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ESCALATION DI VIOLENZE DELL’ESERCITO E DEI COLONI ISREAELIANI CONTRO I PALESTINESI IN CISGIORDANIA: “FANNO QUELLO VOGLIONO”

AGGRESSIONI, OMICIDI, TORTURE PER COSTRINGERE LA POPOLAZIONE A LASCIARE LA LORO TERRA: ISRAELE ORMAI E’ UNO STATO CRIMINALE

Mentre gli occhi del mondo guardano al massacro di Gaza con oltre 40 mila morti causati dai bombardamenti dell’esercito israeliano, in Cisgiordania dopo il 7 ottobre la violenza dei coloni e dell’esercito contro i villaggi palestinesi ha vissuto un’escalation. Assalti armati ai villaggi, demolizione delle case, distruzione dei campi agricoli, sono all’ordine del giorno in quello che sembra un disegno per costringere i palestinesi a lasciare intere regioni.
La zona del Masafer Yatta, a sud di Hebron, è quella più colpita dalle azioni violente dei coloni con la complicità delle forze armate israeliane, composte in questa regione, dagli stessi coloni.
L’escalation di violenze dopo il 7 ottobre: “I coloni fanno ciò che vogliono”
Senza la presenza degli attivisti internazionali documentare quello che avviene in Cisgiordania sarebbe davvero molto difficile. È grazie agli occhi ed alle telecamere degli osservatori internazionali che si riesce a mostrare al mondo cosa avviene nei territori palestinesi, accanto ai quali sono spuntati come funghi negli ultimi anni, una miriade di insediamenti dei coloni israeliani. Gli stessi insediamenti dichiarati illegali dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja lo scorso luglio, che ne ha chiesto lo smantellamento.
La risposta del governo Netanyahu è stata l’autorizzazione a costruire 6000 nuove abitazioni in territorio palestinese. Proprio la copertura fornita dal governo e dalle forze armate israeliane ai coloni, ha consentito una terribile escalation di violenze in Cisgiordania nell’ultimo anno, mentre gli occhi del mondo assistevano al massacro di Gaza.
Zoccolo duro dell’elettorato dei ministri Ben Gvir e Smotrich, i coloni sono stati armati, hanno ricevuto compiti di polizia, potendo compiere fermi e arresti, e a loro è garantita una sostanziale impunità per tutto quello che compiono contro i palestinesi. La zona più colpita da quella escalation di violenza è la regione del Masafer Yatta, a sud di Hebron. Ai tempi della costruzione del muro della vergogna voluto dall’ex primo ministro Ariel Sharon, le autorità israeliane non riuscirono a chiudere il cerchio nelle regioni del Sud, tagliando completamente fuori i villaggi palestinesi dalle città più importanti. Ma negli anni una costante politica di occupazione, fatta di aggressioni e violenze, prova a spingere i palestinesi a lasciare queste terre per permettere ai coloni di occuparle.
È qui che è attiva da oltre 10 anni la presenza di “Operazione Colomba”, che svolge un’opera di interposizione tra la popolazione civile palestinese, i coloni israeliani e l’esercito. Negli ultimi mesi i volontari italiani sono stati affiancata da Mediterranea Saving Humans, l’associazione italiana che si occupa di soccorso in mare ai migranti, che ha rafforzato la presenza degli osservatori internazionali nell’area.
“Dopo il 7 ottobre abbiamo assistito ad una escalation di violenza estrema in West Bank – spiega a Fanpage.it Rebecca Fantu di Operazione Colomba – ci sono stati tantissimi omicidi sia da parte dei coloni che dell’esercito israeliano, è aumentata la costruzione di avamposti che sono il preludio alla costruzione di vere e proprie colonie. Stanno realizzando addirittura delle strade ad uso esclusivo dei coloni, per limitare la libertà di movimento dei palestinesi. Tutto questo fa parte di un disegno che è quello di rendere la vita sempre più difficile a chi vive qui”.
