CON L’ADDIO DI LUPI, COMUNIONE E LIBERAZIONE PERDE L’ULTIMO MINISTERO
DALL’ACME POLITICO AL BARATRO: COSI’ SI DISPERDONO GLI ENFANTS TERRIBLES DI FORMIGONI
Agosto 2014. Matteo Renzi non c’è. Giri per i padiglioni della Fiera di Rimini, lo cerchi agli stand, alle mostre, agli incontri. Niente da fare.
Il premier aveva ricevuto qualche settimana prima una lettera d’invito dagli organizzatori del Meeting. La risposta? A mezzo stampa: “Non vado, altri impegni”.
La prima volta che un presidente del Consiglio diserta il crocevia estivo della politica italiana. Dopo Mario Monti, dopo Enrico Letta, dopo, ma non servirebbe nemmeno dirlo, Silvio Berlusconi, Palazzo Chigi non traslocherà per un giorno in riviera.
Se ti giri e ti guardi bene intorno Maurizio Lupi lo incroci. Sorrisi, pacche sulla spalla, strette di mani.
È un vero padrone di casa. Un ospite afono però. Per la prima volta da anni, tanti che nemmeno val la pena contarli, non salirà sul palco.
Nessuno nell’area allestimenti è alacremente al lavoro per stampare sul tegolino in blu le lettere “M. Lupi”.
“Nel programma non c’erano incontri sulle Infrastrutture – spiegava l’organizzazione – abbiamo deciso di comune accordo così”.
A rileggere i fatti sette mesi dopo, l’aura di premonizione che sprigionano da ogni virgola è impressionante.
Da qualche ora Lupi non è più ministro. Ha lasciato, come lui giustamente sottolinea “72 ore e non 72 giorni dopo” lo scoppio dello scandalo.
Fa parte del suo pedigree, di uomo idealista ma insieme pragmatico, quel mix da “terrone del nord” come spesso ama definirsi.
È l’ultimo tassello di una mosaico trentennale che, una volta completato, restituisce un’immagine complessiva alla quale nessuno in partenza avrebbe dato credito.
Il mosaico che racconta la storia degli enfant terribles di Comunione e Liberazione in politica.
Per non risalire alla preistoria dei tempi della Democrazia Cristiana (i libri di Massimo Camisasca sono utilissimi per chi volesse a ricostruire quel periodo), il percorso dei ciellini nella Seconda Repubblica è quantomeno singolare.
Una vita dedicata al berlusconismo, una scelta di campo spesso difesa con “forse non ci aiuta, ma è l’unico che non ci avversa”, l’acme del potere lo hanno toccato quando l’ex Cavaliere è sostanzialmente uscito di scena.
E per di più quando l’aura del padre putativo di una generazione di fenomeni, Roberto Formigoni, aveva raggiunto il suo raggio minimo d’influenza.
Per vent’anni gli uomini di Cl sono rimasti fuori dalla stanza dei bottoni. Lupi ci era andato vicinissimo nel 2008.
Aveva ingaggiato un formidabile braccio di ferro con gli altri colonnelli del Pdl, il suo sembrava il nome perfetto per la casella della Salute, in quello che sarebbe stata una filiera perfetta con il comparto che era il fiore all’occhiello del Pirellone formigoniano. Alla fine desistette.
Qualcuno racconta che lo fece dopo essersi confrontato con Julian Carron, la guida ecclesiale di Cl dopo la scomparsa di don Luigi Giussani, e virò verso la vicepresidenza della Camera. Quattro anni dopo, è Mario Monti a chiamare la prima esponente di Cl al governo.
Una nomina secondaria, che in pochi ricordano. Ma il ruolo di Elena Ugolini, tra i responsabili scuola del Movimento, quale sottosegretario all’Istruzione segnò il primo passo di una strada di lì a poco trionfale.
Meno di due anni dopo, ben due di quei ragazzi cresciuti a pane, esercizi spirituali e politica, avrebbero fatto il loro ingresso dal portone principale del Consiglio dei ministri.
Lupi e Mario Mauro, amico di tante battaglie esauritesi qualche mese prima con la svolta montiana dell’ex europarlamentare, erano entrambi stati chiamati da Enrico Letta nella sua squadra.
Berlusconi aveva sempre amato e odiato i ciellini, per la loro eccezionale capacità di fare rete e raccogliere consenso e per la loro eterodossia nell’approcciarsi alla fede laica nell’infallibilità del leader.
Gli stessi elementi che spinsero Letta, primus inter pares, a ritenerli perfetti per lo strano governo del dopo febbraio 2013.
La storia di Mauro finì con l’ascesa di Renzi, e sulla scorta di scelte politiche che lo videro condividere il destino funereo del rassemblement montiano.
Quella di Lupi – quella del Lupi ai vertici del cuore pulsante della democrazia – è finita per qualche manata di schizzi di fango sulla giacca.
