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ELEZIONI SICILIA: TUTTI GLI EDITORIALI DEI PRINCIPALI QUOTIDIANI ITALIANI

LE OPINIONI SUL VOTO DI MICHELE SERRA, ANTONIO PADELLARO, MASSIMO GIANNINI, VALENTINO PARLATO, LUCA TELESE, MAURIZIO BELPIETRO, VITTORIO FELTRI E MARIO SECHI

L’AMACA di Michele Serra

La maggioranza dei siciliani non è andata a votare, ma sarà  ugualmente governata. Da un governo di altri, eletto da altri.
Se il proposito di chi non vota è tirare una bordata alla politica, depotenziarla, dequalificarla, il risultato è (sempre) l’esatto contrario: nei suoi nuovi confini, più ristretti, la politica può ugualmente sommare i voti che le restano dentro il cerchio magico del cento per cento.
Chi è andato a votare, per quanto minoranza, pesa come una totalità . E chi non ha votato, per quanto maggioranza assoluta, pesa meno della più insignificante delle listerelle del nostro comicissimo paese (per fare solo tre nomi Popolo dei Forconi, Piazza Pulita e Sturzo Presidente).
Di peggio, nel bilancio di chi non vota, si può aggiungere questo: che grazie all’astensione di massa, per vincere e per governare bastano meno voti, sempre meno voti.
Lo stesso numero di voti che non erano sufficienti, pochi anni fa, per arrivare secondi o terzi, oggi bastano per vincere.
Ovviamente chi non va a votare ha le sue rispettabili ragioni, e il diritto di non farlo. Ma perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà , e acquisisce il dovere di tacere e subire, perchè ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni.

UN GRIDO DI RABBIA MA NON BASTA di Antonio Padellaro

Le elezioni siciliane hanno confermato ciò che tutti sanno ma che molti non vogliono capire.
Primo: ormai è certificato che la popolarità  dei partiti e dei loro leader è ai minimi storici. Come hanno fatto domenica più della metà  dei siciliani è possibile che più della metà  degli italiani, o giù di lì, il giorno del voto nazionale (ad aprile o forse prima) preferisca restare a casa.
Secondo: questo rifiuto, che contraddice mezzo secolo di convinta partecipazione elettorale di massa, non nasce dal vento qualunquista dell’antipolitica, come ci ripetono ogni giorno i gran visir di palazzo, che appunto stando nel palazzo si ostinano a recitare litanie ammuffite a cui neppure loro credono più.
Se costoro ogni tanto osassero salire su un bus o andare al mercato, si renderebbero conto che la stragrande maggioranza degli italiani ne ha piene le tasche di dover versare i propri sudati soldi a un sistema fiscale tra i più esosi e iniqui per poi apprendere di aver finanziato la casta ladra dei Fiorito e gli apparati famelici della politica intesa come strumento di tornaconto personale.
In Sicilia un grido di protesta così forte e rabbioso non si era mai sentito prima.
Ma attenzione: da solo rischia di perdersi nel deserto.
Una volta assorbito il colpo, infatti, il sistema dei partiti con il 40 per cento (o fosse anche il dieci) potrà  tranquillamente spartirsi l’istituzione regionale con annessa torta pubblica.
Gli assenti, insomma, hanno sempre torto e la partita della democrazia è troppo importante per essere liquidata con un rifiuto o un’invettiva.
Lo ha dimostrato il Movimento 5 Stelle del tanto vituperato Grillo, che ha mostrato molto più rispetto delle regole democratiche di tanti capi e capetti partitici, candidando facce veramente nuove, affrontando le piazze, mettendosi in gioco.
L’altra buona notizia è l’elezione del pd Rosario Crocetta a Palazzo dei Normanni. Vedremo come saprà  governare un’isola depredata dai predecessori. Ma con lui — nonostante certi alleati — vince un sincero, collaudato uomo della lotta alla mafia. E non è poco.

