FAMIGLIE PIU’ POVERE, QUEL BUCO NERO ITALIANO
RAPPORTO ISTAT: IL PESO DELL’INFLAZIONE E’ AUMENTATO DELL’8,7% RISPETTO AL 2007… UN ITALIANO SU QUATTRO E’ A RISCHIO POVERTA’
Non solo i salari, anche i redditi di varia fonte delle famiglie italiane non riescono a tenere il passo con l’inflazione, che brucia ogni piccolo miglioramento nominale. E aumentano le diseguaglianze. È quanto emerge dall’indagine Europea su Redditi e condizioni di vita.
Rispetto al 2007, anno precedente la grande crisi finanziaria, Istat stima che in termini reali, ovvero di potere d’acquisto, le famiglie abbiano perso in media l’8,7 per cento, una perdita che tuttavia è diversamente distribuita a seconda della fonte di reddito principale e dell’area territoriale. È stata particolarmente intensa, il doppio (17,5 per cento), per le famiglie la cui fonte di reddito principale è il lavoro autonomo, seguite da quelle con fonte di reddito principale il lavoro dipendente, che hanno perso l’11,0 per cento. Viceversa, le famiglie il cui reddito è costituito principalmente da pensioni e trasferimenti pubblici registrano un incremento pari al 5,5%. Nello stesso arco di tempo, la perdita è stata maggiore, rispettivamente del 13,2 e 11%, nelle regioni del Centro e del Mezzogiorno, minore nel Nord-Est e soprattutto Nord Ovest, dove è stata rispettivamente del 7,3 e 4,4 per cento. Nel periodo più recente, tuttavia, tra il 2022 e 2023, a livello territoriale il trend di perdita, che pure è continuato, ha colpito di più il Nord-Est, dove i redditi reali sono scesi del 4,6 per cento in un anno, seguito dal Centro con una perdita del 2%, mentre nel Mezzogiorno la perdita è stata inferiore a un punto percentuale. Viceversa nel Nord-Ovest si è registrato un piccolissimo miglioramento. Accanto ai redditi da lavoro autonomo, a perdere di più nel 2023 sono stati i redditi derivanti da
trasferimenti pubblici, a causa della riduzione delle misure di sostegno legate ai costi energetici e della revisione dei criteri di accesso al reddito di cittadinanza, che hanno colpito rispettivamente i pensionati con redditi modesti e le famiglie più povere. Queste ultime, secondo una stima dell’Istat pubblicata qualche giorno fa e di cui si è già parlato su questo giornale, risulteranno ulteriormente perdenti nel 2024 a seguito della definitiva abolizione del RdC e la sua, parziale, sostituzione con Adi e Sfl.
Le disuguaglianze territoriali e tra i gruppi sociali nell’incidenza dell’inflazione si combinano con le disuguaglianze nei livelli di reddito disponibile. Sono le famiglie del Nord-Est a disporre di un reddito mediano più elevato: 34.772 euro annui. Le famiglie del Nord-Ovest, Centro e Mezzogiorno hanno redditi mediani rispettivamente del 5, 8 e 28 per cento più bassi. Queste differenze territoriali sono solo molto parzialmente e non dappertutto, compensate da un diverso costo della vita ed invece acuite, specie nel caso del Mezzogiorno, ma anche delle aree interne delle regioni più ricche, da una minore dotazione di beni pubblici: trasporti, servizi sanitari, servizi per l’infanzia, scuole a tempo pieno, biblioteche ed altro. Da notare che le regioni con redditi familiari mediani più bassi sono anche quelle con il livello di disuguaglianza, misurato dall’indice di concentrazione Gini: 0,339 nel 2023 rispetto allo 0,323 nazionale (in peggioramento rispetto allo 0,315 del 2022), a fronte dello 0,303 del Nord-Ovest e soprattutto lo 0,276 del Nord-Est (l’unica area territoriale che vede un miglioramento), con il Centro vicino alla media nazionale, 0,314. Anche le, consistenti, disuguaglianze di reddito tra italiani e stranieri sono maggiori nelle regioni meridionali. Si configura, così, una situazione simile a quella in molti paesi in via di sviluppo, dove ad una maggiore incidenza della povertà si accompagna anche un più forte divario tra ricchi e poveri.
Un fenomeno non nuovo, ma che non mostra elementi di miglioramento. Questi dati vanno letti anche alla luce di quelli sulle tendenze nel mercato del lavoro: non solo nei livelli di occupazione, che sono un po’ aumentati, ma nell’incidenza del lavoro povero e dei lavoratori poveri, due fenomeni distinti. Il primo riguarda chi ha percepito un reddito da lavoro annuo inferiore al 60% della mediana dei redditi individuali da lavoro. Riguardava nel 2023 il 21% del totale dei lavoratori, rispetto al 16,7 per cento del 2007 e senza variazioni rispetto all’anno precedenti. Si tratta in prevalenza donne di ogni età e giovani
di ambo i sessi e gli stranieri di ogni età e sesso. Nel caso delle donne e giovani autoctoni non sempre si traduce in una condizione di lavoratori poveri rispetto all’accesso al consumo, perché si può trattare di secondi redditi familiari. Ma non riuscire ad avere un lavoro che dia un reddito adeguato costituisce un vincolo fortissimo, per i giovani, all’uscita dalla famiglia di origine e alla formazione di una propria, per le donne e i loro figli se il rapporto di coppia per qualche ragione finisce. L’incidenza del rischio di povertà (relativa) o esclusione sociale, infatti, è molto elevato tra i giovani che vivono da soli. Lo è ancora di più tra le donne mono-genitore. Ma il rischio di povertà nonostante un’occupazione può riguardare anche chi ha un reddito da lavoro superiore al 60 per cento della mediana, se deve bastare per tutta la famiglia. Nel 2024 si è trovato in questa situazione oltre il 10 per cento degli occupati (8,9 e 22,6 per cento rispettivamente degli italiani e degli stranieri), in lieve aumento rispetto all’anno precedente. L’incidenza è maggiore per i lavoratori in famiglie numerose, toccando il 21,7 percento tra i lavoratori in coppia con tre o più figli, rispetto, rispettivamente al 6,6 e 8,1 per cento per i lavoratori in coppia senza figli e con un figlio. Pur avendo bisogni maggiori, le famiglie numerose sono più spesso mono-percettore di reddito, specie se i genitori sono a bassa istruzione e se vivono in contesti dove le politiche di conciliazione famiglia-lavoro e i servizi sono assenti o insufficienti.
Un quadro non incoraggiante, ma che offre elementi utili per valutare criticamente che cosa occorrerebbe fare per migliorare una situazione che sembra irrimediabilmente in stallo, quando non in peggioramento, sul piano delle diseguaglianze ed anche degli effetti di queste sulle scelte riproduttive.
(da La Stampa)
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