tesoro non aveva mai avuto alcuna competenza di tipo industriale).
Ma, soprattutto, si scopre che nel 2008, la scelta dell’allora premier Berlusconi di mettere in piedi la “cordata patriottica” ha comportato una perdita ulteriore per le casse pubbliche, stimabile approssimativamente in 5-6 miliardi.
«Quella fu una mossa geniale di Berlusconi, che rinunciò all’ottima offerta di acquisto presentata da Air France, per dare alla compagnia a imprenditori presentati come “di sinistra”, a partire da Colaninno padre», ricorda amaro Arrigo, il quale sottolinea anche le colpe dei sindacati, i quali con toni pur diversi, appoggiarono l’operazione scellerata.
Dati alla mano, la verità  oggi innegabile è che gli oltre 10 miliardi di oneri derivanti da Alitalia si creano quasi tutti del periodo post IRI e oltre la metà  di questi è imputabile alla scelta del 2008. Una bella medaglia per il Cavaliere.
Per comprendere di quanto siano riusciti a “toppare” i Capitani coraggiosi con il loro Piano Fenice, basta dire che la compagnia prevedeva di incassare dalle tratte domestiche in media 106 euro a biglietto.
Se tale previsione si fosse avverata, nel 2015 in quel segmento avrebbe dovuto raccogliere 1,26 miliardi. In realtà  incasserà  solo 760 milioni, cioè ben 500 milioni di meno.
Stesso discorso (errato) vale per le tratte di medio raggio: Cai prevedeva un ricavo medio di 118 euro a biglietto, ne raccoglierà  appena 95 euro, con un ammanco rispetto alle previsioni di circa 180 milioni di euro. Ecco spiegate le perdite aziendali dell’ultimo biennio.
Ma anche così è difficile comprendere come si possa arrivare ad accumulare 5 miliardi di debiti in un mercato in continua crescita: tra il 1997 e il 2016 l’Italia passa da 50 milioni di passeggeri/anno a 134 milioni.
Un boom che ha avvantaggiato soprattutto le low cost, che tra il 2004 e il 2016 quadruplicano i passeggeri (da 13 a 66 milioni).
Negli stessi anni anche le altre compagnie tradizionali crescono, passando da 33 a 42 milioni di passeggeri. L’unica a perdere in maniera continuata è Alitalia: dal 37% del mercato di linea controllato a fine 2007, Cai riparte nel 2009 con il 23%, per approdare al misero 17,6% del 2016.
Quindi la risposta alla domanda precedente è: sbagliando tutto quanto fosse possibile sbagliare. Cai dal 2008 decide di non provare neanche a competere con gli altri vettori sulle rotte europee e cancella così gran parte delle offerte infracontinentali; di non puntare neanche su quelle intercontinentali, nonostante assicurino maggiori margini di guadagno; di lanciarsi in un’insensata guerra alle low cost sulle tratte nazionali, ma però offrire tariffe paragonabili e, infine, di avere solo aerei in leasing! Corollario di tutto ciò, il ridimensionamento indiscriminato: meno persone, meno offerta, meno servizi. Eccolo in sintesi il Piano Fenice, una disfatta.
Con il solo il disimpegno volontario di Cai nel medio raggio, la compagnia perde nel biennio 2007/2009 oltre 6 milioni di passeggeri. Che passano tutti alle low cost, tanto che queste registrano 26 milioni di viaggiatori trasportati nel 2007, 29 nel 2009, 36 nel 2011 fino ai 50 milioni del 2016.
Tagli e costo del lavor
Altro mito da sfatare è quello di una compagnia azzoppata dall’insopportabile costo del lavoro: in realtà  questo oggi pesa per meno del 17% sui costi industriali della compagnia, ed è è il più basso tra tutte le compagnie di tradizionali europee (British 21%, Lufthansa 23%, Air France-Klm 30%).