L’ONDA ANOMALA di Massimo Giannini

Prima dell’uragano di New York, arriva lo tsunami di Sicilia.
Basta che Beppe Grillo attraversi a nuoto lo Stretto di Messina, e l’onda anomala investe l’isola. Devasta quasi tutto, a partire dalle vecchie “casematte” del potere di centrodestra.
Tra le macerie si erge un’alleanza di centrosinistra, fragile e non autosufficiente. E si staglia un Movimento 5 Stelle, agile e destabilizzante.
Se questo esito del voto siciliano si proiettasse su scala nazionale, ne verrebbe fuori un quadro politico indecifrabile. E un Parlamento ingovernabile.
Sul piano locale, queste elezioni regionali offrono tre spunti di riflessione.
La prima evidenza, la più inquietante, è il combinato disposto tra la corsa dell’anti-politica e la fuga dalla politica.
Tutti immaginavano che il comico genovese, in trasferta in una terra a lui incognita, avrebbe ottenuto un buon risultato.
Ma non era affatto scontato che, con poco più di una settimana di comizi nelle piazze e nelle valli sicule, Grillo riuscisse a diventare il primo partito in quasi tutte le città , con percentuali che oscillano intorno al 18%.
Non contano le proposte programmatiche sull’isola formulate dal leader dell’M5S. Conta la voglia di cambiamento purchessia di chi lo ha votato, che fa premio su tutto. Se a questo dato aggiungiamo il record di un’affluenza alle urne che per la prima volta nella storia repubblicana resta sotto la soglia psicologica del 50%, l’abisso che separa gli elettori dagli eletti (per disincanto populista o per disinteresse astensionista) diventa davvero pauroso.
La seconda evidenza, la più stupefacente, è il crollo totale del Pdl, che è alla base dell’insuccesso di Musumeci.
La Sicilia è storicamente un feudo della creatura berlusconiana, che qui è nata come Forza Italia, è cresciuta, ha incubato le sue più disinvolte formule coalizionali ed ha coltivato i suoi trionfi epocali.
Dalla satrapia condivisa con il «socio» centrista Totò Cuffaro al leggendario «cappotto» 61 a zero del 2001.
Dalle vette vertiginose del 46,6% ottenuto alle politiche del 2008, poi parzialmente corretto al 33,4% delle regionali, oggi il Partito del Popolo delle Libertà  precipita al 12%. Una miseria di voti, racimolati nella terra dei Marcello Dell’Utri, dei Renato Schifani e soprattutto di quell’Angelino Alfano che qualcuno vorrebbe degno ed unico erede dell’impero del Cavaliere, e che persino nella sua Agrigento incassa l’ennesima umiliazione.
Nonostante questo, il segretario di Berlusconi (molto più che del suo partito) parla di un «risultato straordinariamente positivo».
Più che indignazione, suscita compassione.
La terza evidenza, la meno sconfortante, è la tenuta dell’asse Pd-Udc, che consente almeno a Crocetta di governare la regione, magari attraverso un ulteriore patto con il movimento di Miccichè e Lombardo.
È il segno che l’alleanza tra progressisti e moderati ha un suo senso, anche in una regione generalmente «inospitale» per la sinistra. Bersani parla di «un risultato storico», e a suo modo dice il vero.
A parte il dominio assoluto della Dc ai tempi della Prima Repubblica, nella Seconda in Sicilia ha sempre governato la destra (con l’insignificante parentesi di Antonio Capodicasa, esponente dell’allora Pds, che guidò Palazzo dei Normanni tra il ’98 e il 2000).
Dunque, per il centrosinistra aver piazzato comunque la sua bandiera nell’isola è un passo avanti.
Ma il segretario farebbe bene a non enfatizzare troppo il «successo».
