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ECCO PERCHE’ I DITTATORI FANNO SEMPRE UNA BRUTTA FINE

DA POL POT A GHEDDAFI, DA SADDAM A DADA, DA CEAUSESCO A MILOSEVIC

Freddati da raffiche di Ak-47, traditi e vilipesi, suicidi per non cadere in mani nemiche, processati o esiliati, i dittatori fanno sempre una brutta fine. Proprio loro che credettero di «essere la meraviglia del proprio tempo», come il Macbeth di Shakespeare, saranno dannati e banditi dalla Storia. Così passano i tiranni.
E così passarono Benito Mussolini e Hitler, e anche Josif Stalin. Dopo la caduta dell’Urss furono rimosse le statue e rinominate le vie a lui dedicate. La Seconda guerra mondiale doveva essere lo spartiacque per l’Europa e il mondo. Mai più massacri, dittature, gulag e oppressione dei popoli. E invece.
Pol Pot
Il generale cambogiano Pol Pot ammira la Rivoluzione francese e il marxismo. Da giovane viaggia in Europa, ottiene una borsa di studio a Parigi, lavora in Jugoslavia. Tornato in Cambogia, all’inizio degli anni Cinquanta nel quadro delle rivolte anti-francesi nei territori dell’allora Indocina, è tra i fondatori del Partito rivoluzionario del popolo Khmer con il quale vive una lunga latitanza fino alla salita al potere dell’aprile 1975. Nel 1978 a 53 anni ha compiuto la rivoluzione agraria della Kampuchea Democratica. Così il regime comunista ed etno-nazionalista dei Khmer rossi ha rinominato la Cambogia. Svuotate le città
e deportata la popolazione nelle campagne, smantellati ospedali e proprietà privata, scomparsi in quattro anni quasi due milioni di persone su sette. Eliminati nelle esecuzioni di massa, sterminati nei campi di lavoro, abbattuti dalle carestie. Un genocidio durato fino al 1979, quando le truppe vietnamite invadono il Paese e insediano il nuovo governo. Nel 1997 Pol Pot è un’ombra nella giungla, sopravvissuto ad anni di guerriglia, malato e braccato dalla paura di essere tradito dai fedelissimi che non esita a far fuori. Nell’ultima intervista al giornalista americano Nate Thayer appare inerme e perso nell’estremo tentativo di autoassolversi: «Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per il mio Paese. Ero solo inesperto. Le sembro una persona violenta?». Il «Fratello numero uno» muore a 72 anni il 15 aprile 1998, ufficialmente colpito da infarto. Per Thayer, quel giorno con lui nel villaggio vicino al confine thailandese dove il dittatore scontava i domiciliari, è stato suicidio: un cocktail di tranquillanti e antimalarici per non essere consegnato agli americani.
Idi Amin Dada
Del dittatore ugandese Idi Amin Dada non si conosce con certezza la data di nascita, 1924 o 1925. Non è sicuro che «Dada» sia un clan o un soprannome, né è noto il numero dei figli: 40 ufficiali da 7 matrimoni, in totale forse una sessantina. Tutto si sa della fine: in esilio, stroncato da un’insufficienza renale il 16 agosto 2003 all’ospedale Re Faisal di Gedda, nel Regno Saudita ultimo rifugio dorato dopo Libia e Iraq. Abilità e fanatica megalomania lo portano a diventare, da assistente cuoco nell’esercito coloniale britannico, comandante delle forze armate dell’Uganda indipendente e lo aiutano poi a barcamenarsi tra potenze occidentali e Unione Sovietica trovando amici in Israele e Nord Africa come nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, nel Regno Unito o in Germania Est. Nella vertigine d’onnipotenza si autoproclama «Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci dei mari, Conquistatore dell’Impero britannico in Africa, Re di Scozia senza corona».
Non è dato sapere il numero preciso delle vittime di persecuzioni etniche e uccisioni sommarie negli otto anni della sua presidenza, dal colpo di Stato del 1971 al disastroso tentativo di conquistare la Tanzania. Le stime variano tra 100 e 300 mila. La prima grave crisi internazionale nel 1976 quando autorizza
l’atterraggio del volo Air France da Tel Aviv a Parigi dirottato da terroristi palestinesi e tedeschi: nel blitz israeliano per liberare gli ostaggi, l’Operazione Entebbe, muore il comandante delle forze speciali Yonathan Netanyahu, fratello maggiore dell’attuale premier Benjamin. L’attacco alla Tanzania del ’78 precipita l’Uganda in una lunghissima fase di instabilità e vendette, con nuovi padroni e nuovi orrori come i bambini-soldato dell’Esercito di liberazione del Signore fondato da Joseph Kony nel 1987. Amin è lontano, forse già dedito alla dieta fruttariana ossessione degli ultimi anni. È passato alla storia con il nome di «Machete, Macellaio d’Africa, Hitler nero».
