CASO SANGIULIANO, LA MACCHIA DEI RICATTI
IL CUORE DELLA QUESTIONE E’ CHE TUTTI RICATTANO TUTTI
“Genny & Mary”, il tristanzuolo b-movie di questa folle estate italiana, è finito come doveva. Dopo un lungo e inutile supplizio etico, politico e mediatico, Gennaro Sangiuliano va a casa, com’era logico e giusto fin dall’inizio. Tra lo scorno e il disdoro, sommerso dalle mail e dalle chat, dalle ricevute degli hotel e dalle carte d’imbarco, con le quali l’ha sbugiardato la sua ex fidanzata Maria Rosaria Boccia.
Le sue «dimissioni irrevocabili» sono l’epilogo scontato di uno scandalo che andava aperto e chiuso in due ore, tanto ne erano chiare la portata e le implicazioni. E invece le disavventure sentimentali e ministeriali di questa strana coppia hanno paralizzato il Palazzo e incuriosito il Paese per due settimane, manco fosse il Sexgate di Bill Clinton e Monica Lewinsky.
Per giorni e giorni ci siamo chiesti come fosse tollerabile che un’avvenente e intraprendente influencer, ex venditrice di abiti da sposa, riuscisse a tenere sotto scacco un ministro della Repubblica, smentendolo in tempo reale sui social e in tv. Soprattutto, ci siamo domandati come fosse possibile che Giorgia Meloni non riuscisse a obbligarlo a fare l’unica cosa sensata, cioè sloggiare dal dicastero della Cultura, qui ed ora, e lo pregasse addirittura di restare al suo posto.
Man mano che si sono fatti più chiari i contorni di questa Temptation Island all’acqua pazza, abbiamo avuto finalmente la risposta. C’è una ragione, se per cacciarlo è servito un penoso stillicidio di accuse e controaccuse tra lui e lei, sui contratti di consulenza firmati e poi strappati, su chi pagava i viaggi e chi partecipava alle riunioni, sulle telefonate registrate e le foto taggate.
C’è una ragione, se l’ex ministro si è esposto a un indegno passaggio negli studi di TeleMeloni, per una pseudo-intervista annaffiata dalle sue lacrime di coccodrillo e officiata dal direttore del Cinegiornale della rete ammiraglia, capace di svilire il Tg1 in C’è posta per te e di scivolare in un attimo da Maria Rosaria a Maria De Filippi. C’è una ragione se ha cercato di resistere finché ha potuto, anche di fronte alla tambureggiante e devastante controffensiva di Boccia sui giornali e sulle tv.
La verità è che quella a cui abbiamo assistito è molto più che una telenovela boccaccesca, a metà strada tra la sceneggiata napoletana e la farsa da Bagaglino. Intanto, se non ha compromesso la sicurezza nazionale, ha sicuramente umiliato la decenza istituzionale. E poi la tresca privata nasconde una sconcezza pubblica.
Tutti ricattano tutti: è questo il cuore della questione, che è sfuggito e sfugge da giorni all’ormai ex ministro, alla destra che lo ha difeso troppo e alla premier che non lo ha licenziato subito. La “ricattabilità”, che ormai mascariava non solo il “Bombolo del Golfo”, ma zavorrava anche l’intero governo e in definitiva l’intero Paese, caduto in ostaggio di un ménage amoroso dietro al quale si cela un potere limaccioso.
Al di là di quello che scrive Sangiuliano nel suo dolente commiato, e a prescindere da quello che ancora dirà Boccia sul web o nei talk, le domande senza risposta restano tutte sul tavolo. Riguardano da un lato la lealtà dei servitori dello Stato e la credibilità delle istituzioni. Dall’altro lato la qualità della classe dirigente e il buon funzionamento dei gangli vitali della Res Publica. O ministro ‘nnammurato appartiene già al passato, ma i danni collaterali del suo impeachment con la “non-consulente” rimangono tutti, anche senza di lui.
Chi è davvero Maria Rosaria Boccia, capace di stazionare al ministero per mesi, di partecipare alle riunioni e di circolare alla Camera con gli occhiali-webcam? Chi e perché ha fatto entrare al ministero una persona senza titoli, anche prima che l’ex ministro se ne invaghisse? Ha scaricato con un Qr-code la cronologia dei messaggi whatsapp dell’ex ministro? Possiede file pieni di confidenze indirette e conversazioni dirette di Sangiuliano, su e con personalità del governo?
