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ARGENTINA, VINCE LA MOTOSEGA, CON MILEI TRIONFA LA PEGGIORE DESTRA

DARA’ IL COLPO DI GRAZIA ALL’ECONOMIA ARGENTINA

Ha vinto la motosega. Ed apparentemente non c’è stata partita. Javier Gerardo Milei, il “Trump de las Pampas”, il pittoresco e scarmigliato castigamatti della “casta”, ha battuto Sergio Massa, ministro dell’Economia ed ultima, melliflua versione di quella sorta di “eternità argentina” che si chiama peronismo, per un sonoro 56 a 44, molto al di là dei pronostici che – in un’ennesima debacle per la sempre meno esatta scienza del sondaggismo – avevano profetizzato una battaglia all’ultimo voto. Domenica sera, quando Sergio Massa s’è rivolto al paese riconoscendo la propria sconfitta, non erano trascorse che due ore dalla chiusura dei seggi. Ed era bastata una mezzoretta per capire in quale inequivocabile ed irreversibile direzione stessero andando le cose. Milei stava vincendo ovunque. Solo nella capitale, Buenos Aires, Massa stava in qualche modo resistendo – sia pur con un risicatissimo vantaggio – a fronte d’una inequivocabile ondata di ripudio. In tutta la, chiamiamola così, “Argentina profonda”, avanzava, visibilissima, una totale debacle. Particolarmente dura quella subita a Córdoba, in tempi non lontani bastione peronista, dove Milei ha infine vinto con il 75 per cento dei voti.
Ha vinto alla grande, Milei. Ha vinto – e forse non poteva esser altrimenti – la rabbia del ‘que se vayan todos”, in quella che, mutatis mutandis, sembra una mitigata replica del dramma che, nel dicembre del 2001, aveva visto la fuga in elicottero di Fernando de la Rua, presidente radicale eletto due anni prima, dai tetti di una Casa Rosada circondata da folle inferocite. Ha vinto – ed ha vinto democraticamente, come lo stesso Massa ha cavallerescamente sottolineato esaltando, nella sconfitta, “la solidità e la trasparenza della democrazia argentina a quarant’anni dalla sua rinascita dopo la notte dell’ultima dittatura militare” – il “rompitutto” giunto dal nulla. O, meglio, lo stravagante “giustiziere” a colpi d’insulti e sceneggiate risalito, come una sorta di mostro di Loch Ness, dalle abissali e tragicomiche profondità dei peggiori talk show televisivi. Ed ha vinto anche – paradossalmente, ma non più di tanto – lo scolaretto spaurito e pasticcione, spaesato, nervoso e palesemente impreparato che, appena una settimana fa, l’oggi perdente Sergio Massa aveva portato a spasso, come un cagnolino al guinzaglio, nell’ultimo dibattito televisivo prima del voto.
Gli analisti politici più accorti l’avevano pronosticato. La patetica esibizione televisiva del “leone” Milei, il suo farsi pecora di fronte a Massa, avrebbe potuto diventare – come di fatto è diventato nel ribollente clima di un’Argentina devastata da un’economia allo sbando e da un’inflazione che sfiora il 150 per cento – un punto a suo favore. O, se si preferisce, un’ulteriore testimonianza dell’arroganza di quella “casta” che è oggi l’emblema d’ogni male passato, presente e futuro. Sergio Massa non aveva soltanto vinto quel dibattito, l’aveva stravinto, umiliando l’avversario. Ed umiliandolo lo aveva beatificato, martirizzandolo. O, fuori da ogni religiosa metafora, l’aveva aiutato rafforzando la sua immagine di salvifico “outsider”, offrendo all’elettorato una ragione di più per punire, votando il suo rivale, la strafottenza di chi oggi comanda.
Ancor più probabile, tuttavia, è che quel dibattito non abbia, in realtà, cambiato nulla in un’Argentina che già aveva, sostanzialmente e da tempo, emesso il suo verdetto. Massa poteva, a quel punto, vincere, stravincere o perdere rovinosamente. Ma per l’argentino “de la calle” era e restava quello che era: il ministro dell’Economia d’un governo che, per ovvie e validissime ragioni, veniva ritenuto responsabile del quotidiano disastro vissuto di fronte alle casse dei supermercati, al momento del pieno di benzina nelle stazioni di servizio, o all’ora di pagare l’affitto a fine mese. O, peggio, all’ora di non pagarlo nella prospettiva d’un imminente sfratto per insolvenza.
La domanda ora è: quale dei due Javier Milei, entrerà, tra un mese, nella Casa Rosada? Quello della motosega o quello, annichilito e timido, che ha fatto da impotente sparring partner a Sergio Massa nell’ultimo dibattito televisivo? Il vero problema è che, nell’uno o nell’altro caso, difficile è immaginare, nell’immediato (e anche non tanto immediato) futuro dell’Argentina qualcosa che appaia, per il Paese e per il nuovo presidente, più allettante d’un disastro.
