CAOS PD, LA MINORANZA SI DIVIDE E ALLA FINE RESTANO SOLO IN QUATTRO
RENZI S’INALBERA PER IL DOCUMENTO CRITICO DEI BERSANIANI
Per ore sul filo rosso tra Palazzo Chigi e i renziani in Senato va in onda una sola preoccupazione: quella di superare la fatidica asticella della maggioranza assoluta, quei 161 voti che rappresentano la soglia politicamente sensibile per un governo che deve dimostrare di avere i numeri per andare avanti.
Politicamente ma non formalmente, perchè basta un voto in più dei presenti per superare la prova. E dunque il pressing sui dissidenti è forte, anzi fortissimo
Lo psicodramma del drappello di «civatiani», ridotto a quattro unità , si consuma in una saletta dietro l’aula del Senato.
«Il Pd fa la cosa più di destra della sua storia», aizza da lontano gli animi dei suoi Pippo Civati.
Alla fine di un lungo tormento, sotto minaccia di espulsione dal Pd fattagli pervenire dagli emissari del premier, lo strappo è inevitabile.
Walter Tocci va da Luigi Zanda per dirgli che voterà la fiducia e subito dopo si dimetterà da senatore. Una decisione sofferta che parte da lontano, dal totale disaccordo sulla riforma del Senato.
Gli altri tre, Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson, sono in ambascia fino all’ultimo, indecisi se seguire Tocci, più propensi però per uscire dall’aula senza votare no: consci di finire lo stesso sotto processo.
Perchè a chi in mattinata via sms aveva chiesto al premier se a suo avviso anche le uscite dall’aula dovessero comportare massime sanzioni disciplinari, Renzi aveva risposto di sì.
Casson è già autosospeso dal gruppo dopo il voto della giunta sull’uso delle intercettazioni a carico del senatore Ncd Azzolini: lui da relatore aveva dato parere favorevole, il Pd invece ha votato contro.
«La casta tutela uno della Casta e io sono incompatibile con questi signori, vorrei sapere chi ha dato l’ordine di votare così», attaccava ieri i vertici del partito.
Con Civati sulle barricate, Bersani da una parte, Cuperlo dall’altra con la sua microcorrente Sinistradem, il caos regna nella minoranza Pd.
Ma quando rimbalzano le immagini di una trentina di parlamentari di Bersani circondati dalle telecamere al Senato che scodellano due paginette di critiche sul jobs act Renzi si inalbera.
«Il giorno in cui ho il confronto con la Merkel questi danno l’immagine di un Pd diviso…», commenta con i suoi da Milano.
Ma la faccia soddisfatta del bersaniano Miguel Gotor è emblematica: sorrisone, «in un contesto in cui il premier-segretario esercita una doppia pressione su ognuno di noi è difficile tenere su una posizione così 27 persone», dice mentre stringe tra le mani il documento con in calce 35 firme, compresi gli otto deputati della corrente Area Riformista: che «si è ricompattata», sostiene Alfredo D’Attorre.
Il quale insieme a Davide Zoggia e Stefano Fassina, arriva dalla Camera per dare un segnale di unità di una corrente che si arrende a votare la fiducia al governo ma spera di poter ingaggiare un braccio di ferro a Montecitorio.
Ma se Renzi ha fatto ingoiare ai bersanian-dalemiani un testo che non riporta la mediazione sull’articolo 18 della Direzione Pd è pure merito della minoranza. Costretta a ricordare le conquiste su precari e poco altro nelle due paginette sbandierate ieri.
«E’ vero l’ho detto a Bersani che quell’annuncio anzitempo sulla lealtà alla ditta è stato un errore e questo testo sul jobs act è un’operazione di cosmesi», si indigna il duro Fassina.
Carlo Bertini
(da “La Stampa”)
Leave a Reply