Un indice in continua discesa: dai 15 euro a posto offerto del 2009, si è passati ai 12 euro del 2015, mentre il costo medio per un dipendente Alitalia oggi è di 8 mila euro più basso rispetto alla media degli altri vettori tradizionali e di 5 mila euro inferiore a quello di una low cost.
Al netto degli oneri a carico del datore di lavoro, persino Ryanair paga di più i prori lavoratori! Tuttavia tale diminuzione è stata vanificata dal parallalelo incremento dei costi per la flotta, passati da 14 euro a biglietto del 2009 ai 19 del 2015. Insomma, i sacrifici dei lavoratori sono stati tanti, onerosi ma soprattutto vani!
Ridimensionamenti “tafazziani”
Anche la politica dei “ridimensionamenti” indiscriminati è stata “tafazziana” secondo Arrigo: nel 2007 Alitalia dichiarava costi operativi 5,2 miliardi di euro. Nel 2009 Cai, reduce dall’assorbimento di AirOne (a un prezzo sconsiderato), taglia per oltre 2 miliardi (la stessa cifra che si intende tagliare oggi) e chiude il bilancio con 3,2 miliardi di costi.
Tuttavia, quando le aziende vengono ridimensionate, insieme ai costi si riducono anche i ricavi che i rami recisi generavano. Quindi, il ridimensionamento eÌ€ vantaggioso solo se la riduzione dei primi eÌ€ molto piuÌ€ consistente di quella dei secondi. Se invece dopo i tagli, costi e ricavi si equivalgono, c’è un problema
Ed è proprio ciò che accade ad Alitalia: nel 2007 aveva 5,2 miliardi di costi operativi a fronte di 4,9 miliardi di ricavi; Cai nel 2009 ha 3,2 miliardi di costi e 2,9 miliardi di ricavi.
Il saldo negativo di gestione resta uguale a -300 milioni, tuttavia la Cai del 2009 è una compagnia molto più piccola di Alitalia e meno competitiva.
E dopo sarà  anche peggio: “Nel 2015, ultimo anno di cui eÌ€ noto il bilancio, Alitalia ha registrato ricavi operativi per poco meno di 3,2 miliardi e costi operativi per poco meno di 3,6 miliardi, con un risultato negativo di 420 milioni. I ricavi operativi hanno pertanto coperto solo l’88% dei costi operativi, contro il 94% del 2007, l’ultimo anno a gestione statale piena della vecchia Alitalia”, si legge nel rapporto. La storia di Alitalia è un esempio da manuale di come la sola riduzione dei costi attraverso la contrazione dei fattori produttivi non serva a riequilibrare i conti di un’azienda.
Il leasing che strozza
Altra voce di costo insostenibile è quella della flotta: nel 2009, Cai decise di rinunciare alla flotta di proprietà , ritenendo più conveniente utilizzare aeromobili in leasing.
Così oggi la compagnia si ritrova con soli 7 aeromobili di proprietà  su 122 velivoli totali. Gli altri sono noleggiati a prezzi totalmente fuori mercato: per i 20 velivoli regionali spende 55,4 milioni l’anno (2,8 milioni l’uno); per i 23 a lungo raggio, 127 milioni (5,8 milioni); per i 72 di medio raggio, 261 milioni (3,6 milioni).
Per comprendere quanto sia il sovrapprezzo, basti pensare che Vueling, l’unico altro grande vettore europeo non proprietario, per un medio raggio paga 2,4 milioni l’anno, 1,2 milioni in meno di Alitalia. Inoltre Vueling ha aerei più capienti, più performanti e che volano per più ore.
Anche gli Arabi hanno fatto (male) la loro parte
Se la gestione Cai è stata disastrosa, quella successiva di Ethiad non ha certo brillato: degli arabi probabilmente rimarranno negli annali solo gli insufficienti investimenti sul lungo raggio, l’esplosione dei costi per flotta e servizi, l’incredibile vicenda degli slot.