Se tutto questo è vero, la macchina dei ricatti è sempre lì, in garage, pronta a partire in ogni momento. E potrebbe investire chiunque, dalla Sorella d’Italia in giù. Non solo. C’è un altro gigantesco elefante nella stanza, che sopravvive alla scomparsa politica di Sangiuliano.
Esistono davvero “alcune persone” che ricattavano il ministro “per delle agevolazioni che hanno avuto”, come ha rivelato ancora l’amante sedotta e abbandonata, con uno dei suoi “pizzini” più inquietanti? E se esistono, chi sono e cosa vogliono? Ma soprattutto, hanno qualcosa a che fare con la rilevante partita delle nomine interne ed esterne in ballo al ministero della Cultura?
C’è qualche nesso tra questo vaudeville sotto il Vesuvio e la nomina di Fabio Tagliaferri ai vertici dell’Ales, società in house per la gestione dei biglietti dei musei? Non stiamo parlando di un top manager, ma dell’ex assessore di Fratelli d’Italia a Frosinone, noto per l’amicizia con la sorella della presidente del Consiglio, per la quale si getta nel fuoco social con sobri messaggi come “onestà, trasparenza, coerenza, serietà e umiltà hanno un nome e un cognome: Arianna Meloni”. Ammirazione ben ripagata: ma a che prezzo?
Tutto questo non c’entra nulla con il «gossip», la foglia di fico dietro alla quale si riparano sempre i patrioti al comando e dietro alla quale si è protetta anche Meloni, nel delicato passaggio armocromistico dal blu estoril di Giambruno al rosso pompeiano di Sangiuliano. I tormenti affettivi riguardano solo le famiglie coinvolte (a proposito, se n’è sfasciata un’altra, nella destra dove dio è già morto e anche la Patria non si sente molto bene).
Il tema fondamentale non è quello che è successo tra le lenzuola di un resort di Polignano, ma quello che accade nel dicastero del Collegio Romano. E poi in tutti gli altri ministeri, negli organi di garanzia, nelle società controllate dal Tesoro.
Il nodo strutturale da sciogliere è il metodo di governo che le due Sorelle d’Italia adottano, per spartire poltrone e distribuire prebende. È l’altra faccia della ricattabilità, che fa a pugni con la dignità ma è strettamente collegata alla fedeltà.
Lo spoil system non è una pratica nuova, ma questo amichettismo settario e questo familismo amorale sono davvero la cifra di questa destra affamata e spregiudicata, che in questi due anni ha declinato così — al di fuori da ogni criterio di competenza e di merito — la sua nuova «egemonia culturale». Imposta al sistema con pure logiche di appartenenza clanica, quasi tribale.
Altro che Tolkien e la Compagnia dell’Anello, Prezzolini e Scruton: solo occupazione militare dei consigli di amministrazione e dei vertici Rai. Sangiuliano, ministro dadaista dell’Ignoranza, cade anche per questo, oltre che per le gaffe su Times Square a Londra e Dante poeta della destra tricolore, i viaggi di Cristoforo Colombo e Maria Rosaria Boccia nipote di Galileo Galilei.
Non lo rimpiangeremo (anche se rendiamo l’onore delle armi a lui e tutta la solidarietà possibile a sua moglie, vera parte lesa di questa brutta vicenda). E facciamo i migliori auguri ad Alessandro Giuli che gli succede. Ma le macerie fumanti della sua mesta uscita di scena restano tutte lì, davanti a Palazzo Chigi.
Un governo di mediocri non prende il volo, solo perché arriva un intellettuale cresciuto al Gianicolo e non a Colle Oppio, che scrive saggi sulla destra moderna che dovrebbe ripartire da Gramsci.
Resterebbe urgente un cambio di squadra, perché quella che c’è è indecente e inconcludente. I rimpasti veri li fa l’alleato Zelensky a Kiev. Meloni a Roma non se li può permettere. E non per la solita sindrome vittimista-complottista, che le fa dire «non mi faccio imporre i ministri da Dagospia e dai giornali di sinistra». Il suo problema è un altro.
Sostituire Fitto, congedare le Santanchè e i Delmastro, i Lollobrigida e i Nordio, sarebbe troppo rischioso, per una premier che rivendica la sua «stabilità» e che a quel punto Mattarella rimanderebbe in Parlamento per un nuovo voto di fiducia. Ed è troppo indecoroso, per una Underdog che pensa davvero di «fare la Storia», e non ha capito che invece sta scivolando nell’avanspettacolo.
(da La Repubblica)
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