GIORGIA MELONI, LA PONTIERA SENZA PONTE
DAZI, LA PONTIERA MELONI HA FALLITO, LA MANOVRA ADESSO FA PAURA, I DAZI CONDIZIONERANNO LA LEGGE DI BILANCIO
Giorgia Meloni, la “pontiera” tra le due sponde dell’Atlantico, è uscita a pezzi dall’accordo sui dazi al 15 per cento siglato tra Ue e Usa. Il grande bluff del ruolo decisivo è stato svelato: i decantati rapporti speciali tra la premier italiana e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non hanno sortito alcun effetto.La narrazione meloniana, quella ciclostilata con la copertina del Time, è evaporata davanti alla prova decisiva. Una pontiera senza ponte.
All’insaputa di Meloni
Certo, la soddisfazione del governo era l’unica reazione possibile. A palazzo Chigi il copione era stato preparato a puntino da qualche giorno nelle conversazioni informali: all’annuncio dell’intesa bisognava diffondere una nota congiunta della presidente del Consiglio e dei suoi vice, Matteo Salvini e Antonio Tajani, in cui «accogliere positivamente la notizia».
Meno semplice è stata la gestione dell’inevitabile imbarazzo. Alla richiesta di un commento più puntuale, la premier si è comportata come se fosse una passante: «Attendo i dettagli»
sulle «possibili esenzioni, particolarmente su alcuni prodotti agricoli». Ha traccheggiato, comprendendo la difficoltà a mandare giù un compromesso al ribasso. Meloni ha poi aggiunto: «Non so a che cosa ci si riferisca quando si parla di investimenti, acquisto di gas».
Messa così, sarebbe stata all’oscuro delle informazioni essenziali, senza nemmeno conoscere il mandato conferito alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Tutto a sua insaputa. Non proprio l’immagine di una leadership sfavillante, come ripetuto a social unificati dai dirigenti del suo partito.
Il tema dei dazi è stato sempre un problema per Meloni. Fin dall’insediamento di Trump, la premier ha pattinato sulla prudenza, invitando al pragmatismo e alla cautela. Non si è mai spinta a parlare dei dazi come «un’opportunità», a differenza di quanto ha sostenuto Salvini, ma ha fatto professione di ottimismo su un possibile accordo favorevole. Così non è stato.
Ora bisogna correre ai ripari. La Cgil ha subito chiesto la convocazione a palazzo Chigi delle parti sociali per «valutare i provvedimenti necessari per tutelare lavoratrici e lavoratori e salvaguardare il tessuto produttivo», ha detto il segretario confederale Christian Ferrari. L’accordo rappresenta un sicuro contraccolpo per l’economia italiana.
Ne sono consapevoli tutti i settori produttivi del paese, Confindustria in testa, già messi a dura prova dal calo continuo della produzione industriale: la batosta per l’export rischia di
accelerare il declino. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva fissato al 10 per cento la soglia «ragionevole». Aggiungendo: «Non si può andare molto lontano perché altrimenti diventa insostenibile». Chissà se il 15 per cento rientra nella categoria del «non molto lontano».
Manovra dei dazi
Nell’attesa di comprendere le contromisure, sia a livello europeo che nazionale, nel governo si guarda con una certa apprensione alla prossima manovra, che sarà la penultima della legislatura: quella decisiva per definire la strategia economica del governo. Ammesso che esista. Intanto, le grandi promesse elettorali come flat tax e la cancellazione della riforma Fornero sulle pensioni resteranno ancora dei “buoni propositi”.
Del resto, come raccontato da Domani, già nel decreto Economia in esame al Senato il governo ha dovuto cercare risorse in ogni angolo del bilancio, togliendo 48 milioni al fondo anti-povertà per istituire il “bonus mamme” e finanziare il rinnovo dell’Ape sociale (il pensionamento anticipato di alcune categorie di lavoratori).
Insomma, nemmeno il tempo di brindare all’aumento delle entrate, superiore a 13 miliardi di euro, che sul Mef si addensano nuove nubi. Al momento negli uffici di via XX Settembre viene escluso che queste risorse possano essere usate per finanziare interventi: Giorgetti vuole abbattere il deficit e rispettare i patti con l’Europa.
Ma l’introduzione dei dazi al 15 per cento può modificare
l’impostazione della legge di Bilancio. Più che i tagli alle tasse, che erano stati indicati come una delle priorità, sarà lo stimolo alle imprese al centro del provvedimento. «Bisogna valutare l’impatto reale dell’accordo», è il discorso che dal Mef è stato trasmesso a palazzo Chigi. La pausa estiva viene vista come toccasana per provare a reperire le risorse necessarie.
Le opposizioni hanno chiesto una presa di posizione. «Il governo chiarisca subito quali misure intende mettere in campo per attutire i danni e rilanciare la domanda interna», ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein. Anche nella maggioranza c’è chi affronta il discorso. Tajani ha ribadito che il compromesso al 15 per cento è «sostenibile». Ma il responsabile economico del suo partito, il deputato Maurizio Casasco, ha spiegato che «le imprese vanno sostenute con misure immediate».
Nei mesi scorsi Meloni aveva ipotizzato l’uso di 25 milioni di euro, da prelevare dai fondi Pnrr, per dare un supporto ai settori più colpiti dall’aumento di dazi. Ora che l’incremento è diventato realtà, serve trasformare le parole in fatti. Perché per tenere in piedi il tessuto produttivo, non è sufficiente definirsi pontieri con Trump.
(da editorialedomani.it)
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