DAZI AUTO USA: COSA CAMBIA E PERCHE’ LI PAGHEREMO TUTTI
L’INCHIESTA DEL “CORRIERE”
L’industria dell’automobile occupa 9 milioni di lavoratori, più un incalcolabile indotto di fornitori e subfornitori. Su questo settore, già in crisi di suo, il presidente Donald Trump a fine marzo ha sganciato i dazi: più 25% su tutti i veicoli importati, ovvero circa la metà dei 16 milioni di auto vendute ogni anno negli Stati Uniti. Questo significa che i clienti statunitensi pagheranno le vetture straniere il 25% in più e, quindi, che quelle nazionali diventeranno più convenienti? E che nulla cambia per i clienti europei che acquistano un’auto prodotta in Europa, in Asia o in Messico? No, perché i dazi si applicano anche sull’import dei componenti. Tasse che alla fine graveranno in un modo o nell’altro su tutte le vetture: americane, europee, asiatiche. Vediamo come.
Sotto il marchio Fiat, Volkswagen, Ford, un’automobile contiene circa 20 mila pezzi: viti, valvole, molle, guarnizioni, batterie, lampadine. Provengono da decine di Paesi e a fabbricarli sono oltre 18 mila aziende sparse nel mondo.
Prendiamo, per esempio, il marchio americano per eccellenza e il modello che per 42 anni consecutivi è stato il più venduto negli Stati Uniti: il pick-up Ford F-150. Un’icona del vivere americano da due tonnellate e mezzo di peso e 430 cavalli di potenza. Sotto la carrozzeria solo il 45% è di origine americana. Il resto, ha stimato un’analisi di Caresoft per il Wall Street Journal, è un miscuglio di componenti originari di almeno 23 Paesi: i semiassi arrivano dal Canada, i cerchioni dal Messico, gli pneumatici dalla Corea del Sud, i sedili dalla Germania, i tubi dalla Romania e così via. Oltre a migliaia di altri componenti. Su ognuno di questi pezzi importati Ford pagherà un dazio che poi scaricherà in larga parte sugli acquirenti. Lo stesso meccanismo riguarda tutti i marchi americani e, alla fine, comporterà un aumento dei prezzi delle auto stimato fra i 3000 e 20 mila dollari, a seconda dei modelli.
Non solo Usa
Il problema non riguarda, però, solo i gruppi e i clienti americani. L’effetto dei dazi di Trump si farà sentire anche fuori confine perché la filiera dell’auto è inestricabile. Bmw, per esempio, produce gran parte dei modelli della serie X, destinati al mercato europeo, proprio negli Stati Uniti, mentre Mercedes fabbrica il suv Eqs soltanto in Alabama. Vuol dire che pagherà dazi indiretti anche l’acquirente europeo di questi modelli tedeschi.
La filiera globale dei componenti è talmente intricata che è quasi impossibile da
ricostruire.
Il viaggio di una centralina
La filiera globale dei componenti è talmente intricata che è quasi impossibile da ricostruire. Spesso questi pezzi fanno più volte avanti e indietro da un Paese all’altro per affrontare i processi di lavorazione che precedono l’assemblaggio finale in una delle fabbriche del costruttore. Da qui le vetture finite arrivano nei concessionari di tutto il mondo. Per esempio, l’Italia acquista dagli Usa centraline elettriche che hanno già subito due dazi perché contengono un microchip proveniente da Taiwan e sono imballate in un guscio fabbricato in Messico. Queste centraline vanno allo stabilimento VM di Cento (Ferrara) dove sono inserite su un motore che è poi spedito nel centro ricambi Mopar di Toluca, in Messico. Qui il motore viene montato su una Jeep che finirà sul mercato americano dopo aver subito un altro dazio del 25%. Tutti questi passaggi si scontreranno non solo contro il muro doganale eretto da Trump, ma rischiano anche di dover fare i conti con le contromisure adottate dai Paesi colpiti. Il Canada ha annunciato dazi del 25% sulle vetture provenienti dagli Stati Uniti, mentre l’Unione europea ha approntato un pacchetto di ritorsioni su 95 miliardi di merci americane, incluse le auto e i loro componenti. Questa guerra commerciale minaccia di far esplodere i costi dell’industria dell’auto che solo in Italia impiega oltre 260 mila dipendenti, esporta negli Usa veicoli per
3,4 miliardi di euro e componenti per 1,3 miliardi.
Gli esentati
I costruttori hanno perciò premuto disperatamente sulla Casa Bianca per ottenere una rimodulazione dei dazi. A parte la Cina, che subisce una tassa del 147% sulle vetture elettriche (in parte eredità dell’era Biden) e del 72,5% sulle altre auto, Trump ha concesso ai costruttori un’esenzione temporanea. Per evitare il dazio del 25% sulle vetture e le loro parti provenienti da Paesi esteri, tutti i veicoli devono essere costruiti per almeno il 75% del loro valore nel triangolo Usa-Messico-Canada. È poi stato aggiunto un complesso meccanismo di detrazione di durata biennale che, in sostanza, consentirà nel 2025 di annullare il dazio per le auto con almeno l’85% di contenuto Made in Usa e del 90% nel 2026.