Nicolae Ceausescu
Ceausescu diventa segretario generale del Partito comunista della Romania nel 1965; dal ’74 è presidente della Repubblica socialista. Industrializzazione intensiva e piani di rieducazione: il Paese è lanciato in un progresso forzato che riesce solo in parte a spezzare le antiche radici contadine, mentre il regime cerca un’autonomia mal sopportata a Mosca. Controllo sociale capillare attraverso la terribile polizia segreta, la Securitate. Vietati aborto e qualsiasi forma di contraccezione al motto «Il feto è proprietà dello Stato», premi alle «madri eroine». Culto ossessivo della personalità del capo: Ceausescu arriva ad auto-conferirsi uno scettro spiazzando anche Salvador Dalí che invia un telegramma di congratulazioni (ironia surrealista fraintesa, sarà preso per un omaggio vero). A Bucarest si fa costruire una colossale Casa del popolo, il palazzo più pesante del mondo, oggi sede di Parlamento e Corte costituzionale. Le proteste studentesche del dicembre 1989, nel sentimento di svolta che si diffonde da un Paese all’altro del blocco comunista, convincono infine il Conducator a lasciare la capitale con la moglie Elena. Fermati nella rocambolesca fuga tra le campagne dove sono nati, del processo sommario restano le immagini a colori riprese con una Panasonic M7 nella caserma di Târgoviște. Sembrano due anziani contadini spaventati, spogliati del potere e stretti in cappotti troppo pregiati per quelle stanze misere come il Paese, che lui aveva ridotto alla fame con il razionamento alimentare. È il 25 dicembre 1989, meno di un’ora davanti alla corte marziale, la fucilazione improvvisata che la videocamera non ha il tempo di filmare passerà alla storia come la fine
dell’unica rivoluzione violenta contro i sistemi comunisti nell’Europa centro-orientale. Hanno 73 e 71 anni, le mani legate. Mentre a Bucarest cospiratori e fazioni s’avventano sulle spoglie del regime lei grida «Andate all’inferno», lui canta l’Internazionale. Questo il racconto ufficiale. Anni dopo, uno dei tre paracadutisti incaricati quel giorno di imbracciare i kalashnikov ricorderà di aver incrociato lo sguardo di Ceausescu nell’attimo in cui diventava chiaro che non ci sarebbe stato appello. Finiva lì, e Nicolae pianse.
Milosevic
Slobodan Milosevic è il leader autoritario che in nome della Grande Serbia accende l’odio etnico nei Balcani degli anni Novanta. Nato sotto l’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale, comincia come funzionario comunista nella Jugoslavia di Tito prossima all’implosione, e diventerà agitatore nazionalista. Lungo il cammino si presenta come uomo di pace firmando con il croato Franjo Tudman e il bosniaco Alija Izetbegovic gli Accordi di Dayton che nel 1995 chiudono la guerra di Bosnia ed Erzegovina: eppure nel conflitto ha appoggiato attivamente le forze serbo-bosniache del presidente Radovan Karadzic e del comandante dell’esercito Ratko Mladic che hanno pianificato e condotto le operazioni di pulizia etnica contro la popolazione musulmana. Tre anni dopo insieme all’ultranazionalista Vojislav Seselj cavalca l’escalation che porta alla nuova guerra del Kosovo. Anni di discorsi infuocati e giganteschi patrimoni personali accumulati, anche grazie alle sanzioni, da un gruppo di potere che tiene dentro politica, banche, apparati di sicurezza e gerarchie militari. Finisce con l’arresto e l’estradizione all’Aja, dove il Tribunale Onu per la ex Jugoslavia lo chiama a rispondere di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Croazia, Bosnia, Kosovo: tre atti d’accusa, uno per ciascuna guerra. La sentenza non arriverà mai. Quando la mattina dell’11 marzo 2006 lo trovano immobile nel letto, Milosevic è morto da ore. Fatalità o ultimo sfregio, la fine per infarto a un passo dal verdetto è una sconfitta per l’intero sistema di giustizia penale internazionale. Il processo più importante estinto tra ipotesi di avvelenamento e suicidio mai confermate dalle indagini. A 64 anni «Slobo» è solo nella sua cella del carcere di Scheveningen con le ombre di milioni di profughi e centomila morti.