Vittima del frullatore delle intercettazioni, che ha raccontato di un ministro al momento non indagato che esercitava il potere in modo troppo disinvolto. Sicuramente più disinvolto di quanto non predicasse morigeratamente in pubblico.
Tutt’altra storia rispetto a quella del Celeste, lui sì finito nel vortice delle inchieste della sanità lombarda. Indagini che hanno di fatto sancito la fine del suo impero su Milano e dintorni e che sono arrivate a sfiorare il Meeting e mezza filiera ciellino-imprenditoriale del nord.
E reso non rifiutabile ingoiare la pillola del cedere un’amministrazione applaudita per anni in modo trasversale ai rivali della Lega.
Con Formigoni finì nel tritacarne anche Antonio Simone, altro ragazzo terribile cresciuto negli anni del Movimento popolare, la palestra politica dei ragazzi di Cl. Guidata, ovviamente, da Formigoni stesso.
Una generazione che ha sfornato personalità notevoli: da Giancarlo Cesana, per anni numero due del Movimento, a Giorgio Vittadini e Antonio Intiglietta.
Questi ultimi tre, come d’altra parte Simone, i salotti romani non li hanno mai frequentati. Il primo si è dedicato alla vita del Movimento, oltre che alla carriera da medico, Intiglietta ha sfondato nel mondo dell’imprenditoria.
Vittadini, oggi vero dominus di Cl, ha scelto il profilo alto, quello da professore.
Un professore che si è inventato prima la Compagnia delle opere (ad intermittenza coinvolta a sua volta, da Bergamo alla Puglia, nelle indagini di qualche procura), quindi la Fondazione per la Sussidiarietà .
Formigoni nella capitale è arrivato da cavallo zoppo, presidente dimissionario di un impero sul quale sembrava non dovesse mai tramontare il sole, una credibilità tutta da ricostruire.
Quando, settimane prima dello strappo, andava dicendo per i corridoi del Senato che era pronto a lasciare Berlusconi e con lui altri trenta colleghi, in molti gli davano del visionario: “Un modo come un altro per strappare un titolo di giornale”.
Aveva ragione, non perchè si sia reinventato dominus di quello che sarebbe diventato il partito di Angelino Alfano, ma semplicemente per il suo eccezionale fiuto.
Lo stesso che aveva avuto nel 2006. Eletto senatore (di minoranza) da presidente lombardo in carica, giunse a Roma giusto il tempo per un paio di interviste.
Annusò l’aria, e decise di dimettersi per ritornare nelle sue dorate province del nord.
Uno strano contrappasso, quello che vuole Cl passare in due anni dal suo punto più alto nell’organigramma dello stato a un’irrilevanza che, guardando alla storia del Movimento, raramente l’aveva toccata.
Un contrappasso simile e opposto a quello che ha voluto che a toccare l’apice non sia stato colui che ha gettato le fondamenta di tutto.
Ma è pur vero che Lupi da quindici anni è l’uomo di Comunione e Liberazione in Parlamento. Eletto nel 2001, la sua scalata è stata a poco a poco irresistibile.
Complice una semplicità e una capacità comunicativa che spingeva Berlusconi a inviarlo quasi ogni giorno in televisione: “Basta i soliti tromboni, ci servono ragazzi capaci, come Lupi”, disse dopo uno dei prime-time d’esordio del suo deputato.
Agli amici racconta che prima di arrivare a Roma andò a parlare con Giussani. “Da dove comincio?”, chiese alla guida carismatica, il padre putativo di una vita.
“Inizia dal fare la scuola di comunità lì dove sei”. Così fece, aggregando un gruppettino di amici che settimanalmente, per quindici anni, si sono incontrati per condividere le proprie esperienze a partire da un testo del fondatore.
E così fece, dando vita a quell’Intergruppo per la Sussidiarietà che è arrivato a contare oltre 200 onorevoli, e dove ha coltivato quelle che oggi rivendica come “amicizie” (il vicepresidente dell’Intergruppo? Enrico Letta, of course).
Negli anni sono arrivati Renato Farina, Raffaello Vignali, successore di Vittadini alla guida della Cdo prima di optare per un posto in Parlamento, e Gabriele Toccafondi, avversario per un’elezione proprio di Renzi per la poltrona di Palazzo Vecchio, e oggi ultimo superstite al governo nel ruolo che fu della Ugolini.
Ma l’uomo del Movimento a Roma è sempre stato Lupi. Prima da ufficiale di collegamento, poi, sempre più, come frontman dei suoi.
La sua caduta, sia pur consumatasi con dignità inusuale per la classe politica, segna il punto più basso della storia politica degli uomini del Giuss.
Appena due anni dopo aver toccato quello più alto. Un punto dal quale difficilmente ci si potrà risollevare in un batter d’occhi.
Sempre che ce ne sia la volontà . Ma questa è un’altra storia.
(da “Huffingtonpost“)
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