COSA C’E’ NELLE NORME TARGATE NORDIO E PERCHE’ SONO UN COLPO DI SPUGNA A MOLTI PROCESSI
IN OTTO ARTICOLI I RISCHI DI AUMENTARE L’IMPUNITA’
Una legge salvacorrotti. Firmata Carlo Nordio. Che mette in subbuglio la magistratura italiana, seppure con qualche divisione al suo interno. Che produce soprattutto l’entusiasmo dei sindaci d’Italia d’ogni colore perché è stato abolito l’abuso d’ufficio. Che conferma la conflittualità permanente tra le toghe e il Guardasigilli, ex toga pure lui. Colpiti i giornalisti, il cane da guardia della democrazie, che perdono il diritto di raccontare le intercettazioni. E ora le opposizioni annunciano battaglia in Parlamento.
Abuso d’ufficio, l’abolizione cancella 3.623 condanne
L’odiato, dai sindaci d’ogni colore politico, abuso d’ufficio, grazie al Guardasigilli Carlo Nordio, non ci sarà più. Via l’articolo 323 del codice penale. Che fa parte dei delitti contro la Pubblica amministrazione. I magistrati più autorevoli d’Italia, dal procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo all’ex presidente dell’Anac Raffaele Cantone oggi procuratore a Perugia, nonché i capi delle più importanti procure come quello di Roma Franco Lo Voi, lo considerano un reato “spia” dal quale partire per scoprire altre possibili corruzioni.
Nordio non la pensa affatto così. E può vantare una personale vittoria, alla fine di una battaglia durata assai a lungo, cominciata nel palazzo della politica già otto anni fa quando all’allora ministro degli Affari regionali Enrico Costa mise in mano una relazione in cui dimostrava che l’abuso d’ufficio era un reato inutile. Costa è stato il paladino della cancellazione, tant’è che per primo in questa legislatura ha presentato la proposta di legge per sopprimerlo, e ora inneggia a Nordio.
Da ieri i sindaci d’Italia d’ogni colore, checché ne dica la sinistra, plaudono alla “morte” del reato più odiato dai pubblici amministratori. Perché ne sarebbero state vittime, pure con la loro famiglia, come dice a Repubblica il vice presidente dell’Anci Roberto Pella, forzista, da ben vent’anni sindaco di Valdengo, comune di 2.600 anime in provincia di Biella. Lui racconta che in queste ore arrivano da tutti gli amministratori valanghe di consensi, sono tutti entusiasti, hanno vinto la battaglia della loro vita. Si sentono finalmente liberi.
Ma lo sono effettivamente? Certo, una conquista l’hanno fatta, perché quando l’abuso d’ufficio sarà cancellato dal codice, come dice il giurista della Statale di Milano Gian Luigi Gatta, ben 3.623 condanne definitive presenti nel casellario giudiziale, emesse tra il 1997 e il 2022, evaporeranno. Anche se dall’Europa arriva la linea opposta, non solo l’abuso d’ufficio esiste in 22 paesi, ma Bruxelles sta per emanare una direttiva per renderlo obbligatorio in tutti Stati dell’Unione. L’Italia va in contro tendenza.
Cosa accadrà ai sindaci che firmano documenti e delibere con macchie di opacità? Finiranno lo stesso sotto le mani del giudice perché l’ampio catalogo dei reati anticorruzione consente di contestare ben altri delitti agli amministratori pubblici che con discrezionalità, nelle migliori intenzioni, e con dolo, nelle peggiori, commettono reati. Il loro prossimo obiettivo è già nelle mani di Nordio: cancellare la legge Severino che fa dimettere chi viene condannato in primo grado. Loro vogliono la condanna dopo la sentenza definitiva come i parlamentari. Sicuramente Nordio, da sostenitore del referendum radical leghista per abrogare la Severino, li accontenterà pure in questo.