In questa zona i coloni girano continuamente armati, danno vita a provocazioni, assalti violenti, sparatorie, contro la popolazione dei villaggi. I membri dell’esercito che controlla questa zona sono gli stessi coloni che vivono negli insediamenti. “I coloni si spingono sempre più oltre, osano molto di più – ci dice Serena Sardi di Mediterranea Saving Humans – sanno di poter contare sull’impunità. Loro sostanzialmente dovrebbero controllare loro stessi. Una situazione incredibile”.
L’elenco delle aggressioni negli ultimi mesi è lungo e ampiamente documentato grazie al lavoro degli attivisti internazionali. A Sheab al Botom, a Susya, a Khallet Athaba, i coloni armati di bastoni e con le pistole nella fodera, hanno assaltato le case dei palestinesi, come dimostrano i video girati dagli attivisti palestinesi e internazionali. Colpiscono i primi che capitano, oppure marciano di notte sui villaggi distruggendo e dando fuoco a tutto quello che trovano, come una sorta di moderno Ku Klux Klan.
“A Khallet Athaba a luglio scorso, i coloni sono arrivati di notte in gran numero, hanno iniziato a dare fuoco alle case, a distruggere le macchine, i pannelli solari che garantiscono l’elettricità al villaggio – racconta Sardi – poi hanno iniziato a inseguire gli attivisti palestinesi e internazionali che stavano filmando. Un nostro attivista è stato raggiunto dai coloni che lo hanno preso, lo hanno picchiato e lo hanno ferito con una zappa al viso. È riuscito poi a scappare ed è stato curato all’ospedale di Yatta”.
È andata peggio a Zakhariah Al Arda, abitante del villaggio di At Twani, che pochi giorni dopo il 7 ottobre, è stato sparato dai coloni mentre usciva dalla preghiera del venerdì. Così, senza motivo. Un gruppo di coloni dell’insediamento di At Mahon aveva fatto irruzione nel villaggio armati di mitra, ed hanno sparato sulla folla, colpendo Zakhariah da breve distanza. Solo dopo numerose e delicate operazione, è riuscito a tornare a casa sano e salvo.
Il sistema di demolizione delle case: “Vogliono che non ci sentiamo al sicuro”
Un altro strumento delle politiche di occupazione israeliane è quello della demolizione sistematica delle case all’interno dei villaggi. Militari e bulldozer arrivano di primo mattino, periodicamente, distruggendo le case. Il villaggio di Um Al Kahir, sempre nel Masafer Yatta, è tra i più colpiti da questa pratica. Accanto alle case dei palestinesi è sorta la colonia di El Carmel. La strada di accesso al villaggio è la stessa che conduce al cancello d’ingresso della colonia. Le ville con giardino dei coloni affacciano sulle baracche e le case diroccate dei palestinesi circondati dalla sabbia desertica e dalle pietre. A dividerli sono una rete con il filo spinato.
“Qui ad Um Al Kahir il problema più grande sono le demolizioni, hanno iniziato a farle nel 2007 – spiega a Fanpage.it Tarek Hataaleen, attivista del villaggio – il pretesto è sempre lo stesso, dicono che non abbiamo un permesso per costruirle. Lo scorso 26 giugno c’è stata una demolizione veramente pesante come impatto sulla popolazione del villaggio. Sono arrivati alle 9 del mattino con i militari ed i bulldozer ed hanno distrutto 17 edifici. Prima hanno demolito la casa comune del villaggio, poi si sono diretti verso la cabina dell’elettricità. Hanno distrutto anche 11 case”.
Le persone che hanno perso la casa nella demolizione del 26 giugno hanno iniziato a vivere sotto a delle tende di fortuna, piazzate sopra le macerie delle loro abitazioni. Lo scorso 14 agosto, l’esercito israeliano è tornato ad Um Al Khair, distruggendo le tende sotto cui si erano riparati gli sfollati della precedente demolizione. Ed è così che la popolazione del villaggio è scesa negli anni fino al numero di 200 abitanti, mentre accanto nella colonia di El Carmel, tra alberi e giardini, gli israeliani sono diventati 600. Un esempio lampante dello scopo delle politiche di occupazione.
