BREXIT, UN QUARTO DEGLI ARRIVI IN GRAN BRETAGNA SONO GIOVANI ITALIANI
COSA CAMBIERA’ PER GLI OLTRE 200.000 CONNAZIONALI CHE LAVORANO LUNGO IL TAMIGI?
Cosa cambierà per chi lavora o punta a lavorare negl Regno Unito, con Brexit? E quanti italiani coinvolge la minaccia di un divorzio traumatico tra Gran Bretagna e Unione europea?
L’Italia è uno dei Paesi che hanno contribuito in modo significativo all’aumento dell’immigrazione comunitaria nel Regno Unito. Un ruolo accresciuto negli ultimi anni: la quota degli ingressi di italiani rispetto ai 15 paesi comunitari originari, è passata dal 15% del 2008 al 25% del 2015.
Nel 2012 gli italiani iscritti all’Aire residenti in Paesi europei erano 2.365.170.
Di questi, coloro che risiedevano nel Regno Unito al 31 dicembre 2012 erano 210.690 persone (8,9%), in maggioranza maschi (55,1%).
Gli effetti della Brexit sui lavoratori sono stati oggetto di una approfondita indagine dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro.
Che ha evidenziato anche come il fenomeno della migrazione economica degli italiani sia sempre più scivolata verso le fasce più giovani: se nel primo decennio del secolo emigravano italiani adulti con un’età compresa fra i 25 e i 34 anni, dal 2012 si registra il sorpasso della classe di età più giovane, fino a 24 anni, che anticipa i tempi di migrazioni rispetto alla generazione precedente.
“Molto significativo anche l’incremento nell’ultimo periodo degli over 35 che migrano per ricostruirsi un futuro dopo aver tentato nel paese di origine”, annotano gli esperti.
Nel complesso, nel 2015 vi erano 7,8 milioni di lavoratori comunitari (a 28 stati) che lavoravano in uno Stato europeo diverso da quello di origine.
In Germania sono presenti il maggior numero di occupati comunitari pari a oltre 2,068 milioni di persone. Al secondo posto, con 1,985 milioni di persone troviamo il Regno Unito. Al terzo posto troviamo la Svizzera come paese ospitante di lavoratori comunitari (832 mila circa), seguito dall’Italia con 780 mila lavoratori circa.
Mentre nel 1995 lavoravano nel Regno Unito poco più di 400 mila persone comunitarie, nel 2015 il loro numero è più che quintuplicato raggiungendo la quota di circa 2 milioni.
L’impulso maggiore è stato determinato dall’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Est. Infatti, il numero di cittadini dei nuovi paesi membri hanno portato la quota di occupati stranieri dal 5% al 10% del totale degli occupati britannici.
Per analizzare l’immigrazione per cittadinanza nel Regno Unito, lo studio usa il “codice identificativo obbligatorio” NINo, che permette di pagare le tasse e lavorare con contratti in regola, avendo gli stessi diritti di un cittadino britannico.
Con questo, richiesto al Job Centre, il cittadino comunitario in Gran Bretagna può stipulare contratti, partecipare a selezioni o essere inserito in tirocini.
Dal punto di vista della statistica, si tratta quindi di dati di flusso e non tengono conto delle uscite
L’Osservatorio dei Consulenti del Lavoro mette in luce alcuni aspetti rilevanti nella dinamica degli ingressi nel Regno Unito per lavoro.
“In primo luogo, la politica di allargamento degli Stati comunitari ha coinciso con elevati incrementi di ingressi dei cittadini neo-europei”, emerge dallo studio.
Ciò è evidente per i paesi entranti il 1° maggio 2004 che ha portato il numero di ingressi dai 106 mila del 2003 ai 336 mila del 2005. I soli cittadini polacchi hanno fatto registrare dal 2005 al 2013 una media annua di ingressi pari a 130 mila persone, occupando il primo posto per numero di immigrati da paesi europei nello stesso periodo di tempo.
Con l’allargamento del gennaio 2013, si registra un nuovo shock di ingressi determinato principalmente dai romeni che hanno fatto registrare 145.575 nel 2014 e 169.888 ingressi nel 2015, diventando la prima cittadinanza Ue di immigrati economici nel Regno Unito.
Nel complesso il 2015 ha fatto registrare il superamento del limite di 600 mila ingressi annui di cittadini comunitari, pari a oltre sei volte i volumi del 2003.
Ora, però, Brexit pone questioni che non riguardano solo la riduzione della mobilità . Le nuove relazioni che ne deriveranno saranno un colpo “anche a tutti quegli obblighi di mantenimento dei livelli minimi di tutela, ormai diffusi nel mercato europeo e a cui si devono uniformare anche gli Stati non europei.
Le riflessioni si devono estendere, altresì, alla parità di trattamento retributivo e sociale, al sistema di protezione sociale del lavoro somministrato e più in generale a tutti i livelli di tutela che di regola tendono ad evitare il dumping sociale. Effetti a cascata anche su materie di assoluta importanza quali la sicurezza sul lavoro e la protezione della privacy”.
(da “La Repubblica”)
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