Full made in Usa? Zero
Quante vetture possono usufruirne? Zero. Stando ai dati comunicati dagli stessi costruttori alla motorizzazione, oggi nessuno dei 549 modelli venduti negli Usa raggiunge la soglia per azzerare il dazio con lo «sconto Trump». Circa due terzi (351) hanno un contenuto nordamericano inferiore al 10%, e 183 non ospitano neanche un bullone patriottico. Fra queste figurano non solo auto di case straniere come Toyota, Volvo, Mercedes, Bmw, ma anche vetture american sounding come la Lincoln Nautilus di Ford e Chevy Trailblazer (fatte
rispettivamente per l’87% in Cina e per il 52% in Corea) e la Dodge Hornet di Stellantis (prodotta per il 56% in Italia). Il modello che si avvicina di più ai desiderata della Casa Bianca non ha un marchio a stelle e strisce ma sudcoreano: la Kia EV6 si rifornisce per l’80% dei suoi componenti in Nordamerica ed è assemblata a West Point, in Georgia. Seguono il pick-up Ridgeline della giapponese Honda e la Model 3 di Tesla, entrambe con il 75%.
Dove assemblano i grandi marchi
Va ricordato che i carmaker di Detroit, a seguito del trattato di libero scambio con Canada e Messico siglato nel 1992 da George H. W. Bush e rinegoziato da Trump nel 2020, hanno spostato una parte significativa della loro produzione nei due Paesi confinanti. Stellantis, per esempio, assembla in Messico e Canada il 56% delle auto destinate al mercato americano, mentre General Motors solo il 25% ma ne importa il 15% dalle sue fabbriche in Giappone. Ford è nella posizione migliore dal momento che assembla negli Usa l’80% dei veicoli per il mercato americano. Se si guarda sotto la carrozzeria, tuttavia, si scopre tutto un altro mondo. Stellantis, Ford e GM si procurano dall’estero rispettivamente il 50, il 60 e il 65% dei componenti utilizzati nelle vetture esposte nelle concessionarie statunitensi. Il muro commerciale eretto da Trump sta già creando effetti dirompenti su questa filiera senza confini. A rischio c’è anzitutto la continuità produttiva. Dichiara l’amministratore delegato di Ford, Jim Farley:
«Anche volendo, non possiamo comprare negli Stati Uniti viti, rondelle e tappetini, semplicemente perché non sono disponibili». Intanto Stellantis ha bloccato i lavori negli impianti di Toluca in Messico e di Windsor in Canada. Data la natura interconnessa della filiera, però, lo stop ha avuto conseguenze a cascata anche negli Stati Uniti: il gruppo ha annunciato esuberi temporanei di dipendenti in alcune fabbriche in Indiana e Michigan che riforniscono gli stabilimenti di Windsor e Toluca dei componenti necessari al loro lavoro di assemblaggio finale.
I costi finali
I costruttori hanno anche calcolato i costi cumulativi imposti dalla gimkana doganale di Trump: quest’anno Ford ha preventivato un aumento delle spese di 2,5 miliardi di dollari e GM addirittura di 5 miliardi. Stellantis ha invece detto al mercato di non essere in grado di stimare al momento come chiuderà il bilancio 2025, proprio a causa dell’incertezza sui dazi. Le imprese tenteranno certamente di ridurre questo incremento spremendo i loro fornitori che, spesso, già operano al limite della profittabilità. Il grosso invece si scaricherà sul prezzo delle auto. Di quanto? Le stime oscillano alla velocità degli annunci e delle retromarce del presidente repubblicano e delle contromisure adottate dai costruttori. Quel che è certo è che, fra pandemia, crisi dei chip e inflazione, negli Stati Uniti il prezzo medio delle vetture è già passato dai 31 mila dollari
del 2019 ai 48 mila del 2024. E che il nuovo rialzo dei listini colpirà soprattutto le auto più economiche, dal momento che l’80% di quelle al di sotto dei 30 mila dollari è di importazione.
L’agenzia di rating S&P ha perciò ridotto le stime di immatricolazioni negli Usa rispetto alle previsioni pre-dazi: meno 700 mila unità per il 2025, meno 1,2 milioni per il 2026 e meno 930 mila per il 2027. Dinanzi al tracollo del mercato, le case stanno diminuendo anche i volumi produttivi per evitare di trovarsi i piazzali pieni di auto invendute: quest’anno le fabbriche nordamericane sforneranno circa 1,3 milioni di veicoli in meno rispetto al 2024. Per trovare un taglio simile, conclude l’agenzia, bisogna tornare ai lockdown pandemici del 2020 o alla grande crisi finanziaria del 2008.
La paralisi
Tutto questo perché l’obiettivo di Trump è quello di spezzare la più globalizzata filiera produttiva al mondo, per riportare la manifattura a stelle e strisce ai fasti di un tempo. La posizione dei produttori è chiara: per costruire un nuovo impianto ci vuole tempo (2-3 anni) e molto denaro e, quindi, certezze sul lungo termine. Certezze che la Casa Bianca non garantisce perché cambia idea ogni giorno. C’è un problema di manodopera, anche specializzata, che al momento non c’è. Un problema di materie prime: quand’anche i cerchioni li costruiamo negli Usa bisogna comunque importare l’alluminio dal Canada sul quale si
pagherà dazio; come si pagherà sui microchip, che vengono da Taiwan e Sud Corea, e pure sulla gomma per pneumatici e accessori, che è tutta di importazione. Infine: ha senso aumentare la capacità produttiva negli Usa se poi quei veicoli non potranno esser esportati in altri mercati senza incorrere in pesanti dazi ritorsivi? In questa instabilità generale tutta l’industria dell’automotive nordamericana ed europea è paralizzata. A vantaggio del grande competitor, la Cina, che continua a sfornare nuovi modelli e tecnologia.
Francesco Bertolino e Milena Gabanelli
(da corriere.it)
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