Saddam
Inaugura la scalata con il colpo di Stato con i nazionalisti arabi del partito Baath nel 1968, per arrivare alla conquista della presidenza nel 1979. L’era di Saddam Hussein sull’Iraq è segnata da torture e stragi, dalla persecuzione delle minoranze, dallo sterminio dei curdi, dalla guerra all’Iran, l’invasione del Kuwait, la prima guerra del Golfo, e l’odio per gli Stati Uniti. Il 9 aprile Bagdad cade, s’apre il palazzo con i bagni in marmo e oro, cade dall’alto piedistallo in piazza Al Firdos la statua del raìs: una tra le tante nel Paese disseminato di immagini grandiose, diventerà il simbolo della dissoluzione del regime. Il 13 dicembre le truppe americane scovano Saddam in una buca nel terreno di una fattoria poco lontano dalla sua Tikrit. La barba lunga e impolverata, i capelli arruffati, lo sguardo perso. Di quelle ore ricordiamo le immagini diffuse dai vincitori: il dittatore non oppone resistenza, apre docile la bocca e tira fuori la lingua per i controlli sanitari, sfila con i polsi legati nelle foto ricordo dei soldati. Tre anni dopo, dicembre 2006, il tribunale speciale formato da cinque giudici iracheni respinge l’appello: la condanna per crimini contro l’umanità commessi nel massacro degli sciiti di Dujail nel 1982 è definitiva. Gli Stati Uniti (che nel 2011 si ritireranno dal Paese mai pacificato, avviato a nuovi conflitti e all’ascesa dei fondamentalisti del sedicente Stato islamico) vorrebbero rinviare l’esecuzione di un paio di settimane ma il nuovo Iraq ha fretta di chiudere. La data fissata è il 30 dicembre. Saddam Hussein ha 69 anni. In qualità di ex comandante in capo ha chiesto la fucilazione, negata. Il video ufficiale si ferma quando gli sistemano il cappio intorno al collo, qualcuno continua a filmare e il mondo sentirà le grida e gli insulti, vedrà il patibolo di legno e il buio intorno.
Le sue colpe tuttavia non bastano a lavare la coscienza dell’Occidente che nel marzo 2003 invade l’Iraq in cerca di inesistenti armi di distruzione di massa.
Gheddafi
Artefice del colpo di Stato che travolge la monarchia di re Idris, nel 1969, Muammar Gheddafi proclama la Repubblica araba di Libia. Impone da subito un regime autoritario che punta a costruire una forte identità nazionale in un Paese diviso in tribù: rientrano in questo disegno l’espulsione dei 20 mila
italiani residenti e la persecuzione di tutti i gruppi non arabi, dai berberi agli ebrei. Il Colonnello gioca la carta del nazionalismo e della rivoluzione anti-imperialista, anti-occidentale e anti-israeliana. Nel 1977 proclama la Grande Giamahiria-la Repubblica delle masse «socialista e popolare», scrive un Libro Verde sul modello del Libretto Rosso di Mao Zedong. Migliora alfabetizzazione e sanità, promuove riforme sociali improntate alla sharia (la legge islamica). Intorno alla sua famiglia un sistema di potere cleptocratico che si difende con restrizioni delle libertà civili, detenzioni arbitrarie, sparizioni, uccisioni sommarie. È accusato di finanziare il terrorismo internazionale. Le indagini di britannici e americani sulla strage del volo Pan Am 103 con 259 persone a bordo, fatto esplodere con una bomba nei cieli sopra la cittadina scozzese di Lockerbie nel 1988, accerteranno le responsabilità di due cittadini libici, che Gheddafi rifiuta di estradare. Le conseguenti sanzioni decise dall’Onu lo costringeranno a dichiararsi responsabile come capo del governo (non ad ammettere di aver dato l’ordine) e risarcire le famiglie delle vittime. Nell’ottobre 2011, già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, l’uomo che da 42 anni domina incontrastato sulla Libia, che ha in giro per il mondo beni e conti correnti per 200 miliardi di dollari, che agli incontri con i leader si presentava scortato da amazzoni e vestito alla beduina, è in fuga nel deserto. La rivolta sul vento delle primavere arabe è sfociata in guerra civile portandosi dietro l’intervento dei Paesi Nato trascinati dalla Francia e sotto l’egida dell’Onu. Da mesi Gheddafi ha lasciato Tripoli per Sirte, sua città natale, dov’è rimasto asserragliato man mano che le forze del Consiglio di transizione avanzavano. Il convoglio è bloccato dai ribelli, il Colonnello tenta di nascondersi in una tubatura di drenaggio. Sarà brutalizzato con indicibile violenza e finito con un colpo di pistola alla testa.
E oggi?
Nella Russia di Putin, nella Cina di Xi Jinping, nella Corea del Nord di Kim Jong-un il dissenso è perseguito e punito anche con la morte. Il dittatore siriano Bashar Assad ha trovato rifugio a Mosca. Sul premier israeliano Netanyahu pende il mandato d’arresto della Corte dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. Nella grande democrazia americana il presidente Donald Trump
caccia chiunque non approvi le due decisioni e punisce chi ha idee diverse.
Nella stessa Europa ci sono leader che promuovono apertamente politiche illiberali. Anziché progredire sulla strada del diritto e della democrazia come avevamo giurato dopo le ultime guerre, il mondo torna a farsi sedurre da modelli autoritari e dittatoriali. Sappiamo com’è andata a finire tutte le altre volte.
Milena Gabanelli e Maria Serena Natale
(da corriere.it)

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NIENTE DI SERIO SOTTO IL SOLE »

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