La ditta Pd-Udc è comunque la somma di due debolezze: insieme (se si aggiunge il 6,5% della lista civica Crocetta) fanno più del 30%, ma da soli i democratici calano a poco più del 13% e l’Udc si ferma al 10,8% (contro, rispettivamente, il 25,4% e il 9,4% delle politiche 2008).
Vuol dire che il centrosinistra vince sulle rovine del centrodestra, cede consensi ai grillini e non intercetta quelli finiti nel frigorifero dell’astensione.
La Sicilia è da sempre un «laboratorio», che anticipa e consolida le tendenze generali. Questi tre effetti del voto locale avranno dunque implicazioni significative sulla politica nazionale.
A destra si produce l’ennesimo paradosso.
Proprio il risultato siciliano (che sancisce plasticamente la fine del ciclo berlusconiano e l’eutanasia di Alfano, un «delfino» mai nato) offre a Berlusconi l’opportunità  di rilanciarsi ancora una volta come unico demiurgo della destra italiana.
La destra dell’Editto di Villa Gernetto: populista e forzaleghista, anti-europea e anti-repubblicana.
La destra che attacca il rigore della Merkel e il Fisco oppressore, accusa la Corte costituzionale e la magistratura inquirente, e un giorno offre a Monti la guida del Ppe italiano mentre il giorno dopo minaccia di togliergli la fiducia in Parlamento.
La destra che agita le primarie come una foglia di fico di un impossibile «pluralismo interno», ma che vedrà  di nuovo il Cavaliere come il solo e il vero tragicomico Jocker di una campagna elettorale pericolosa per il governo e rovinosa per il Paese.
A sinistra si profila un’opportunità , ma anche un problema.
L’idea di una vocazione maggioritaria del Pd, per quanto desiderabile e suggestiva, non sembra in sintonia con gli umori del Paese.
Il Partito democratico ha dunque una sola chanche, che il risultato siciliano avalla e per certi versi propizia. Deve saper essere una forza capace di federarne altre, usando l’unica risorsa della quale in questo momento sembra disporre: il suo potere di coalizione. La sua forza di attrazione, che si deve poter esplicare sia alla sua sinistra, sia al centro. È la fatica del riformismo.
Chi non capisce questo, e si ostina a porre veti insormontabili sulle alleanze e paletti irrinunciabili sui programmi, rischia di condannare il centrosinistra alla divisione, e quindi alla minorità .
Ma su tutto, resta una preoccupazione di fondo.
Il voto siciliano ci consegna un panorama di formazioni politiche che, singolarmente prese, oscillano tra il 10 e il 20%.
Tramontati i partiti di massa, esauriti i partiti personali, restano partiti medio-piccoli che per provare a governare possono solo provare a «consorziarsi».
Per il resto, un enorme bacino di suffragi in libera uscita, ma senza vie d’uscita: una domanda di cambiamento politico che non trova risposta nei partiti, incapaci di innovare persone e proposte, e quindi finisce nel limbo del non voto.
Se questo fosse il risultato delle prossime elezioni nazionali, nella primavera del 2013, l’Italia ne uscirebbe a pezzi.
Sarebbe uno scenario che, a dispetto di una politica che vuole tornare a guidare le sorti del Paese, sarebbe obbligata a ripetere l’esperimento in corso, cioè quello di una Grande o Piccola Coalizione.
Ma con l’aggravante di un Parlamento balcanizzato, tra le convulsioni dei forzaleghisti e le aggressioni di un centinaio di deputati grillisti. Una prospettiva sicuramente favorevole a un Monti bis.
Ma probabilmente sfavorevole all’Italia, che in balia dell’onda anomala si confermerebbe l’unica democrazia «commissariata» dell’Occidente