Solo per fare qualche esempio, Beppe Grillo probabilmente non finirà mai a processo per i suoi rapporti con l’armatore Vincenzo Onorato. Luca Palamara, l’ex magistrato che ha patteggiato a un anno la sua pena, potrà invece chiedere che la sua condanna venga annullata: non esiste più il reato per come era stato configurato, nessuna pena. E ancora: tutti i politici, tutti quei pubblici ufficiali che in questi dieci anni – da quando la norma Severino l’ha introdotta – sono stati condannati e processati per “il traffico di influenze” è possibile che non lo saranno più. Perché, dicono i tecnici, così com’è scritta la nuova fattispecie della norma è praticamente inutile se non per colpire casi davvero limite, che non si verificano quasi mai.
Secondo alcuni il vero punto attorno a cui ruota la riforma Meloni della giustizia è proprio il nuovo “traffico di influenze” previsto dalla legge: “È l’obiettivo vero – si spinge a dire uno dei più importanti magistrati italiani – perché il resto è quasi contorno: si strizza l’occhio ai sindaci con l’abuso di ufficio, qualcosa sulle intercettazioni, il tema gravissimo della sostituzione del giudice unico delle indagini preliminari però rimandato di due anni. Ma la vera questione è quella del traffico di influenze che, così com’è stato scritto, è di fatto inapplicabile”.
Il traffico di influenze è un reato che è stato introdotto con la Severino ed era considerato dai giuristi “inattaccabile” perché nato su una specifica richiesta da parte dell’Unione europea. Seppur possa sembrare vago nella formulazione – “chiunque fuori dai casi di corruzione, sfruttando o vantando relazioni con un pubblico ufficiale, fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita” – in realtà colpisce una figura specifica della fattispecie della corruzione: quella del facilitatore. Lo dimostrano le decine di indagini in materia di pubblica amministrazione in cui è stato contestato. O per esempio l’indagine sul Qatargate che spiega, meglio di qualsiasi altra, cosa si intende per traffico di influenze.
Con la nuova norma non sarà più così: la riforma prevede infatti che, per essere punibile, il facilitatore dovrà sfruttare “intenzionalmente” il rapporto con il pubblico ufficiale. Che il rapporto dovrà essere “esistente” e non più anche immaginato, facendo di fatto sparire il vecchio “millantato credito”. Ma c’è di più: l’utilità oggetto dell’indagine deve essere “economica”, cioè serve lo scambio di denaro e non di altro genere. E il pubblico ufficiale deve ricevere i soldi “in relazione all’esercizio della sua funzione”, non basta cioè pagare il facilitatore. Ma deve esserci la prova che il denaro arrivi all’utilizzatore finale. Per usare un’espressione cara a questa maggioranza di governo.
La riforma della giustizia prevede l’interrogatorio “preventivo rispetto alla eventuale applicazione della misura cautelare”, solo per alcuni reati, fra questi a quanto pare quelli che riguardano reati come la corruzione o la concussione. Quelli cioè in cui incappano i “colletti bianchi”. L’indagato viene convocato dal giudice il quale gli comunica che il pm ha chiesto il suo arresto e quindi, secondo Nordio, viene anticipato l’interrogatorio che farà valutare al magistrato se vi sono o meno le esigenze cautelari e quindi l’arresto. E nel frattempo ha tutto lo spazio e il tempo di distruggere prove, procurarsi alibi e sviare le indagini a proprio favore. In buona sostanza, dal testo sommario che è stato diffuso di questa riforma, l’indagato accompagnato dal proprio difensore si presenterà nell’ufficio del giudice e farà fatica ad avvalersi della facoltà di non rispondere sapendo che il suo silenzio può pregiudicare la posizione giudiziaria. Chi è sottoposto a indagini o è imputato in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali, come ha stabilito di recente la Corte costituzionale. In questo caso dunque cosa accade? Si ribalta ciò che avveniva durante Tangentopoli? Se durante il periodo di “Mani pulite” la politica che oggi critica il modo in cui sono state condotte alcune inchieste che hanno portato all’arresto di politici e professionisti, sostenendo che i magistrati facevano sentire il tintinnio delle manette per farli parlare, adesso questa riforma potrebbe essere peggiore? C’è già chi ha battezzato questa norma: “si salvi chi può”. In via Arenula con questo testo parlano di tutelare chi è sotto inchiesta, ma se così fosse, agli indagati potrebbero venir meno le garanzie che il codice prevede.