Dovendo usare la stessa via d’accesso per arrivare alle proprie case, le aggressioni ad Um Al Khair sono frequenti. Una delle pratiche dei coloni è la distruzione dei sistemi di irrigazione dei campi agricoli palestinesi. Ad Um AL Khair pochi mesi fa sono stati tagliati tutti i tubi dell’acqua dai coloni, protetti dall’esercito, che hanno anche fatto il bagno nelle vasche per l’acqua potabile. Uno vero e proprio sfregio senza senso.
“Ti impongono questa realtà, vogliono che tu non ti senta al sicuro in nessun posto sulla tua terra – spiega a Fanpage.it Hamoudi Hureini, attivista del villaggio di At Twani – loro trattano i palestinesi non come esseri umani, ma come numeri, oggi siamo vivi, ma ci uccideranno o ci evacueranno dalla nostra terra”. Negli ultimi mesi ormai i coloni sembrano poter fare qualsiasi cosa, senza alcun rischio di essere incriminati per alcun reato. “I coloni sono protetti dal governo israeliano – sottolinea Hamoudi – girano armati e ormai controllano questa zona”.
Carcere e torture per gli attivisti
Da dopo il 7 ottobre il governo israeliano ha imprigionato senza accusa e senza iter processuale ben 9500 persone. Il dato viene riportato anche dai rapporti ufficiali della relatrice Onu per i diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese. Attualmente ne sono detenuti oltre 3000, li chiamano prigionieri amministrativi, si tratta di persone comuni o attivisti che vengono arrestati con il solo sospetto di essere legati ad attività che mettono in pericolo la sicurezza di Israele.
Per loro non ci sono accuse, non ci sono prove, non c’è nemmeno un processo, restano in carcere fino a quando le autorità israeliane non decidono di rilasciarle. Tra questi sono tantissimi quelli che hanno testimoniato di aver subito torture. Tra questi c’è anche Munther Amira, uno dei leader del movimento non violento palestinese. Lo incontriamo nella sua casa nel campo profughi di Aida, nella città di Betlemme.
Munther è stato in prigione per 6 mesi, dove ha subito violenze di ogni tipo, ed è stato rilasciato a marzo di quest’anno. A Fanpage.it ha deciso di raccontare l’esperienza delle torture subite. “Prima mi hanno picchiato, erano due soldati. Poi quando ero esausto mi hanno costretto ad alzarmi, sono arrivati con un magnetometro, è uno strumento che serve per fare i controlli di sicurezza sul corpo. Mi hanno obbligato a stare con le gambe aperte, e hanno iniziato a giocare con il magnetometro tra le mie gambe, e mentre lo facevano ridevano. Hanno filmato tutto, ed è quello il mio più grande incubo che mi passa per la testa. So che nel tempo potrebbero rilasciare quel video o delle foto di quelle violenze”.
Una testimonianza agghiacciante quella di Munther Amira, considerato tra i principali punti di riferimento nelle iniziative di solidarietà per la popolazione civile palestinese nell’area di Betlemme. Impegnato nel supporto alle scuole, alla formazione professionale degli adolescenti, a distribuire estintori nei villaggi che consentono agli abitanti di spegnere gli incendi provocati dagli assalti dei coloni, Munther con la sua testimonianza apre uno squarcio sulla parte più terribile dell’azione delle autorità israeliane.
“Quando camminavo in prigione ero sempre ammanettato con le mani dietro la schiena – racconta – dovevo tenere la testa piegata in avanti e se provavo a guardare per capire dove mi trovassi erano pronti a colpirmi con i bastoni dietro la nuca. Potevo solo guardare a terra. La cosa più degradante è che quanto sei con la testa calata tutti cercano di colpirti, di spingerti la testa, il tuo corpo è completamente nel loro controllo. Sono animali, non saprei come altro definirli”.