UNA VITTORIA SULLE MACERIE di Valentino Parlato

Voto seriamente allarmante quello di domenica in Sicilia e c’è poco da consolarsi con la vittoria di Crocetta (Pd, Unione di centro, Movimento Politico, Unione consumatori) con il suo 31% dei voti, che resta tuttavia al di sotto del 40% realizzato dalle altre liste di destra.
Il vero allarmante vincitore di questa prova elettorale è il partito degli astensionisti (di destra e di sinistra) che ha raccolto il 52,58% dei voti.
E se poi aggiungiamo il 18,40% raccolto dai grillini, possiamo dedurne che due terzi dei siciliani si sono posti fuori dal sistema attuale dei partiti.
Siamo proprio alla totale svalutazione del sistema politico: lo spread democratico si è messo in gara con quello valutario.
Su questi dati si dovrebbe seriamente riflettere e stare attenti, evitando, come sta facendo Bersani, di ubriacarsi con la «vittoria storica» in Sicilia.
Certo gli astensionisti sono anche di destra, motivati forse dall’ultima uscita anti Monti di Berlusconi.
Il risultato del voto in Sicilia — lo ripeto — è un segnale fortissimo della crisi italiana, non solo della sinistra, ma soprattutto.
Su questo dovrebbe svilupparsi un’analisi più approfondita delle cause della crisi della sinistra e, conseguentemente, della democrazia. Se siamo decaduti al «governo tecnico» non è tanto per il debito pubblico, ma per le insolvenze democratiche e culturali.
Ma non attendiamoci uno scatto di iniziativa delle attuali frammentate forze di sinistra.
Dire che in Sicilia c’è stata «una vittoria storica» è solo prova della pervicacia del non guardare la realtà , di cecità  e c’è un detto su dio che acceca chi vuol perdere.
Ma ci si può accecare anche da soli.

ATTENTI AI GATTOPARDI A PALERMO E A ROMA di Luca Telese

Quando stamattina gli ultimi numeri del bilancino saranno estratti dal pallottoliere delle elezioni siciliane si scopriranno due devastanti verità .
La prima è che i siciliani hanno lanciato un messaggio di cambiamento.
La seconda è che forse lo hanno fatto invano.
Più di metà  di loro ha disertato le urne.
E tra quelli che sono andati ai seggi, la maggioranza ha votato il Movimento 5 stelle, perchè sembrava il più adatto a voltare pagina rispetto ai vecchi partiti.
Tra gli altri elettori, la maggioranza ha votato il candidato — Rosario Crocetta — che aveva più possibilità  di cambiare maggioranza.
Purtroppo si sta verificando un pasticcio siciliano che prefigura quello che tra pochi mesi potrebbe essere un pasticcio italiano. Crocetta dovrà  trovarsi una maggioranza in Consiglio per non fare l’anatra zoppa.
Per rimpolpare i suoi consensi, dopo l’alleanza pre-voto (non certo entusiasmante con l’Udc), dovrà  stringere un patto con l’ex governatore Lombardo (il suo Mpa ha già  praticato un voto disgiunto ai danni del suo candidato teorico, Miccichè).
Ma anche Miccichè ora si vuole alleare con Crocetta.
E così rischia di ricrearsi una mostruosa alleanza centrista fra Pd, Mpa, Udc, l’Mpa di Lombardo e il Grande Sud di Miccichè.
Roba da spararsi, per chi sognava il cambiamento.
Si potrebbe evitare? Chissà , se il Movimento 5 stelle e Crocetta fosse disposto ad una alleanza, forse sì.
Ma siccome il nonstatuto di Grillo le alleanze le vieta, il cambiamento diventa un sogno impossibile. In Sicilia tornano i politiconi. In Italia rischia di tornare Monti. Vincono i gattopardi.