Quando nel 2014 i Capitani Coraggiosi implorano l’ingresso in società  dei soldi degli Emirati Arabi Uniti, i manager di Abu Dhabi accettano, ma pongono una condizione capestro: per iniziare l’avventura, Cai avrebbe dovuto cedere loro 5 slot su Heathrow per 60 milioni complessivi.
Una cifra irrisoria, considerando che un singolo slot su Londra era valutato in media 40 milioni! Evidentemente i manager Cai non conoscevano i prezzi correnti o non erano in grado di opporsi. Ma oltre la rapina la beffa: subito dopo la cessione, quegli stessi slot Ethiad li affitterà  proprio a Cai…
Che fare oggi
Fin qui abbiamo visto cosa è accaduto in passato, ma il report di Arrigo suggerisce anche soluzioni per uscire dalla crisi attuale. «Basterebbero 900 milioni — che poi è la cifra del prestito ponte concesso ad Alitalia dal governo nei mesi scorsi — per ripartire. Peccato che gli attuali commissari usino quei soldi unicamente per tamponare le spese in attesa di un compratore», commenta sconsolato Arrigo.
E sì che la via per la rinascita sarebbe molto chiara: «Per prima cosa si dovrebbe incrementare il lungo raggio, anche se ciò richiede investimenti onerosi», e contemporaneamente, «Alitalia dovrebbe attivare un’offerta a basso costo su tratte brevi, aprendo o comprando una low cost. Il tutto, naturalmente, tornando a fare concorrenza sul traffico intraeuropeo».
Altrettanto necessario sarebbe l’abbattimento dei costi della flotta: nel 2015 i costi operativi totali di Alitalia per posto offerto per un viaggio da 1000 km sono stati pari a 75 euro, un valore piuÌ€ che doppio rispetto ai 36 euro di Ryanair, ma non così distanti dai 66 euro di EasyJet (15% in piuÌ€) e dai 60 di Vueling (25% in piuÌ€). E l’obiettivo di scendere al livello dei due ultimi vettori eÌ€ difficile, ma non impossibile.
Secondo Arrigo, la strada da seguire è quella imbracciata nel 2006 (ben 11 anni fa!) da Iberia, compagnia messa in difficoltaÌ€ dalla concorrenza low cost (la Spagna eÌ€ l’unico altro grande paese europeo oltre all’Italia in cui metaÌ€ del mercato eÌ€ coperta dai vettori a basso prezzo). Il vettore spagnolo ha fondato nel 2006 una sua low cost, Clickair, che nel 2009 si è fuso con la low cost privata Vueling.
Nel 2016 hanno volato nei cieli spagnoli 195 milioni di passeggeri (contro i 130 milioni italiani), solo 18 milioni dei quali ha utilizzato Iberia, o la sua low cost locale Iberia Express, ma Vueling da sola ha trasportato quasi 23 milioni di passeggeri, più di tutta la nostra Alitalia.
Insieme, Iberia e Vueling hanno raccolto quasi 41 milioni di passeggeri, poco meno del doppio di Alitalia, con una quota di mercato complessiva del 21%, superiore a quel 17% raggiunto da Alitalia sul mercato italiano. In questo 21% predomina tuttavia la parte low cost, dato che Vueling e Iberia Express hanno assieme il 14%, mentre Iberia solo il 7%.
«La cosa piuÌ€ importante di tutte e senz’altro quella di maggior interesse per Alitalia eÌ€ che questi vettori hanno bilanci in utile e dimostrano come si possa guadagnare sia come low cost, sia come vettori tradizionali, purché posizionati sul segmento giusto del mercato», sottolinea Arrigo. Quindi una speranza c’è?
«Sì, a patto che si trovino partner di capitali seri, ma per carità : basta Capitani coraggiosi…», chiosa il Professore.

(da “Business Insider”)

This entry was posted on lunedì, Novembre 27th, 2017 at 12:11 and is filed under Alitalia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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