E c’è anche chi fa emergere tra i togati la creazione di strade giudiziarie differenti per le indagini. Lo spiega il segretario generale di Magistratura Indipendente, Angelo Piraino: “Con la previsione dell’obbligo di interrogatorio preventivo rispetto all’irrogazione della misura, che viene escluso per tutti i reati commessi con armi o violenza, si rischia concretamente di creare binari molto differenti per le varie tipologie di reato, differenziando i procedimenti in modo significativo e rendendo oltremodo difficile l’organizzazione del lavoro”.
Un disegno di legge che segna “un pericoloso indebolimento dei presidi anticorruzione faticosamente istituiti nell’arco dell’ultimo decennio”, fa notare l’associazione Libera di don Ciotti, che aggiunge: “Se l’obiettivo è un’accelerazione forzosa dei processi decisionali per spendere in tempo gli ingenti fondi Pnrr, simili provvedimenti rischiano seriamente di generare un contesto politico-amministrativo criminogeno, nel quale la spesa pubblica andrà in misura significativa a soddisfare non gli interessi collettivi, bensì gli appetiti di organizzazioni criminali, corrotti e corruttori”.
Un bavaglio ai giornalisti, ma anche una stretta che rischia di creare un danno irreparabile a indagini e processi. La riforma scritta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio introduce dei limiti sul fronte delle intercettazioni, vietandone la lettura e la pubblicazione ai giornalisti. Ma introduce anche dei vincoli all’utilizzo delle intercettazioni ai magistrati e perfino alla polizia giudiziaria in fase di trascrizione dopo aver ascoltato gli audio: e qui si rischia l’affidamento di un potere discrezionale enorme alla polizia giudiziaria (togliendolo ai magistrati) e di compromettere del tutto lo sviluppo delle indagini cancellando sul nascere elementi indiziari utili sia al fascicolo oggetto dell’indagine sia ad altre inchieste e processi che vedono gli stessi personaggi coinvolti.
Il testo approvato dal Consiglio dei ministri “afferma il divieto per la polizia giudiziaria di riportare nei verbali di intercettazione i dati relativi a soggetti diversi dalle parti, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini”. In sintesi, l’inquirente che ascolta l’intercettazione dell’indagato con una terza persona dovrà stabilire, al momento di trascriverla, se mettere o meno il nome della persona terza citata prima di consegnare il verbale al magistrato: che quindi si troverà davanti un documento con testi già in parte selezionati alla fonte. La riforma toglie quindi al magistrato il potere di stabilire se un elemento è utile o meno ai fini dell’indagine per darlo alla polizia giudiziaria
Inoltre lo stesso magistrato non potrà “acquisire (nel cosiddetto stralcio) le registrazioni e i verbali di intercettazione che riguardino soggetti diversi dalle parti, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”. Ma se poi durante il processo dovessero emergere argomenti che rendano improvvisamente utile l’intercettazione? Questo elemento indiziario rischia di venire perso del tutto.
Comunque l’obiettivo principale della riforma resta quello di mettere il bavaglio ai giornalisti, che non potranno mai leggere delle intercettazioni se non piccole parti che finiranno in una ordinanza di custodia cautelare o in una richiesta di sequestro: quindi atti vagliati e scritti da un giudice terzo. Nulla si potrà scrivere sui giornali sulla richiesta di rinvio a giudizio, che spesso è molto più completa rispetto ai contenuti che poi utilizza il giudice per autorizzare misure cautelari. Si legge nel testo di riforma: “Si amplia il divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, che viene consentita solo se il contenuto è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o è utilizzato nel corso del dibattimento”. La riforma limita quindi qualsiasi lavoro giornalistico, non solo sulla verifica e il controllo degli atti, ma anche in generale su quello che spesso emerge da indagini giudiziarie e che va ben oltre i singoli reati.
(da La Repubblica)
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