CON I SOPRAVVISSUTI DI CHARLIE: “BASTA LACRIME, TERREMO DURO”
TRA PUGNI ALZATI E LA MARSIGLIESE
«Grazie , non mi serve alcuna protezione. Torno a casa con il metrò». Quando ormai è sera, e il sole sta tramontando in Place de la Nation, il giornalista di Charlie Hebdo Antonio Fischetti fatica ad abbandonare l’abbraccio della folla, ma vuole tornare alla normalità , e perciò rifiuta la proposta di essere scortato del servizio d’ordine della manifestazione.
«Non ce l’aspettavamo, non così almeno», spiega il giornalista che ha genitori di Napoli, un rital, figlio di immigrati italiani pure lui come il fondatore della rivista, Franà§ois Cavanna, morto l’anno scorso.
Il disegnatore Renald Luzier, in arte Luz, dà una carezza di conforto a Patrick Pelloux, il medico che collabora con Charlie.
«Volevamo fare qualche vignetta, uno striscione – spiega Luz – poi non ce l’abbiamo fatta». «Dà i, basta piangere, torniamo a casa», chiosa Julien Berjeaut, Jul, che saluta tutti mentre la piazza ancora grida «Tenez bon», tenete duro.
Fino a qualche giorno fa lavoravano in una redazione di poche stanze, quasi clandestini, e ora si ritrovano davanti a una cinquantina di capi di Stato e di governo a cui danno le spalle.
Hollande, Merkel, Renzi, Cameron e gli altri sono pregati di mettersi in seconda fila. Un protocollo inedito, ma era la condizione pretesa dai superstiti del settimanale che ha passato quarant’anni a beffarsi dei politici e dei potenti in generale.
«Lo spirito di Charlie si riconosce da questi particolari», racconta Thierry, amico di Charb, il direttore del settimanale ucciso
Una piccola famiglia, ormai sono meno di dieci.
Avanzano senza parlare, bastano gli sguardi a raccogliere il senso di questa giornata che non ha precedenti nella storia francese. «Merci», «Merci», ripetono.
Per la prima volta nella loro vita sono sobri, senza slogan. Solo una fascia in fronte con la scritta Charlie.
Una giornalista cammina con il pugno alzato, un altro fa ciao ai balconi che esibiscono bandiere tricolori.
Quel che resta di Charlie Hebdo arriva in Boulevard Voltaire alle quindici, insieme ai parenti delle vittime. Un’ora prima la Prefettura ha già capito che la marcia non potrà mai partire da place de la Rèpublique.
La testa del corteo si compone dopo l’incrocio con la rue du Chemin Vert. Le vie laterali sono chiuse. S’intravede la folla oltre le transenne.
Tutti aspettano in un grande silenzio di rispetto. Improvvisamente i cellulari diventano muti, gli elicotteri volano in cielo.
I pullman neri partiti dall’Eliseo fanno scendere i capi di Stato e di governo. Vengono fatti accomodare in una zona cuscinetto in cui non ci sono manifestanti.
Attimi di incertezza. «Partiamo? Che dobbiamo fare?» si spazientisce un dirigente del servizio d’ordine.
I due tronconi finalmente avanzano. Marciano insieme per pochi minuti. Quattrocento metri in tutto, fino in place Lèon Blum. I cecchini sono sui tetti. Ancora il silenzio. Solo applausi. Lungo il breve percorso dove camminano Hollande, Merkel e Renzi c’è un mosaico di disegni preparati da una scuola del quartiere dopo le stragi.
Uomini e donna che si tengono per mano, proprio come hanno fatto i capi di Stato e di governo. Una pistola nel sangue. Un cielo con l’alba.
Hollande rompe le righe, lascia andar via le delegazioni, e viene a salutare la redazione.
Il capo dello Stato dà una carezza a Luz, abbraccia Pelloux che mercoledì scorso l’ha avvertito per primo della strage. Si erano incontrati all’Eliseo l’estate scorsa. I conti di Charlie Hebdo erano in rosso e il Presidente aveva promesso di sbloccare fondi per il settimanale. «Coraggio», dice Hollande.
Tra gli invitati della delegazione ufficiale ci sono anche il premier ungherese Viktor Orbà¡n, il ministro russo Sergej Lavrov, non proprio campioni di libertà d’espressione. Nella redazione serpeggia qualche perplessità .
«Non importa», risponde Pelloux. «L’importante ora è chiedersi perchè? Perchè dei ragazzi francesi, cresciuti in questo paese hanno ucciso 17 persone in pochi giorni?»
La vera marcia comincia.
Molti famigliari di Charlie Hebdo non se la sentono di proseguire, chiedono di risalire sui pullman. La redazione avanza su Boulevard Voltaire circondata da un cordone di sicurezza oltre il quale i manifestanti premono per vederli, urlare messaggi di sostegno.
Un padre con dei bambini è salito sui cassonetti, dei ragazzi sono seduti sulla pensilina dell’autobus, altri si sono arrampicati sugli alberi.
Cantano la Marsigliese. «Je suis Charlie», «Je suis Clarissa», la vigilessa uccisa giovedì, «Je suis Michel », una delle vittime nel supermercato kosher. «Je suis Franck», il nome dell’agente della scorta del vignettista Charb. Un «je», io, che è diventato multiplo, nella cartesiana formula «Je pense, donc je suis», penso dunque sono.
Anche i nomi delle strade e delle piazze diventano simbolici: Rèpublique, Voltaire, Nation. Il breve corteo dei leader si ferma in place Lèon Blum, l’unico presidente francese ebreo.
Tra i giornalisti alla testa del corteo c’è anche il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, che parla con Manuel Valls. «Una risposta impressionante» commenta il premier. «È una giornata importante non solo per la Francia ma per il mondo. Spero che da oggi cambierà qualcosa per l’Europa ma so che da domani sarà tutto più difficile ».
Nella parte riservata alle autorità politiche e religiose – il rabbino capo di Parigi, il rettore della moschea, tre vescovi – c’è anche Lassana, l’impiegato malese e musulmano dell’Hyper Cacher che ha salvato degli ostaggi nascondendoli nelle celle frigorifere.
«Non sono un eroe» dice solo. Accanto a lui, la titolare del negozio è tesa, ferma un funzionario del ministero dell’Interno. «Noi domani (oggi, ndr) dobbiamo riaprire e non ci avete ancora garantito nessuna protezione».
«Faremo qualcosa, certo», risponde il dirigente, prima di aggiungere: «Dovete avere pazienza, è successo tutto in così poco tempo».
(da “La Repubblica“)
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