Dovesse Milei attuare – cosa improbabile considerato che il suo partito, La Libertad Avanza, è in netta minoranza nel Congresso – tutte le drastiche (e in alcuni casi decisamente demenziali) cose da lui promesse agitando la “motosierra”, provocherebbe una sorta di economica apocalisse, come ricordato giorni fa da un documento sottoscritto da un centinaio di eminenti economisti. E, cosa ancor più importante, come testimoniato dall’allarme con il quale il mercato – vero caposaldo del culto liberista che Milei professa con toni da ayatollah – ha fin qui reagito di fronte alla sua avanzata (piaccia o no Sergio Massa è, a dispetto del deplorevole stato dell’economia argentina, considerato un fattore d’equilibrio dalla finanza internazionale).
E non molto meglio andrebbero le cose, dovesse il “vero” Milei risultare, alla prova della “vera” politica, lo scolaretto impreparato e timido che una settimana fa ha fatto, sugli altari del dibattito in tv, la figura dell’agnellino sacrificale. Dopo la prima tornata elettorale dello scorso ottobre, sul carro che ha portato Milei alla vittoria sono saliti – con ruoli che si presumono determinanti – personaggi che l’uomo della motosega aveva in passato classificato come tra i peggiori rappresentanti della “casta”. Vale a dire: l’ex presidente Mauricio Macri (da Milei a suo tempo definito “un delinquente massimo corresponsabile del disastro economico”), l’ex ministro della Sicurezza e candidata alla presidenza Patricia Bullrich (che Milei ha a suo tempo definito, rammentando il di lei passato di montonera, “un’assassina che metteva bombe negli asili infantili”) e, con loro, tutto l’apparato di Juntos por el Cambio (per l’appunto, il partito di Macri e della destra tradizionale).
Un carico pesante. Tanto pesante che non pochi – tra i sunnominati analisti politici più accorti – sono coloro convinti che, alla fine, il “delinquente” e l’ “assassina” finiranno per fare col Milei presidente, quello che, durante dibattito in tv, Sergio Massa ha fatto col Milei candidato. Ovvero: che lo porteranno al guinzaglio – lui l’indomabile e capelluto leone, lui il furente ma impreparato “rompitutto” – lungo i crinali di “normali” politiche economiche destinate, come già accadde nei quattro anni della presidenza Macri, a tradire ogni attesa, specie quelle, sproporzionate e messianiche, sollevate dal Milei in versione motosierra. Il tutto in attesa d’una ennesima rivincita peronista tra quattro anni.
Ieri notte, nel suo discorso della vittoria, Javier Gerardo Milei s’è fermato, per così dire, nella terra di nessuno che separa le due rappresentazioni di sé stesso. Lo ha fatto pomposamente riproponendo la natura “storica” della sua vittoria – “oggi comincia la ricostruzione dell’Argentina…”, “…oggi finisce l’età della decadenza e comincia una nuova era…” – ed invocando, come ogni demagogo e populista di destra che si rispetti, un mitico passato di gloria. Quello d’una Argentina che fu “potenza mondiale” e che tale, sotto il suo comando, tornerà ad essere. Ma lo ha fatto anche – inevitabilmente ricordando lo scolaretto umiliato da Massa – leggendo con toni inusualmente contenuti l’intero discorso, solo alla fine concedendosi al suo tradizionale e esaltato “Viva la Libertà, carajo!”.
Si vedrà. Di certo c’è che la vittoria di Milei è, sul piano internazionale, un indiscutibile trionfo della peggior destra. Quella dei Bolsonaro in Brasile e dei Kast in Cile. Quella di Trump. Quella di Vox in Spagna. Quella che in Brasile, come in Cile, come in Spagna, come in Italia, emette, ad ogni gesto e ad ogni parola, un inequivocabile tanfo di rivincita. La “Libertad” alla quale – con tanto di “carajo!” – va inneggiando Milei non è infatti soltanto quella, liberista e da tempo squalificata, della “impresa privata”. È anche – soprattutto per molti versi – quella di chi nega che in Argentina vi sia mai stata una dittatura militare. Solo due giorni fa, la vicepresidente prescelta da Milei, Victtoria Villaruel, ha reclamato lo smantellamento del Museo della Memoria allestita all’Esma in quello che fu il maggior centro di tortura della dittatura. E solo qualche giorno prima aveva difeso la sghignazzante battuta con la quale uno dei militari del tempo aveva orgogliosamente ricordato, ammiccando, come nel portabagagli della Ford Falcón (l’auto preferita dagli sgherri della Junta) entrassero, sia pur un po’ ‘apretadas”, ammucchiate, ben sette persone. Sette di quegli esseri umani che la dittatura arrestava, torturava e poi faceva sparire gettandone, dagli aerei dei “voli della morte”, i corpi nelle acque del Rio de la Plata.
Vale la pena ripeterlo. Come andrà a finire non si sa. Ma di certo non finirà bene.
(da Il Fatto Quotidiano)

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