BATOSTA IN SICILIA. UNA CROCETTA SUL PDL di Maurizio Belpietro

Chissà  se adesso capiranno o faranno finta di nulla. Chissà  se riconosceranno gli errori oppure, come già  è capitato nel passato, tireranno avanti come prima.
Io, dovendo scegliere, scommetterei su quest’ultima ipotesi, ovvero che neppure la batosta siciliana basterà  a farli rinsavire.
Nel Pdl inizierà  la caccia ai responsabili, per cercare di dare la colpa a qualcuno. Invece di riflettere su quanto accaduto, la sconfitta sarà  presa a pretesto per un regolamento di conti interno,un modo per liquidare una carriera e costruirne altre.
Del resto, nel Popolo della libertà  gli indizi che portano a ritenere che le cose finiranno proprio come immagino, cioè con la ricerca di un capro espiatorio per poi proseguire come prima, sono molti.
E il colpevole cui addebitare tutto, inevitabilmente, non può che essere Angelino Alfano, il segretario del partito.
Il quale non solo porta su di sè la responsabilità  della scelta del candidato a governatore della Sicilia e la rottura con Gianfranco Miccichè, l’ex luogotenente berlusconiano che ha sottratto voti al centrodestra condannandolo a sicura sconfitta. Non solo, dicevo, ha deciso lui di affidarsi a Nello Musumeci senza riuscire a trovare un accordo con gli ex di Forza Italia, ma ha pure l’aggravante di essere siciliano e dunque di essere stato battuto in casa propria, là  dove dovrebbe essere il più forte.
Un po’ come se Bersani non riuscisse a imporre un suo uomo neppure in Emilia o a Bettola.
Oltre a ciò, Alfano è un colpevole perfetto cui addebitare ogni colpa in quanto è inviso a un bel po’di berlusconiani e forse anche allo stesso Berlusconi.
Da quando il Cavaliere lo presentò al mondo come suo erede, imponendolo segretario contro il parere dei triumviri, molta acqua è passata sotto i ponti.
L’asse tra il fondatore e il suo successore non è più quello di un tempo, tanto per intenderci del periodo del lodo per le alte cariche dello Stato.
Basti notare come il delfino sia rimasto muto come un pesce dinnanzi alla ridiscesa in campo dell’ex premier dopo la condanna per frode fiscale.
Insomma, Angelino è il candidato più probabile al sacrificio che richiede ogni sconfitta. Ieri era girata voce che lui stesso meditasse di offrire le dimissioni, ma la chiacchiera è stata smentita dalle parti di via dell’Umiltà , sede del quartier generale del Pdl, e poi lo stesso Alfano ha provveduto a negarla.
Il segretario dunque resta al suo posto, ma nessuno ha detto per quanto.
Comunque sia, che cioè l’ex guardasigilli se ne vada o resti seppur dimezzato o osteggiato, la questione non risolve il problema del partito.
Non è Alfano che non va, è il Pdl, la sua immagine,i suoi dirigenti nel complesso, che sono arrivati al capolinea.
È inutile fingere e cercare di scaricare le responsabilità  sul segretario pro tempore. Se anche oggi Angelino venisse rimpiazzato da Berlusconi o dalla Santanchè le cose non cambierebbero.
Cacciati i vertici del partito non tornerebbero gli elettori, perchè il problema del centrodestra è più profondo, più complesso e riguarda, oltre all’assenza di leadership, l’assenza di una proposta politica credibile.
Non si può stare un giorno con Monti e il giorno dopo contro.
Non si può prendere le distanze da una politica economica di sole tasse, ma allo stesso tempo sostenerla in Parlamento.
Non si può essere favorevoli a liste pulite, ma tollerare e chiudere non un occhio bensì entrambi su alcune candidature.
Nella sua negatività  (la Sicilia consegnata alla sinistra, un quadro politico frammentato in cui nessuno ha una maggioranza netta) il risultato elettorale di ieri un aspetto positivo però c’è l’ha, ed è che nonostante il disastro del Pdl, nonostante il centrodestra sia riuscito a dividersi e a fare peggio che altrove, gli elettori non sono passati con il nemico.
Il Pd vince le elezioni, ma perde i voti, arretrando di cinque punti. Futuro e Libertà , il partito di Fini, non arriva al cinque per cento nonostante Granata, Briguglio e Strano. Sel e l’Italia dei valori arretrano sebbene abbiano candidato una donna della Cgil.
E perfino il Movimentocinque stelle, pur diventando il primo partito siciliano, non va oltre il 14 per cento.
Significa che chi votava per il centrodestra, cioè la maggioranza dei siciliani, non è andato altrove, non ha cercato nuovi approdi, ma è semplicemente rimasto a casa. Piuttosto che votare questo Pdl e questo centrodestra, glielettori hanno scelto di non votare.
Il che ai miei occhi ha una sola spiegazione: aspettano che tra i moderati ci sia qualcuno che sia presentabile. Insomma, non sono stati i cittadini a tradire, ma chi avrebbe dovuto rappresentarli.
Dunque, se questa è la situazione — e non vi è dubbio che lo sia — i vertici del Popolo della libertà  scendano dall’Olimpo in cui si sono confinati e dai tacchi a spillo su cui si sono issati e comincino a guardare in faccia la realtà .
In poche parole: facciano un programma che sia degno del nome e poi si facciano da parte favorendo il ricambio, prima che a metterli da parte siano i votanti. E non solo in Sicilia, ma anche a Roma.

