GROZNY, ALEPPO, BUCHA, MARIUPOL: LA BRUTALITÀ RUSSA SI RIPETE
MOSCA NEGA I CRIMINI DI GUERRA IN UCRAINA, COME FECE NEL 1940 CON L’ECCIDIO DEGLI UFFICIALI POLACCHI A KATYN, O CON LE “PULIZIE” DEI CECENI E L’AVVELENAMENTO DEGLI OPPOSITORI
«Mai più». In Europa, il mantra, scritto su monumenti e manifesti, vorrebbe scongiurare un orrore impossibile, rimasto nella memoria dalla guerra più crudele mai sperimentata finora.
In Russia, sugli adesivi appiccicati ai parabrezza e sui quaderni scolastici, sulle fiancate dei missili e sugli striscioni alle manifestazioni, si scrive «Possiamo replicare». Non è uno scongiuro, è una minaccia.
Una promessa. Un auspicio. Un modello. E le repliche sono state messe in scena, più e più volte. Grozny. Aleppo. Donbass. Bucha.
Quello che ha colpito l’immaginazione del mondo, nelle guerre russe degli ultimi decenni, è stata quella spietatezza indiscriminata, lo sfoggio di brutalità inutile, senza alcun criterio non soltanto di umanità, ma di ragionevolezza nell’utilizzare la forza bellica.
La distruzione come metodo di conquista, con Mariupol come monumento più recente a questo modello di guerra. Lo sterminio come metodo di sottomissione di un popolo che si dichiara “fratello”.
Il politologo russo Abbas Galyamov si chiede se la strage dei civili a Bucha sia stata una «violenza spontanea dei soldati e ufficiali russi per vendicarsi della loro umiliante sconfitta», oppure se sia avvenuta «per ordine del partito della guerra che vuole silurare il negoziato», e confessa che preferirebbe la seconda ipotesi, perché non vuole «credere che cittadini russi siano capaci in massa di atrocità così epiche»
Che però sono già state commesse diverse volte, e non sono state degli incidenti, delle eccezioni, degli eccessi scappati di mano, sono state stragi volute, e negate con la stessa veemenza con la quale il Cremlino oggi nega Bucha.
Come aveva negato nel 1940 l’eccidio degli ufficiali polacchi a Katyn, attribuendolo a un “fake” dei tedeschi.
Come aveva negato nel 2000 le “zachistke”, le “pulizie” dei ceceni, che facevano sparire dai villaggi tutti gli abitanti di sesso maschile, portati a torturare nei “campi di filtraggio”, oppure uccisi per le strade, esecuzioni sommarie, esattamente come a Bucha.
Come aveva negato l’uso di armi chimiche in Siria, l’avvelenamento di oppositori, le torture nelle carceri: era sempre una «provocazione dei media occidentali», volta a screditare un Paese che non ha mai ammesso nessuna colpa e non ha mai chiesto scusa o almeno manifestato rammarico per nulla.
Quando, nel 1945, l’Armata Rossa si portò via dalla Germania treni interi – gli aneddoti sulle mogli degli ufficiali sovietici che sfoggiavano le sottovesti di pizzo delle tedesche, scambiandole per abiti da sera, sono ormai storia, come i lampadari e i divani art decò nelle dacie di celebri scrittori e generali – gli europei considerarono questo saccheggio la ricompensa per un popolo poverissimo, e il suo sacrificio.
Quarant’anni dopo, con il crollo del Muro, gli ex sovietici scoprirono che i tedeschi che avevano sconfitto vivevano infinitamente meglio dei vincitori.
Ottant’anni dopo, quella guerra terribile viene sognata dai russi come il momento più intenso e giusto della propria storia, un trionfo di violenza che giustifica una missione nazionale, una vittoria conseguita all’insegna del motto staliniano «se il nemico non si arrende, va annientato»
Volodymyr Zelensky oggi si chiede, insieme a quel 5% dei russi che nei sondaggi dichiarano di provare “vergogna” per il proprio Paese come hanno potuto le madri russe tirare su “saccheggiatori e carnefici”.
Una risposta possibile si nasconde in quel culto della guerra, che equipara forza e violenza, e considera la grandezza come diritto a imporre e sottomettere.
«La Russia è un Paese governato dai forti, le leggi sono riservate ai deboli», sintetizza un pensiero nazionale radicato il politologo Vladimir Pastukhov, in uno degli ultimi numeri della Novaya Gazeta ormai chiusa.
Se le dittature resistono per decenni, non è soltanto perché reprimono il dissenso: creano una piramide della violenza, nella quale ciascuno accetta di venire abusato dal superiore, in cambio del diritto di abusare dei sottoposti.
Una sorta di nonnismo su scala nazionale, dove i generali mandano gli ufficiali a morire senza munizioni per accontentare il capo supremo, tenenti e capitani si premiano saccheggiando le case ucraine, e i soldati affamati raccattano possono sentirsi parte di una “potenza” violentando e uccidendo civili con le mani legate.
È la banalità del male degli autoritarismi, ed è quella la diversità dalla civiltà occidentale che la Russia rivendica da anni, quel “difetto genetico” che, secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, impedisce all’Europa di accettare la Russia.
Ogni volta che Mosca ha fatto un passo indietro rispetto a all’Occidente è stato proprio per difendere il diritto sovrano a usare la forza: i primi screzi delle critiche europee alle pulizie etniche dei ceceni sono diventati crepe con la repressione degli oppositori e dei media liberi, e voragini con i brogli elettorali e la discriminazione delle persone Lgbtq.
Non è stato il famigerato “accerchiamento della Nato”, a spingere la Russia putiniana lontano dall’Europa, ma il rifiuto di un sistema dove avere potere non significa automaticamente poter massacrare impunemente gli avversari. Grozny. Aleppo. Bucha. Mariupol. To be continued.
( da La Stampa)
Leave a Reply