COSA RESTA DELLA TASSA SUGLI EXTRAPROFITTI BANCARI? NIENTE: ALL’INIZIO DI AGOSTO IL GOVERNO STIMAVA UN INCASSO DI “DIVERSI MILIARDI”, PREVEDENDONE ADDIRITTURA 10 DI INCASSO, MA DOPO LA RETROMARCIA, IMPOSTA DALLA BCE, E LA MODIFICA DELLA NORMA, L’INTROITO POTREBBE ESSERE ZERO
CON LA NUOVA FORMULAZIONE SARANNO GLI ISTITUTI A DECIDERE SE PAGARE O VINCOLARE UNA SOMMA PARI A 2,5 VOLTE L’IMPOSTA PER IL RAFFORZAMENTO PATRIMONIALE. I GRANDI GRUPPI PREFERIRANNO APRIRE IL PORTAFOGLIO, I PIÙ PICCOLI NON PAGARE
All’inizio di agosto il governo prevedeva che dalla tassa sugli extraprofitti delle banche sarebbe derivato un incasso di «diversi miliardi». Qualcuno diceva 4, altri 6, e c’era chi aveva sparato addirittura 10. A due mesi di distanza, il più in sordina possibile, di quella tassa è rimasto proprio poco.
La norma è stata rivista più volte, ormai è certo che i miliardi che entreranno nelle casse dello Stato saranno sicuramente meno di quelli stimati inizialmente e peraltro l’incasso non dipende nemmeno più dal governo, ma dalle scelte degli istituti di credito.
Tutto questo per effetto dell’ultima revisione inserita con un emendamento al Dl asset, che nella sostanza non la rende più una tassa. Tutti gli istituti di credito avranno infatti l’opzione tra pagare una somma (comunque inferiore a quelle inizialmente preventivate) oppure rafforzare il proprio patrimonio e vincolare a riserva una somma pari a 2,5 volte l’imposta. Risultato? Potenzialmente, l’incasso potrebbe essere zero
Non a caso non c’era alcuna stima di questa tassa nella relazione tecnica preludio della Nadef e una volta modificata la norma, nella Nadef vera e propria della scure sugli extraprofitti non c’è traccia.
Di fatto, il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva poca scelta, visto che l’interlocuzione con la Bce in merito alla tassa aveva chiarito in maniera inequivocabile che il lavoro fatto era sostanzialmente un pasticcio. La norma così come era stata presentata non avrebbe passato in alcun modo il vaglio della Banca Centrale Europea. E così sono state apportate le modifiche.
La nuova formulazione abbassa l’impatto complessivo dell’incasso. Il calcolo è complesso perché ci sono alcuni parametri la cui interpretazione differisce, come quelli che portano a calcolare l’RWA (risk weighted assets), ossia le attività ponderate per il rischio, in ogni caso escludendo dal calcolo i titoli di Stato.
Non solo, ma non è ancora chiaro se ai fini del conteggio verranno presi in considerazione solo gli attivi italiani o gli attivi complessivi degli istituti. Il risultato della simulazione di Kearney evidenzia importi inferiori per istituti come Intesa Sanpaolo e Unicredit e importi leggermente superiori per banche come Banco Desio, CR Asti o CR Bolzano. Il calcolo per istituti di dimensioni ancora inferiori, come molte delle Bcc italiane, non c’è, ma non si possono escludere importi in rialzo.
La presenza però dell’opzione per le banche tra pagare o vincolare gli importi a riserva porta a pensare che tutti gli istituti che riterranno di non avere necessità di rafforzamento patrimoniale opteranno per pagare, mentre gli altri provvederanno all’accantonamento.
Alcuni osservatori prevedono che molte piccole banche opteranno per tenere gli importi all’interno del gruppo e che forse invece i grandi gruppi, considerando che la riserva vale 2,5 volte la tassa, preferiranno pagare. Ma al momento si tratta di ipotesi. In sostanza, qualcuno al Mef fa notare che le piccole banche non saranno per forza penalizzate, perché (come le grandi in realtà) avranno l’opzione di non pagare. Quel che è certo è che l’impianto, l’impostazione e persino le finalità che si prefiggeva l’operazione immaginata dal governo in agosto, sono di fatto sparite.
(da La Stampa)
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