QUEL FUGGI FUGGI È UNO SPUTO A TUTTI I PARTITI di Vittorio Feltri

Il partito più forte in Sicilia è quello dell’astensione. Un record in Italia: oltre il 50 per cento. Se teniamo conto soltanto di coloro che si sono degnati di recarsi al seggio, allora è Beppe Grillo a piazzarsi in vetta alla classifica.
Una prodezza, la sua. Egli infatti è arrivato a nuoto nell’isola circa tre settimane fa, e in una ventina di giorni ha conquistato un posto al sole, che poi è una stella e si aggiunge alle cinque già  presenti sul simbolo del movimento fondato dal comico.
Che adesso non fa più ridere,ma semina il panico tra i professionisti della politica straccia.
L’affermazione sicula prelude al trionfo che Grillo avrà  alle consultazioni nazionali della prossima primavera. Se ieri ha ottenuto con la lista intorno al 15 per cento, l’anno venturo incasserà  minimo il 20.
Un dato del genere, del tutto probabile, sarà  il certificato di morte dei partiti tradizionali di destra e di sinistra e di centro, estinti causa suicidio.
Essi, infatti, nonostante la crisi propria, la crisi internazionale e la crisi istituzionale del nostro Paese, invece di riorganizzarsi e dedicarsi con tenacia alla soluzione dei problemi della gente, si sono intorcinati badando solamente a interessi di bottega: la spartizione del potere e la conservazione della poltrona con privilegi annessi e connessi.
Partiti talmente sfilacciati e inconcludenti al punto da essere costretti,un anno fa, a cedere il timone ai tecnici per manifesta inadeguatezza.
E ora pagano dazio.
Il Pd, nonostante se la tiri tanto, in Sicilia arranca: ha raccolto la miseria del 13 e rotti percento,benchè, con la coalizione di sinistra, si sia aggiudicato, grazie a Rosario Crocetta, il trono di governatore.
Il quale governatore, tuttavia, faticherà  (forse invano) ad avere in Consiglio regionale una maggioranza che gli consenta di governare, visto che il Parlamento sarà  occupato da uno spezzatino politico disomogeneo. In queste condizioni, raggiungere un accordo e stabilire alleanze durature, almeno sulla carta, è impossibile.
Occorre registrare la disfatta del Pdl: 12,4 per cento..
Il candidato Nello Musumeci, pur intorno al 25 per cento, si è beccato 6 punti in meno dell’avversario Crocetta, sostenuto anche dall’Udc.
Qualcuno dice che Angelino Alfano abbia commesso l’errore di sganciare Gianfranco Miccichè, perdendo così un bel pò di consensi.
Se è per questo, al Pdl sono mancati anche i voti del Fli (4 per cento).
Ma qui il segretario pidiellino non c’entra. Bisogna fra l’altro riconoscere che quando egli ha ereditato lo scettro di Silvio Berlusconi, il partito era già  in tocchi, e attendersi il miracolo di un ricompattamento era illusorio.
La realtà  va guardata in faccia, e fa paura: nel giro di qualche annetto il centrodestra, per vari e noti motivi, ha dissipato un patrimonio che sembrava indistruttibile. Un’analisi del fallimento richiederebbe una spietatezza che non è il momento di sfoderare.
Limitiamoci a riferire le cifre del grave dissesto e auguriamoci che colonnelli e caporali berlusconiani (ex Forza Italia ed ex An) la smettano di litigare e si impegnino a ricucire strappi e smagliature, altrimenti il Pdl andrà  (metaforicamente, stavolta) a puttane.
Con una sintesi brutale, le elezioni siciliane si commentano in poche parole.
Tra astensioni (53 per cento), schede bianche (4 per cento) e voti assegnati al candidato di Grillo (18 per cento), l’antipolitica arriva al 76 percento.
Chi ha tracciato la croce sul simbolo del Movimento 5 stelle ha inteso sputare sui partiti, chi si è addirittura rifiutato di entrare in cabina non ha più voglia neppure di sputare: risparmia anche la saliva.
Non è una bella immagine,ma è quella della politica, oggi.