La resistenza non violenta per fermare l’occupazione
In Palestina tutte le organizzazioni politiche sono state messe al bando da Israele, non ci sono più partiti, non c’è più nulla, e l’Autorità Nazionale Palestinese è considerata dagli stessi palestinesi un luogo esclusivo di corruzione e malaffare. In questo scenario ha resistito solo il movimento non violento, oggi unico spazio di agibilità politica per i palestinesi, che ha però una storia molto lunga. Nel Masafer Yatta lo strumento di opposizione alle politiche di occupazione è quella del “sumud” con la definiscono i palestinesi, che in italiano si potrebbe tradurre con “resilienza”.
Alla distruzione delle case si risponde con la costruzione di nuove case, alla distruzione dei raccolti si risponde piantando, alle aggressioni si risponde difendendosi in maniera non violenta, agli spari si risponde filmando e denunciando al mondo quello che compiono i coloni. Indispensabile in questa pratica è stato negli anni il supporto degli attivisti internazionali, come quelli di Operazione Colomba e più recentemente quelli di Mediterranea Saving Humans, ma anche della rete internazionale Faaza e dell’International Solidariety Movement, che comprende anche molti attivisti israeliani che arrivano nella West Bank a supporto dei palestinesi.
“Per me il sumud è un concetto collettivo, significa che il potere è del popolo – racconta a Fanpage.it Hafez Hureini, leader di Youth of Sumud e uno dei capi storici del movimento non violento palestinese – come essere umani vedi i tuoi diritti violati ogni giorno, ogni singolo giorno vedi che non c’è giustizia, questo può spingerti ad usare la violenza, è qualcosa di naturale, è umano. Ma quando usi la violenza contro l’occupazione israeliana fai felice l’occupazione israeliana, perché in questo modo loro possono fare vedere ai media i “palestinesi terroristi”. La loro è una strategia, provano a forzarti in ogni modo ad usare la violenza”.
Basta farsi un giro per i villaggi per comprendere come le parole di Hafez abbiano un riscontro immediato in quello che è il comportamento degli israeliani nei territori occupati. Una strategia che tende a schiacciare i palestinesi fino a portarli al limite. “La pratica non violenta è entrata nella nostra cultura qui nel Masafer Yatta – spiega Hafez Hureini – dopo il 7 ottobre ci stanno provando in ogni modo a spezzare anche questa resistenza, usando sempre più violenza. Ma noi continuiamo con questa scelta, il popolo del Masafer Yatta e delle zone a sud delle colline di Hebron ha deciso di proseguire su questa linea”.
Una resistenza le cui forme colpiscono in maniera forte chi le osserva davanti a una quotidianità fatta di inaudite violenze e soprusi. “Quello che davvero colpisce è che i palestinesi sono determinati a proseguire così – dice Serena Sardi di Mediterranea Saving Humans – hanno accettato che un bulldozer può arrivare e distruggergli la casa, hanno accettato che appena piantano un albergo glielo distruggeranno e dovranno ripiantarlo, e lo fanno perché sanno di essere nel giusto, che questa è la loro terra ed hanno diritto di restare qui e qua rimangono”.
Da qui, dai territori palestinesi in Cisgiordania, è impossibile non porsi delle domande su cosa rappresenta oggi Israele. “Noi in questi anni abbiamo assistito ad una serie innumerevole di violenze – ci dice Rebecca Fantu di Operazione Colomba – oggi con le aggressioni anche agli attivisti internazionali, capiamo che non vogliono testimoni di quello che accade qui in Cisgiordania. Sappiamo bene che in Israele ci sono le elezioni, le persone possono andare a votare, questo non vuol dire che non vengano commessi continuamente crimini. Tutto quello che vediamo ci dice che si sta andando verso una sostituzione demografica in questa terra, attraverso l’occupazione illegale, le violenze, gli omicidi, i soprusi, gli arresti arbitrari nei confronti dei palestinesi. Tutto questo ci fa pensare che si faccia molto affidamento sull’impunità e non so se tutto questo ha a che fare con la democrazia”.
(da Fanpage)

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