APPROVATO IL JOBS ACT CON 2 SOLI VOTI DI SCARTO: IL PD SCEGLIE I POTERI FORTI
303 ABBANDONANO L’AULA CONTRO IL JOBS ACT, 6 NO E 5 ASTENUTI: TOTALE 314… LA PATACCA DI RENZI RACCOGLIE APPENA 316 SI’
L’aula della Camera ha approvato il ddl di delega al governo sul Jobs act.
I sì sono stati 316, i no 6 e gli astenuti 5. Sono 303 i deputati che sono usciti dall’Aula per protesta.
A favore hanno votato Pd, Ncd, Per l’Italia e Scelta Civica.
Hanno annunciato in aula il loro voto contrario M5S, Forza Italia, Sel e Lega che poi, però, hanno abbandonato l’aula. No anche da Fdi-An.
Il provvedimento, dopo le modifiche di Montecitorio, torna al Senato per il via libera definitivo.
La decisione, per la minoranza Pd, è stata un parto. Ma alla fine, dopo un lungo travaglio, è stato deciso di dare un segnale di dissenso.
La notizia è che la decisione viene presa collettivamente. Anche se si materializza con modalità diverse.
Per intendersi: Pippo Civati e altri deputati della sua cerchia decidono di votare no alla legge delega sul lavoro che oggi sarà licenziata dall’aula della Camera; altri 30 deputati della minoranza Pd invece lasciano l’aula al momento del voto.
Tra loro ci sono Stefano Fassina, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre, Gianni Cuperlo il quale si occupa anche di stilare un documento comune di tutti, anche per Civati, da presentare al premier.
Nel testo si difende il lavoro della Commissione presieduta da Cesare Damiano, che la scorsa settimana ha siglato un accordo con il segretario Pd proprio sul Jobs Act, “ma in sostanza diciamo anche che quella mediazione è arrivata su una base di riforma troppo regressiva”, spiega il bersaniano Zoggia.
La mediazione di Damiano permette ai due ex segretari Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani di votare a favore del Jobs Act.
Ma i 30 più Civati e i suoi alla fine decidono di staccarsi: non dal partito, ovvio, ma semplicemente dall’indicazione di voto del capogruppo Roberto Speranza.
Fin qui i tecnicismi. Ma questa storia è fatta di travaglio, di ansie, di risvolti psicologici che hanno tenuto banco per una giornata intera nei colloqui interni della minoranza, tra i banchi in aula, nelle telefonate con i referenti nelle regioni.
A pranzo una riunione comune di tutte le aeree ha sfiorato la rottura: tra chi insisteva sulla necessità del voto contrario come Civati e chi spingeva per una modalità più soft come l’abbandono dell’aula al momento del voto.
Qui alla Camera nessuno nasconde che la nuova agitazione della minoranza Dem si è scatenata maggiormente per il risultato delle regionali, per quel crollo dell’affluenza alle urne che ha cambiato i connotati politici di una regione come l’Emilia Romagna, da sempre fortino di voti Pci e Pd.
E dunque, mentre a metà della settimana scorsa la mediazione di Damiano era stata accolta come una strada possibile (tranne che per Civati o per singoli come Cuperlo e Fassina), adesso più di 30 Dem non vi si riconoscono. Dunque, la sommossa.
Tutto inizia già in mattinata, quando Fassina, Cuperlo e Civati partecipano ad una riunione con una cinquantina di delegati della Fiom Lombardia ospitati da Sinistra e Libertà alla Camera.
Ed è stato subito ‘dramma’. Perchè, raccontano a Montecitorio, da una parte c’erano gli operai convinti di trovarsi di fronte a deputati decisi a votare no al Jobs Act. Dall’altra, c’era il travaglio e il ventaglio delle scelte.
Gli operai ora sono in tribuna, in aula, per assistere al voto sulla riforma che li ha già portati in piazza per lo sciopero di categoria e che li riporterà a manifestare il 12 dicembre per lo sciopero generale indetto dalla Cgil e dalla Uil.
In Transatlantico Civati è furente con gli altri della minoranza: “Io non posso non votare no e gliel’ho detto…”.
Ma poi arriva Zoggia a dargli la notizia: “Abbiamo deciso, tutti e trenta si esce dall’aula…”. Sollievo.
Cuperlo stende il documento per tutti, per i contrari e per chi esce dall’aula.
Il pericolo più grosso è stato scampato: cioè quello di dividersi in tante forme di protesta, tra voto contrario, astensione, non partecipazione al voto.
Un rischio grande che li avrebbe esposti a sicura derisione da parte dei renziani.
I quali per ora assistono senza battere ciglio. “Se vogliono, possono uscire dal partito”, ti dicono in Transatlantico escludendo ipotesi di provvedimenti disciplinari da parte di Renzi, “significherebbe costruire martiri e non è il caso…”.
Se ne discuterà alla direzione del Pd il primo dicembre. Ma “certo — aggiungono i parlamentari renziani riferendosi alla minoranza — stanno agendo come se fossero un altro partito, ormai fanno iniziative con Sel e ora anche la protesta al momento del voto…”. Se ne parlerà , di certo.
(da “Huffingtonpost”)
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