DALL’ISOLA AVVISO AI NAVIGANTI di Mario Sechi

La Sicilia è sempre stata un formidabile laboratorio politico, anticipatrice di fenomeni che poi si sono radicati in tutto il Palazzo.
Il voto per il rinnovo del consiglio regionale ci offre una proiezione di quel che accadrà  al Parlamento nazionale se i partiti non intervengono subito con una riforma istituzionale per assicurare al Paese stabilità  e governabilità .
Senza questi due ultimi requisiti nella competizione globale sei perdente in partenza. La salvezza del sistema politico è un pre-requisito per poter sfidare i giganti: il capitalismo senza democrazia della Cina, il capitalismo con la democrazia e un forte presidenzialismo degli Stati Uniti, il mercato e lo Stato forte della Germania, la crescita senza regole dei Paesi emergenti, mette tutti di fronte al dilemma del funzionamento della democrazia.
Pensate alla Sicilia: è una regione esattamente nelle stesse condizioni della Grecia, vicina al default, con un apparato burocratico amministrativo abnorme, dove le assunzioni clientelari sono un volano non solo per la politica ma per l’intero sistema economico che succhia la mammella dei contribuenti.
Può una regione con svariati miliardi di euro di debito essere governata da una maggioranza esile, di volta in volta sottoposta al ricatto delle minoranze necessarie?
Osservate cosa è successo in Spagna: le autonomie locali nel mezzo della crisi hanno svelato i buchi dei loro bilanci, una voragine che ha aggravato la crisi della Agencia tributaria. La situazione italiana rischia di divenire la fotocopia di quella spagnola.
Ma mentre in Spagna i partiti sono riusciti almeno a votare e a varare un governo (quel finto fenomeno di Zapatero ha lasciato posto ed eredità  a Mariano Rajoy), in Italia i partiti, un anno fa, hanno alzato le mani e chiamato Monti per spegnere l’incendio che essi stessi avevano appiccato.
Fanno sorridere quando reclamano le elezioni che essi stessi non hanno voluto. L’insegnamento che viene dalla Sicilia è un gong potente che dovrebbe svegliare tutti: i vincitori, i vinti e quelli che si apprestano a fare il primo passo nel Palazzo.
Nessuno andrà  lontano perchè la recessione economica si sta intrecciando con la crisi finanziaria e quella politica.
È in corso un pericoloso avvitamento delle istituzioni che rischia di trascinare il Paese a fondo.
Da tempo sostengo che l’Italia ha bisogno di uno shock per risollevarsi.
La sua storia lo dimostra ed è questa la tesi di fondo di «Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta», il libro che ho scritto per Mondadori.
L’Italia è un grande Paese, terra di geni e costruttori di realtà  e di immaginario, sta per affrontare un altro passaggio chiave della sua storia.
Bisogna fare le riforme, accettare il peso di una lunga traversata nel deserto per riscoprire le radici di un Paese che ce l’ha fatta e ce la farà  ancora.

(da Jack’s blog)

This entry was posted on martedì, Ottobre 30th, 2012 at 10:04 and is filed under elezioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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