COSI’ PUTIN HA ORDINATO AGLI 007 DI INTERVENIRE SUL VOTO IN USA
DIETRO LA RESURREZIONE FINANZIARIA DI TRUMP SI PARLA DI CAPITALI RUSSI
Adesso fa quasi tenerezza ricordare Gary McKinnon, il giovane inglese appassionato di Ufo che 15 anni fa provocò il panico nel controspionaggio della «fortezza America» riuscendo a intrufolarsi in 97 sistemi informatici Usa, dal Pentagono alla Nasa.
Da allora gli attacchi alle reti del governo, alle aziende fornitrici delle forze armate come la Lockheed-Martin e la Northrop, ai giganti della finanza, si sono susseguiti senza interruzione.
Incursioni di hacker basati in Iran, in Russia, in Corea del Nord ma, soprattutto, in Cina. L’attacco più massiccio, quello del 2008, convinse il governo Usa a istituire il CyberCommand, una struttura militare specializzata in spionaggio e controspionaggio informatico.
Negli ultimi tempi l’attenzione si è spostata soprattutto sugli attacchi provenienti da Mosca. E la preoccupazione principale dei servizi segreti Usa – fin qui centrata sulla possibilità di offensive capaci di paralizzare le telecomunicazioni, il traffico aereo o la rete elettrica – adesso si sta spostando verso minacce di tipo politico: possibili interferenze straniere nel processo elettorale americano alla vigilia delle presidenziali.
Putin che prova a fare il burattinaio del voto Usa con l’intento di favorire Trump, finanziere politicamente naà¯f a digiuno di relazioni internazionali rispetto a una Hillary Clinton molto più temuta e detestata?
Quella del miliardario divenuto leader populista che è, in realtà , un «Manchurian candidate», un candidato eterodiretto, è una bella suggestione letteraria da spy story, ma non è suffragata da prove.
E gli hacker, oltre che in quelle del partito democratico e dell’organizzazione di Hillary Cinton, hanno cercato di penetrare anche nei sistemi informatici della campagna di Trump.
Il candidato repubblicano, però, ha fatto di tutto per giustificare i sospetti. Gli indizi non riguardano solo le ripetute affermazioni di stima, e a volte anche di ammirazione, per il capo del Cremlino, o l’invito a Mosca ad attaccare le reti informatiche Usa per cercare le email «smarrite» di Hillary Clinton: una sollecitazione poi derubricata a battuta sarcastica.
La Nato, temutissima da Putin, è considerata da Trump un’organizzazione obsoleta che lui è pronto a ridimensionare.
Poi ci sono gli uomini: non solo il capo della sua campagna elettorale Paul Manafort che per anni ha lavorato per il presidente filorusso dell’Ucraina Viktor Yanukovich, ma anche il suo consigliere di politica estera Michael Flynn, seduto a fianco a Putin durante un banchetto a Mosca e un altro suo consulente, Carter Page, che ha rapporti molto stretti con Gazprom, il gigante russo degli idrocarburi.
Ancora: negli stessi giorni in cui affermava di non essere pronto a far scattare le garanzie automatiche di mutua assistenza previste dai trattati Nato in caso di attacco russo alle Repubbliche baltiche, Trump ha fatto togliere dalla piattaforma programmatica repubblicana la promessa di fornire «armi difensive letali» all’Ucraina nella lotta contro i separatisti russi: una delle pochissime modifiche chieste dal candidato che ha approvato il resto del programma senza discussioni.
C’è anche chi sospetta che dietro la resurrezione finanziaria di Trump (ha riconquistato l’immagine di immobiliarista di successo, di nuovo miliardario, dopo un decennio di rovesci e bancarotte) ci siano capitali russi.
E che anche per questo il candidato repubblicano continui a non rendere noti i suoi rendiconti finanziari e fiscali. Ma qui siamo davvero ai romanzi di Le Carrè.
Fatto sta che adesso in America è scattato l’allarme rosso per la vulnerabilità ad attacchi stranieri di sistemi informatici che sono essenziali per ogni aspetto della vita anche politica del Paese. I timori riguardano anche il meccanismo tecnico del voto: in America ogni Stato ha il suo e in molte parti del Paese sono stati introdotti sistemi di voto elettronico che gli esperti informatici considerano vulnerabili.
Del resto i dati dicono che in campo informatico non c’è quasi nulla di invulnerabile: il GAO, il ramo investigativo del Congresso, ha censito ben 67 mila attacchi informatici nel solo 2014 ai danni di 24 agenzie federali, del Pentagono, del Dipartimento di Stato, del Tesoro, degli Interni («Homeland Security») e della Nasa.
Attacchi provenienti da tutto il mondo, certo, ma quelli più insidiosi degli ultimi anni alla casa Bianca e al Dipartimento di Stato portano la stessa firma che viene fatta risalire dagli esperti al Gru, il servizio segreto militare russo.
Come l’attacco contro i democratici Usa. Del resto viviamo ormai in un mondo in cui tutti spiano tutti e gli americani sono di certo in prima fila, visto che controllavano perfino i cellulari di leader alleati come Angela Merkel.
Washington lo ammette ma afferma di spiare per garantire la sicurezza (sua e degli alleati), non per ottenere vantaggi commerciali illeciti (accusa rivolta allo spionaggio francese) o per interferire negli affari politici interni di un Paese (il sospetto che ora grava sui russi).
Ma qualche mese fa il capo dei servizi segreti Usa, James Clapper, ha ammesso in un’audizione al Congresso che a volte gli interventi di spionaggio vanno oltre le esigenze di difesa.
Massimo Gaggi
(da “il Corriere della Sera”)
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